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Under-21 che credevamo finiti
02 lug 2019
02 lug 2019
Giocatori che non credevamo ancora in un torneo giovanile.
(articolo)
12 min
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Qualche settimana fa stavo guardando l’Europeo Under-21, Austria e Serbia si affrontavano a Trieste, in una sfida primo novecentesca. Gli spalti del Nereo Rocco, bellissimi coi suoi seggiolini rossi, erano così vicini al campo che non sembrava di essere in uno stadio italiano. L’Austria non toccava il pallone, ma stava vincendo per uno a zero, compatta e organizzatissima nella propria metà campo si muoveva coltivando l’illusione di essere un corpo solo, come un esercito napoleonico. Dall’altra parte la Serbia sembrava invece un insieme di mercenari che non parlava la stessa lingua, ogni giocatore preso a seguire il proprio personale spartito. A un certo punto, con la maglia numero 10 e la fascia da capitano al braccio, è comparso Andrija Zivkovic.

Quando Zivkovic era considerato un giovane prodigio, nel 2014, eravamo in un’epoca diversa. Barack Obama era ancora il presidente degli Stati Uniti e Netflix doveva ancora sbarcare in Italia. È qualche stagione che non si parla più di lui come uno dei migliori talenti al mondo, come è possibile che sia ancora in un Europeo Under-21, una competizione che in teoria dovrebbe funzionare da vetrina dei migliori giovani al mondo?

Non potevo credere che Zivkovic fosse ancora così giovane: neanche 23 anni e già così masticato dal ciclo mediatico del calcio contemporaneo, che lo ha già visto giovane promessa, poi povero stronzo e infine riserva con qualche potenzialità in una squadra della medio-alta borghesia europea come il Benfica. Mi sono chiesto se era un problema di Zivkovic, di come i media raccontano il calcio giovanile oppure se si trattasse proprio di una specie obsolescenza precoce causata dal sistema moderno di selezione/formazione/consumo del talento. Probabilmente, un mix di tutte e tre le cause.

Allora ho aperto la lista dei convocati all’Europeo Under-21 (che nel frattempo si è concluso con la vittoria della Spagna) e non immaginavo di trovare un cimitero degli elefanti del genere. Le squadre erano piene di giocatori che abbiamo già smesso di considerare forti, su cui ci siamo già arresi all’idea di un loro fallimento. Oppure giocatori che si sono già normalizzati, ingrigiti nella classe impiegatizia delle squadre europee. Il calcio contemporaneo crea un orizzonte di aspettative così pressante e precoce che è diventato quasi automatico, per un giovane talento, passare per il momento in cui deluderà le aspettative, prima magari di dimostrare il suo reale valore, oppure di risistemarsi su un livello per forza inferiore rispetto a quello che credevamo.

Se ci pensate, vale quasi per ogni grande talento del calcio che seguiamo ogni giorno - tranne che per qualche prescelto come Ronaldo, Messi o Mbappé. Tutti ci siamo sentiti traditi dalle mancate promesse di un giovane calciatore (su UU abbiamo dedicato una rubrica a questa esperienza comune) e persino i talenti più puri e indubbi - come Neymar, Modric, Bale - hanno attraversato uno, se non più momenti in cui non sono sembrati all’altezza di quanto avevano promesso.

Siamo al paradosso secondo cui per molti giocatori questo Europeo Under-21 serviva più per dimostrare di non essersi ancora bruciati che per mettersi davvero in mostra. Ho raccolto una lista di giovani che in questi Europei mi sono sembrati più vecchi dell’età reale che hanno, che pensavamo spariti, ma che a tutti gli effetti sono ancora troppo giovani per essere dichiarati finiti.

Il ritratto di Demarai Gray

Per dire quanto non sia giovane Gray basta un dato: è stato tra i protagonisti dell’impresa del Leicester che vinse la Premier League. Arrivato a gennaio dal Birmingham, Gray era la carta che Claudio Ranieri si giocava a partita in corso per dare energie fresche e sfrontatezza a una squadra che spesso aveva un problema di prevedibilità. Un ala tipicamente inglese, cioè dalle capacità atletiche prodigiose ma dallo stile di gioco un po’ meccanico.

