
Argentina, Spagna, Francia e Australia. Quattro semifinaliste che nessuno a inizio torneo avrebbe pronosticato in blocco. Quattro squadre che da venerdì a Pechino, alla Wukesong Arena teatro delle Olimpiadi 2008, si contenderanno la vetta vacante della prima FIBA World Cup a 32 squadre, l’edizione più imprevedibile di sempre.
Già a pensare alla sede della Final Four iridata, salta immediatamente alla mente l’assenza più rumorosa dal lotto delle prime quattro. A Pechino, 11 anni fa, il Redeem Team vendicò la sconfitta di Saitama contro la Grecia al Mondiale precedente schierando quella che in tanti considerano la squadra migliore dai tempi di Barcellona 1992. Oggi, invece, la versione di Team USA ridotta in talento e esperienza vincente si prepara all’inutile e ininfluente semifinale per il 5°-8° posto contro l’altra grande delusa di questo Mondiale, la Serbia di Sasha Djordjevic.
Con la Grecia di Giannis Antetokounmpo fuori addirittura nella seconda fase, sono saltate prima del weekend finale le tre grandi favorite. Chi è ancora in corsa per la medaglia d’oro, però, arriva alle due sfide di domani col vento in poppa, il morale alle stelle e la concreta convinzione di potersi laureare campione del mondo in un torneo che non ha più un padrone.
L’affiatamento dell’Australia
Ultima in ordine temporale a qualificarsi per la semifinale, l’Australia arriva a Pechino con la consapevolezza di essere la squadra probabilmente più coesa del torneo, pure davanti a tre nazionali che fanno della continuità un loro punto di forza. Tale sentimento è anche frutto di una preparazione lunghissima, svolta col gruppo dei dodici al completo praticamente sin dal primo giorno, soprattutto una volta che è stata ufficiale la rinuncia di Ben Simmons. Gruppo che ha un solo uomo al comando, colui che se il Mondiale terminasse oggi sarebbe il favorito numero uno per il titolo di MVP.
Patty Mills è oggi il più credibile candidato MVP del torneo.
«Forse siete voi ad essere stupiti per come gioca, noi no: giochiamo insieme da quando avevamo 15 anni, ormai non ci sorprendiamo più del suo livello», ci ha detto Joe Ingles ieri a proposito di Patty Mills. «Con la Repubblica Ceca ci ha tenuto a galla in un primo quarto in cui facevamo molta fatica a segnare: in questo torneo è stato quello di cui avevamo bisogno. Siamo una squadra che fa tanti assist perché abbiamo tanti giocatori altruisti: la loro difesa, inizialmente, non ci ha permesso più di tanto di giocare la nostra pallacanestro, ma siamo stati in grado di fare un passo in avanti nel secondo tempo, limitando le tante palle perse».
Sarebbe un errore, però, pensare che l’Australia possa accontentarsi della prima semifinale iridata della sua storia, tre anni dopo aver raggiunto la stessa fase dei Giochi Olimpici per la prima volta: «Non siamo ancora soddisfatti anche se ovviamente siamo contenti, è un grandissimo risultato», continua Ingles. «È una tappa del nostro processo: l’obiettivo è quello di arrivare fino in fondo». Anche perché il giocatore dei Jazz è diretto nell’individuare la marcia in più dei Boomers: «Ci vogliamo tutti bene per davvero. Amiamo giocare l’uno con l’altro».
Nonostante la prova meno brillante del solito contro i cechi, Ingles sta giocando un Mondiale di altissimo livello.
La continuità della Francia
È l’unica squadra, tra le quattro semifinaliste, ad essere arrivata a questo punto della competizione anche cinque anni fa. Con lo storico successo sugli Stati Uniti si è garantita la terza Olimpiade consecutiva, qualcosa che al di là delle Alpi non potevano festeggiare dagli anni ‘50. Adesso, per coronare tutto, l’occasione di raggiungere la prima finale Mondiale di sempre.
La porta d’ingresso per la storia?
