Una rivoluzione chiamata Fab Five
A 25 anni dal loro esordio, cosa ci hanno lasciato Chris, Jalen, Juwan, Jimmy e Ray?
La mattina del 3 marzo 1991 Rodney King, un tassista afroamericano di Los Angeles, viene fermato da una volante della LAPD e ridotto in fin di vita da tre agenti. Due giorni dopo l’emittente locale KTLA manda in onda dei frammenti di un video registrato da George Holliday, la cui abitazione affacciava sull’incrocio a Lake View Terrace dov’è avvenuta la violenza. Quei secondi nei giorni successivi rimbalzeranno su tutte le stazioni televisive statunitensi diventando per l’intera comunità afroamericana l’immagine dell’osceno, ciò che tutti sapevano ma che rimaneva non rappresentabile.
Il video di Holliday trasforma la questione razziale in una guerra di immaginari in cui sono compresi tutti gli ambiti della vita pubblica. Ovviamente il basket diventa un canale irrinunciabile di confronto, superando anche le ambiguità del decennio precedente. Al duopolio un po’ scenografico tra le coste di Boston e Los Angeles si sostituisce la durezza delle working city del Midwest, prima Detroit poi Chicago. E le rispettive star, Isiah Thomas e Michael Jordan, sono atleti che sbattono in faccia al pubblico il loro dominio fisico con una vis a cui la giocosità di Magic non era mai arrivata.
I conservatori potranno anche comprare le Jordan, ma non potranno mai fare un 360. Period.
.
Anche il college basket vive in pieno l’ambiguità di reclutare giovani ragazzi provenienti dalle periferie delle grandi città e trasportarli tra palazzi neoclassici sperduti nella campagna statunitense. Questi attraversano i grandi prati all’inglese protetti da enormi cuffioni che sparano hip hop in continuazione e dominano lo sport convogliando quell’energia di strada dentro i sistemi dell’istruzione bianca.
Prima dei Fab Five, molte squadre collegiali avevano vissuto su questo duplice rapporto ma nessuna era riuscita a divenire così iconica come i cinque freshman di Michigan. Ci aveva provato Illinois con Kendall Gill (un cosplayer del primo Jordan), Nick Anderson, Kenny Battle, Steve Bardo e Marcus Liberty, ma ironicamente la loro cavalcata era stata azzoppata da un canestro di Sean Higgins sulla sirena durante le Final Four del 1989. Esatto, proprio Michigan.
L’anno successivo il trionfo di UNLV dimostrò come una squadra composta da talenti radunati tra i playground americani potesse effettivamente tagliare la retina a fine stagione sconfiggendo i programmi più paludati. I Runnin’ Rebels di Jerry Tarkanian divennero la squadra del cuore di tutta la gioventù nera quando smantellarono Duke nella gara per il titolo del 1990, 103 a 73. Le spalle titaniche di Larry Johnson, le braccia telescopiche di Stacey Augmon, la cinica sapienza di Greg Anthony sembravano uscire dalle pagine di un fumetto Marvel più che dall’imbalsamata NCAA. Esattamente un anno dopo, tutto era apparecchiato per il bis che avrebbe legittimato un epocale passaggio di consegne: UNLV arrivava alle Final Four senza aver perso una singola partita durante la stagione e dava l’impressione di essere un rullo compressore senza freno a mano. Ma in questa favola c’è un antagonista, anzi l’archetipo degli antagonisti: i Duke Blue Devils.
Tra i tanti cuori in frantumi davanti alla televisione c’erano anche i brandelli di quello di Jalen Rose. Aveva seguito la partita con i pantaloncini da gioco di UNLV, dato che la guardia dei Rebels Anderson Hunt era un prodotto di Southwestern HS proprio come lui. I suddetti pantaloni erano piuttosto eccedenti rispetto alla sua secca figura, arrivando a coprirgli le ginocchia come una gonna vittoriana. Jalen però si sentiva più un MC della Motown piuttosto che un componente della corte reale inglese. Al primo allenamento ad Ann Arbour ruba i pantaloni della divisa da Chip Armer, un walk-on che pesava il doppio di lui e che aveva qualche taglia in più sui fianchi, e li indossa imitando la moda che Michael Jordan stava lanciando in NBA. I Wolverines hanno anche un’altra cosa in comune con MJ: un contratto di sponsorizzazione tecnica con la Nike.
I cinque cominciano a tempestare di richieste l’azienda di Eugene alla ricerca di pantaloncini sempre più lunghi, per poi richiederne altri ancora più lunghi appena il pacco arrivava in palestra. Il gergo tecnico per questo taglio non proprio sartoriale è baggy, perché si accartocciano appunto come una busta di cartone sotto la vita: la cultura streetwear li ha presi in prestito dai carcerati, i quali non potendo usare cinture erano costretti a farli scendere fino alle anche. Studenti-atleti che sembrano detenuti. Perfetto.
“Can’t get a fade everyday”
Se le eminenze grigie dello sport collegiale li disprezzano e i genitori li temono, l’intera America sotto l’età legale per bere li adora. Per J.A. Adande, Senior Writer di ESPN, “La loro generazione fu la prima ad avere la musica hip hop come colonna sonora durante l’intera adolescenza. Potevi sentire gli EPMD pompare nello spogliatoio di Michigan o vederli saltare sul tavolo del segnapunti e muovere le braccia come nel video di Hip Hop Hooray dei Naughty By Nature per festeggiare una vittoria”.
Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho Hey-ho.
Dopo ogni contropiede finito sopra il ferro, dopo ogni canestro di puro talento, dopo ogni stoppata a cancellare l’iniziativa avversaria cominciavano le esultanze, lo spintonarsi vicendevolmente, il trash talking. Il corollario coreografico non era un semplice show, rappresentava la dichiarazione di esistenza di una generazione che non voleva seguire acriticamente le regole ma esprimersi nel pieno della propria personalità. Non è un caso che la canzone più usata per i video-tributi su YouTube sia Express Yourself dei N.W.A.