Gray è diventato un punto fermo del Leicester, offrendo prestazioni solide senza però dare mai l’impressione di essere veramente forte. E così a 23 anni gioca nell’Inghilterra U-21 senza che nessuno ormai si aspetti che risolva le partite o dimostri qualcosa. Gioca perché è semplicemente in età di farlo, ed è comunque tra i migliori giocatori in quella fascia d’età. Ma nessuno crede davvero in lui.

Con la cessione di Mahrez sembrava arrivato il suo momento, e invece ha chiuso la stagione con appena 4 gol e 1 assist. Su internet potete trovare un articolo intitolato “Lo strano caso di Demarai Gray” in cui si scrive che «Gray non ha abbastanza qualità per portare la squadra su un altro livello così come faceva Mahrez».

Insomma, il livello di Gray per ora è questo: abbastanza buono per giocare titolare nel Leicester, non abbastanza buono da non rendere dimenticabili le sue prestazioni.


Il non-giovane Alen Halilović

Quando è stato ufficializzato il suo acquisto da parte del Barcellona Alen Halilovic aveva 18 anni, i capelli biondi come la paglia e un tocco di palla che lasciava pensare che l’erede di Messi era finalmente nato sulla terra. Halilovic era stato il più giovane debuttante della storia della Dinamo Zagabria, era stato comprato dai blaugrana per 5 milioni e il Guardian scriveva che «Giocherà nel Barcellona B ma non dovrà aspettare molto per avere le sue opportunità con Luis Enrique». Si è presentato con la nomea di “Messi Croato”, l’imbarazzante tatuaggio Hala Madrid e un fisico che pesava meno di 60 kg.

Giocherà con la prima squadra del Barcellona appena una partita, in Copa del Rey, per il resto girerà il mondo in prestito alla ricerca di sé stesso. La migliore stagione di Halilovic, l’unica in fondo in cui è sembrato un calciatore, è stata la 2015/16 con la maglia dello Sporting Gijon, dove ha accumulato quasi 40 presenze. Per il resto la sua tecnica non è sembrata sufficiente a garantirgli di giocare con continuità tra i professionisti, visto che il fisico invece che migliorare è sembrato peggiorato.

Lo scorso anno è finito al Milan nel silenzio e l’ironia generale, in un’annata in cui ha giocato solo 3 partite in Europa League, di cui 2 contro il Dudelange. Una stagione che somiglia a Morte a Venezia, col mondo attorno che crolla afoso, oppresso e ammalato, e lui lezioso a provare trick sulla fascia destra. Ha passato il resto dell’anno esiliato in Belgio, in un contesto più scarso, dove ha comunque giocato poco e fatto niente.

Oggi Halilovic ha il taglio di capelli trascurato e una faccia imbolsita da ex attore prodigio, un non più giovane bruciato dal successo precoce (non proprio Macaulay Culkin, ma quasi). È stato convocato a questo Europeo Under-21 nel momento in cui nessuno di noi si ricordava fosse ancora un calciatore, e infatti è rimasto in panchina, e ha giocato 81 minuti complessivi senza combinare niente. E pensare che ha solo 23 anni.


Dani Ceballos dejà-vu

Dani Ceballos due anni fa ha distrutto l’Italia insieme a Saul Niguez e a Marco Asensio nella semifinale dell’Europeo Under-21. La stessa estate è passato al Real Madrid per 17 milioni di euro che sembravano un’inezia rispetto alla classe virtualmente infinita di Dani Ceballos. Sembrava poter dominare il calcio mondiale in un centrocampo formato da Kroos, Modrid e Isco, che avrebbe quindi potuto mantenere il possesso del pallone anche se fossero tutti costretti a giocare con delle hawaianas e il pallone fosse cosparso d’olio.

E invece Dani Ceballos ha semplicemente fatto la muffa in panchina. Non ha nessun rapporto con Zidane e pare sollevato quando in panchina arriva Julen Lopetegui, il suo mentore nell’Under-21. A settembre aveva detto con un certo rancore «Zidane cambia modulo pur di non farmi giocare». Ma sappiamo tutti come è andata. Alla fine è tornato Zidane e Ceballos ha detto che non vuole più lavorare con lui.