La continuità della Francia è prima di tutto da ricercare in panchina: Vincent Collet sta vivendo il suo decimo anno consecutivo da commissario tecnico dei Bleus. Il flop dell’Europeo in Turchia, con il ko agli ottavi di finale contro la Germania che ha brutalmente interrotto una striscia di tre medaglie continentali consecutive, non ha danneggiato il rapporto con il più longevo degli allenatori rimasti in corsa per l’oro, tutti accomunati da una lunga storia con la propria nazionale: sei sono gli anni consecutivi di Lemanis con l’Australia, mentre i cicli di Scariolo con la Spagna (sette anni totali) e Hernandez con l’Argentina (nove) sono più lunghi ma non continuativi.
Il nativo di Sainte-Adresse, una volta chiusa definitivamente l’esperienza di due punti cardine della squadra campione d’Europa sei anni fa come Tony Parker e Boris Diaw, ha lentamente ma continuamente avviato un processo di rinnovamento generazionale che in Cina sta vivendo il suo apice.
Tra i protagonisti principali della cavalcata francese, arrivata in semifinale con lo storico successo sugli USA - ma non senza qualche difficoltà in precedenza: la Francia è l’unica delle quattro che non arriva a Pechino da imbattuta -, ci sono due giocatori come Andrew Albicy e Amath M’Baye che sono diventati punti cardine del gruppo tricolore nel corso delle qualificazioni ai Mondiali, pur avendo assaggiato in precedenza la maglia della nazionale.
Nonostante la ridotta esperienza di entrambi ai livelli più alti del basket europeo - Albicy debutterà quest’anno in Eurolega con lo Zenit, M’Baye può vantare solo qualche apparizione ai tempi della sua esperienza con Milano - i due, fortemente voluti da Collet, sono tra le chiavi del successo francese, dietro l’affidabilità del gruppo NBA integrato da Nando De Colo.
Gruppo NBA che finora ha visto due protagonisti spiccare su tutti: Evan Fournier, quasi indiscusso leader offensivo e in prima linea tra i candidati MVP dietro Mills e l’ormai eliminato Bogdanovic, e Rudy Gobert, MVP della storica vittoria sugli USA con 21 punti, 16 rimbalzi e 3 stoppate determinanti. La sensazione, guardando le caratteristiche delle avversarie, è che le speranze della Francia passeranno dall'efficscia del totem dei Jazz, alla ricerca di una grande affermazione con la nazionale dopo i bronzi nel 2014 e 2015.
Nei giorni scorsi Myles Turner aveva messo in dubbio il merito dei due Defensive Player of the Year vinti da Gobert nelle ultime due stagioni. The Stifle Tower ha risposto così.
La solidità della Spagna
Su queste pagine avevamo lasciato la Spagna dopo la non-brillante vittoria contro l’Italia, successo che ha eliminato le speranze azzurre di quarti di finale. La ritroviamo quasi una settimana dopo con alle spalle due vittorie importanti - e molto diverse tra loro - che ne rinforzano con decisione la candidatura all’oro dopo lo storico trionfo di 13 anni fa.
Tanto è cambiato, dall’estate di Saitama.
Con tutta probabilità, è stato proprio il successo contro gli azzurri - sofferto, sporco, in cui è emersa l’esperienza e la solidità del gruppo - ad avere acceso la scintilla della squadra iberica, capace poi di produrre due giorni dopo a Wuhan quella che probabilmente sinora è la singola prestazione difensiva migliore dell’intero torneo. Tenere lo scintillante attacco della Serbia sotto i 70 punti segnati è stato il vero capolavoro della squadra di Scariolo, capace poi di confermarsi ai quarti a Shanghai contro una solida e combattiva Polonia.
«La difesa è la nostra chiave», ci ha detto Marc Gasol dopo la qualificazione alla semifinale. «Sappiamo di essere una squadra che in attacco accende e spegne, ma sappiamo anche di potere alzare notevolmente il nostro livello nella metà campo difensiva, dove dobbiamo essere sempre al meglio per vincere». Dopo cinque partite consecutive con meno di 70 punti subiti, la Spagna ha scollinato tale cifra contro i polacchi, senza mai però mettere a repentaglio la sconfitta grazie alle ottime prove offensive dei fratelli Hernangomez, veri gamechanger del torneo sinora, e al 5/5 da 3 di capitan Rudy Fernandez.