Nell’Europeo Under-21 Ceballos però è tornato a incantare come se fosse semplicemente rimasto nel congelatore per due anni.


L’attesa di Mahmoud Dahoud

La prima volta che abbiamo sentito parlare di Dahoud era il 2014 e la Germania aveva appena vinto il campionato del mondo e sembrava poter non smettere mai di produrre talenti. Dahoud, di origine curde, rappresentava bene l’idea di un centrocampista tecnico e associativo perfetto per il calcio di posizione che la scuola tedesca aveva cominciato a maneggiare dall’arrivo di Joachim Loew.

La sua stagione più convincente è stata però quella 2015/16, al termine della quale Fabio Barcellona scriveva: «Dahoud sembra destinato a diventare uno dei migliori centrocampisti europei. Ha ancora margini di crescita: acquistare forza, non solo nella parte inferiore del corpo, lo aiuterebbe nelle battaglie di centrocampo; una maggiore pulizia tecnica e un più disinvolto utilizzo del piede sinistro aggiungerebbero brillantezza tecnica a quella tattica. L’entità di questi miglioramenti stabilirà il livello a cui Dahoud giocherà nei prossimi anni».

Dahoud nel frattempo è passato al Borussia Dortmund ma senza mostrare dei reali miglioramenti. Ha giocato 26 partite in due anni, e se alla prima stagione ha risentito dei cataclismi stagionali che si sono abbattuti sul BVB, nella seconda il gioco verticale e di transizioni organizzato da Favre non era forse adatto al suo stile di gioco più compassato.

Dahoud non fa parte di quella categoria di calciatori che ha davvero fallito, ma le aspettative che avevamo su di lui devono essere un po’ ridimensionate, diciamo così. Questo non gli ha impedito di brillare in questo europeo U-21 in cui è stato un punto fermo della fortissima Germania, comandando il gioco al centro del campo. Dahoud sembra solo un giocatore in attesa che i pianeti si allineino per evidenziare il suo talento.


Giuseppe Pezzella, tre anni e mezzo dopo

Sono quattro anni che ci assicurano tutti che Giuseppe Pezzella da Napoli è un giocatore forte. Da quando, nel dicembre del 2015, a 18 anni, ha esordito con la maglia del Palermo. Pezzella aveva fatto tutta la trafila delle Nazionali giovanili come succede a tutti i migliori talenti del nostro calcio e aveva tutta l’aria di una credenza con le rotelle che correva sulla fascia sinistra.

A febbraio di quell’anno, dopo un’ottima partita del Palermo contro la Roma, sembrava potersi guadagnare il posto da titolare. Gazzettava titola entusiasta “Iachini ci mette una Pezzella”: «Il terzino a Roma ha stupito per freddezza, disciplina tattica e personalità: mancino che può giocare a destra».

Pezzella però non è mai diventato titolare, è passato prima all’Udinese e poi al Genoa giocando più di 20 partite. È nel giro della Nazionale Under-21 da due anni in cui ha giocato 14 partite. È il suo secondo Europeo e come, nel precedente, non ha mai giocato. Sembra esserci sempre un terzino sinistro più forte di Giuseppe Pezzella, nel club come in Nazionale, e a 22 anni è ora che trovi un posto nel mondo. Come tutti i suoi coetanei, d’altra parte.


Cosa manca a Olivier Ntcham?

Quando è comparso alla periferia del nostro cervello con la maglia del Genoa appariva come ci immaginavamo dovesse apparire il futuro: enorme, veloce e con una tecnica che in rapporto al suo corpo era semplicemente inspiegabile. Non c’era una singola ragione perché Ntcham fallisse nel nostro campionato, e dopo una prima stagione interessante, alla prima giornata della stagione 2016/17 - con la barba platinata e dei graffiti sumeri sulla testa - ha segnato subito un gol da fuori area.

Sotto al video i commenti sono :“Di sicuro sarà una delle rivelazioni di questo campionato”; oppure: “lo vorrei vedere in una grande squadra”. Ntcham era arrivato in prestito dal Manchester City e il Guardian scriveva che i Citizens avevano già trovato il loro Pogba; lui a So Foot diceva di pensare che gli italiani se la tirassero un po’ troppo sulla pasta, ma che invece era davvero “incredibile”.