A fare veramente la differenza contro Serbia e Polonia, però, è stato un Ricky Rubio decisamente ritrovato dopo la brutta prova contro l’Italia. Il neo-giocatore dei Phoenix Suns è diventato, a soli 29 anni d’età, il miglior assist-man nella storia della FIBA World Cup, alla sua terza partecipazione. In casa spagnola la voglia di riscattare la delusione del mondiale casalingo di cinque anni fa è tanta, e la possibilità di farlo proprio in un’estate di transizione è forse inattesa. Ma quanto a esperienza e mentalità vincente la Spagna è seconda davvero a pochi.
«Sin dal primo giorno in nazionale ho detto a Ricky che sarebbe stato il mio play titolare. Mi fido ciecamente di lui, e penso che i suoi giorni migliori debbano ancora arrivare» ha detto Sergio Scariolo.
Il rinnovamento dell’Argentina
Ormai, quando si pensa al basket argentino del terzo millennio, parlare di Generazione appare riduttivo e limitante. L’indimenticabile gruppo di giocatori che ha mietuto vittorie e emozioni indimenticabili tra il 2002 e il 2016 rischia ormai di non essere più “irripetibile”, ma di avere funto da apripista a una rivoluzione sportiva e culturale che in Cina sta scrivendo una nuova tappa della sua storia.
Da Indianapolis 2002 a Dongguan 2019, 17 anni dopo i ruoli sono invertiti.
L’incredibile e indimenticabile vittoria contro la Serbia a Dongguan ha catapultato l’Argentina tra le prime quattro di un torneo intercontinentale per la prima volta dal 2012, o dal 2006 se parliamo di un Mondiale. Di quelle squadre l’unica costante è la presenza di Luis Scola e in parte di Sergio Hernandez. Da allora tutto è cambiato, e anche per merito della Generacion Dorada e del suo impatto fuori dal parquet, fondamentale nel cementificare lo status del basket nel paese e lo sviluppo di infrastrutture all’avanguardia, come il centro sportivo federale di Bahia Blanca.
La realtà albiceleste di oggi parla di cinque giocatori (Vildoza, Campazzo, Laprovittola, Deck e Garino) che saranno protagonisti della prossima stagione di Eurolega, o di altri come Brussino e Delià in rampa di lancio facendo parte di ambiziose squadre della Liga ACB, il campionato più competitivo e importante del continente europeo. L’Argentina del 2019 non è una squadra di parvenù, anche se è la prima nazionale semifinalista mondiale, dal 2000 ad oggi, che non avrà un giocatore NBA nella stagione successiva alla FIBA World Cup.
«Apparteniamo a generazioni diverse», ha detto Facundo Campazzo dopo il successo sulla Serbia. «Abbiamo imparato tanto da giocatori come Ginobili, Nocioni e Prigioni, comprendendo valori come l’etica del lavoro, il sacrificio e il rispetto per i compagni, ma non crediamo nei paragoni: abbiamo fatto nostre queste caratteristiche». Caratteristiche emerse nella lunghissima preparazione argentina, iniziata con i Giochi Panamericani a Lima - disputati col roster poi impegnato al Mondiale in Cina - con un altro successo a livello continentale: quasi come a voler dire che l’appetito vien mangiando.
Dopo la vittoria sulla Serbia, Facundo Campazzo su Twitter ha lanciato una petizione per convincere Scola a giocare l’Olimpiade a Tokyo. Sarebbe la sua quinta.
Il fallimento di Serbia e Stati Uniti
Viste nel dettaglio le quattro invitate al ballo finale, vanno spese altre parole sulle due vittime principali di questa sorta di China Madness. Impossibile non partire dagli Stati Uniti, che 13 anni dopo lo shock in semifinale a Saitama contro la Grecia hanno visto interrompersi una striscia di 58 vittorie consecutive in tornei intercontinentali. Già nelle partite di Shanghai e Shenzhen erano emersi i primi limiti di Team USA - soprattutto nella risicata vittoria sulla Turchia nel primo girone - che però sono definitivamente venuti a lla luce nel match contro la Francia.
Le ragioni della sconfitta americana sono tante e molteplici: la scarsa conoscenza e relativo difficile adattamento alle regole del basket FIBA; il poco tempo dedicato alla preparazione, parametrato a quello delle altre nazionali di livello, tutte in campo anche due settimane prima rispetto agli Stati Uniti; i componenti del roster, non tanto per il loro status all’interno della NBA quando per la scarsità di pedigree vincente; l’apporto sulle partite di un coaching staff di indiscusso valore, che si è forse focalizzato troppo sulla costruzione dell’amalgama di squadra rispetto al tempo speso sullo sviluppo di un gioco - basti pensare ai tantissimi, quasi tutti, allenamenti cancellati nei giorni di riposo tra una partita e l’altra.
Nel day after ha un senso relativo pensare alla nuova versione del Redeem Team che potrebbe andare in scena la prossima estate a Tokyo. Il naufragio di Team USA segna una tappa importante nello sviluppo del basket mondiale, in quello che probabilmente è l’anno più internazionale della storia della pallacanestro - considerando che nella stessa NBA buona parte dei premi individuali sono andati a giocatori internazionali e che il Larry O'Brien Trophy è volato in Canada. Ma non è affatto detto che possa significare uno spartiacque o il primo segnale di un’inversione di tendenza.
La partita di ieri a Dongguan andrebbe catalogata per quello che è: una tappa importante della storia del basket nazionali, vinta da una nazionale che negli ultimi anni aveva forse perso troppe partite di quel tenore. Per essere identificato come il primo momento di una sorta di inversione di tendenza, dovrebbero verificarsi altri risultati come quello di ieri. E le probabilità che questo accada a breve sono abbastanza ridotte.
Contro la Francia non è bastata la prova eccellente, soprattutto nei primi tre quarti da 29 punti, di Donovan Mitchell.
Altrettanto, se non più, fragoroso è stato il tracollo della Serbia, che ha perso un’occasione forse irripetibile per conquistare quella medaglia d’oro tanto inseguita negli ultimi anni: i serbi, infatti, sono vice-campioni in carica alle Olimpiadi, ai Mondiali e agli Europei. Dopo quattro vittorie nette contro avversarie di caratura inferiore - oltre 40 punti di scarto medio tra Angola, Filippine, Italia e Portorico - sono arrivate due sconfitte diverse nello svolgimento ma abbastanza coerenti nelle cause.
Sul banco degli imputati è salito, inevitabilmente, Sasha Djordjevic. Condottiero indiscusso della “Generazione d’Argento”, dopo una fase di qualificazione tutt’altro che brillante non potendo disporre per la quasi totalità del tempo dei giocatori di NBA ed Eurolega, il coach della Virtus Bologna ha pagato nei momenti decisivi le sue scelte, rivelatesi poco azzeccate col senno di poi.
In primo luogo per quanto riguarda le scelte a livello di costruzione del roster, con un numero quasi spropositato di lunghi convocati a fronte di una coperta abbastanza corta nel reparto esterni: un limite esploso con fragore negli ultimi due match, quando il tonnellaggio serbo si è rivelato poco adatto a contenere l’agilità degli esterni argentini o la versatilità dei giocatori spagnoli.
L’idea del doppio lungo “pesante” (soprattutto nella coppia Jokic-Marjanovic) contemporaneamente in campo è spesso stata messa in soffitta, a fronte di un sovrautilizzo da parte di alcuni giocatori (Jovic, Micic, Simonovic) che per le loro caratteristiche si sono rivelati più importanti del previsto; alle difficoltà nei momenti cruciali, poi, Djordjevic è sembrato poco reattivo nel proporre aggiustamenti in corsa, dando l’impressione di essere in balia degli eventi.