Ntcham segnerà altri due gol, per la disperazione di tutti quelli che si erano svenati per lui al Fantacalcio dopo la più classica delle illusioni della prima giornata di campionato. Poi finirà al Celtic Glasgow: non al Manchester United, non al Barcellona. Al Celtic Glasgow. Da due anni lo vediamo intristito sui campi nebbiosi d’Europa League o a sbattersi per vincere un campionato di cui ormai non interessa niente a nessuno.

Ntcham è una delle più lampanti dimostrazioni viventi che la somma di qualità visibili non basta a fare un giocatore. Che sapere calciare un pallone non è come giocare a pallone, e via dicendo.


Samuel Bastien, niente di che

Samuel Bastien sembrava davvero un buon giocatore, nella stagione 2015/16, quando in Serie B vestiva la maglia dell’Avellino. Eravamo molto curiosi di vederlo in Serie A: un centrocampista molto dinamico e sufficientemente tecnico il cui livello non è chiaro finché non gioca vicino a giocatori forti. L’Avellino non ha pagato i 4 milioni che servivano a riscattarlo dall’Anderlecht, e così si è inserito il Chievo, squadra più a suo agio a valorizzare i vecchi a fine carriera che i giovani.

In quei giorni rilasciò un’intervista a Sky in cui disse di aver preferito l’Avellino al Liverpool ed era impossibile non pensare fosse stato semplicemente scemo (a farlo, o a dirlo). Lo diceva col tono di chi era stato lungimirante, ma in realtà Bastien non era neanche sempre titolare nel Chievo.

Lo scorso anno Bastien è tornato in Belgio, allo Standard Liegi, che lo ha pagato 3 milioni di euro: una cifra a cui oggi di solito non si riesce a comprare neanche un primavera. Nella disastrosa spedizione del Belgio Under-21 Bastien ha giocato 186 minuti, tutti niente di che.


Andrija Zivkovic è uscito dal gruppo

Andrija Zivkovic aveva tutto per farci innamorare: la nazionalità serba, la maglia del Partizan Belgrado, i piedi veloci e un piede sinistro con una dolcezza quasi erotica. In più Zivkovic si è preso le prime pagine giovanissimo, con la precocità tipica dei talenti più elitari. Sentite che statistiche assurde: ha esordito con la prima squadra a 15 anni; è poi diventato il più giovane di sempre a esordire con la maglia della Serbia e il più giovane capitano della storia del Partizan.

Guardando i video di Zivkovic è facile incorrere nella sindrome di Stoccolma. In campi lunari, con il prato verde sparso come un atollo su piste d’atletica giganti, Zivkovic controllava il pallone come fosse a rimbalzo controllato, poi tagliava verso il centro toccando la palla più velocemente di quanto l’occhio potesse vedere, prima di concludere in porta con una facilità ridicola. Lo chiamavano “Serbian Messi”.

Il talento di Zivkovic non sembra avere confini. Nel 2015 ha giocato il Mondiale Under-20 con la Serbia: ha giocato 7 partite, ha vinto il titolo e il suo calcio di punizione contro il Messico è stato votato come il gol più bello della competizione. Un tiro di piatto infilato all’incrocio dei pali protetto dal portiere, troppo preciso per essere fermato. La sua storia d’amore col Partizan durerà ancora poco: a febbraio del 2016 è stato messo fuori squadra per essersi rifiutato di firmare il rinnovo di contratto.

La destinazione, il Benfica, sembrava perfetta per far splendere il suo talento: per il tradizionale legame tra la squadra portoghese e i talenti serbi; ma anche perché Zivkovic sembrava capitato nel contesto tattico perfetto per nascondere i propri difetti ed esaltare invece i suoi pregi. Al Benfica Zivkovic giocherà bene, benino, senza però brillare come il talento generazionale che sembrava. La sua normalizzazione è il modo che ha trovato per farci più male: certi talenti avremmo preferito vederli bruciare piuttosto che vederli ingrigiti nella burocrazia del centrocampo.


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