Dietro il Mondiale stellare giocato da Bogdan Bogdanovic, comunque di diritto nella short-list dei candidati MVP nonostante il ko di martedì contro l’Argentina, pochissimi serbi sono stati davvero in grado di elevare il loro rendimento nelle partite decisive. Qualcosa la si è vista da Boban Marjanovic, che però per caratteristiche non può essere punto di riferimento offensivo da cavalcare per 30 minuti a partita, e più di qualche attenuante si può concedere a una star del basket europeo come Vasilije Micic, che durante il torneo ha subito un grave lutto familiare con la scomparsa della madre.
Il miglior Bogdanovic visto in Cina, quello contro l’Italia.
Ma più che deludente è da considerare il Mondiale di Nikola Jokic, arrivato in Cina sulla scia della migliore stagione in carriera. L’All-Star dei Denver Nuggets, autentico beniamino dei tifosi di Foshan e Wuhan che gli tributavano autentiche ovazioni a ogni ingresso in campo, non ha reso quanto si aspettava in primo luogo proprio Djordjevic, che vedeva in lui il punto di riferimento - insieme a Bogdanovic - della squadra, nonostante l’inedito ruolo di sesto uomo.
Svogliato, eccessivamente - e quasi ingiustificatamente - nervoso in campo e fuori (non si è mai concesso in zona mista ai giornalisti, per l’elevato disappunto dei reporter serbi che in gran numero hanno seguito la squadra in Cina), con l’apice della “stupida”, per usare le parole del suo allenatore, espulsione per proteste subita contro la Spagna. Se il futuro in nazionale di Djordjevic appare oggi in discussione, Jokic avrà molte possibilità in carriera per rifarsi della delusione Mondiale. Ne avrà però la volontà?
Le sorprese di Polonia e Repubblica Ceca
Arrivate tra le prime otto con tanta fortuna quanto merito, a differenza delle altre due sconfitte ai quarti di finale Polonia e Repubblica Ceca lasceranno la Cina col sorriso in bocca. Una delle due finirà almeno tra le prime sei squadre al mondo, e alla qualificazione - affatto scontata - al Preolimpico del prossimo anno si è andata ad aggiungere una cavalcata iridata storica per due squadre che hanno costruito gran parte del loro successo cinese sulla campagna di qualificazione ai Mondiali.
Questo discorso è particolarmente applicabile al cammino della Polonia, che nella sua storia aveva giocato un solo Mondiale di basket nel lontanissimo 1967 e che si è qualificata alle spalle di Lituania e Italia, tenendo dietro la deludente Croazia. Complici le rinunce di Marcin Gortat e Macej Lampe, in Cina l’ottimo Mike Taylor ha portato il grosso del gruppo che ha staccato il pass Mondiale.
In questo senso la stella più brillante è stata quella di Mateusz Ponitka, incolore contro la Spagna a Shanghai dopo un torneo di altissimo livello: dopo tanta gavetta nella classe media del basket europeo, il prossimo anno in Eurolega allo Zenit può essere quello del definitivo salto di qualità - e il nativo di Ostrow ci arriva come meglio non potrebbe.
Cammino di qualificazione di alto livello anche per la Repubblica Ceca, una delle due debuttanti assolute del torneo. Messo alle spalle il debutto di fuoco contro Team USA, i cechi hanno infilato tre esaltanti vittorie consecutive contro Giappone, Turchia e Brasile, mostrando contro le ultime due - sulla cresta dell’onda dopo le prove rispettivamente contro Stati Uniti e Grecia - una pallacanestro divertente ed efficace, cruciale nel marchiare un mondiale da sogno.
Era prevedibile che, una volta ufficiale la rinuncia per infortunio a Jan Vesely, a prendersi le chiavi della squadra sarebbe stato Tomas Satoransky. Il neo-giocatore dei Chicago Bulls non ha deluso le attese, elevando il suo rendimento al crescere della posta in palio, e trovando al suo fianco un nucleo di giocatori in grado di produrre un torneo di ottimo livello. Come la versatilità dell’ex Avellino e Pistoia Patrick Auda, migliore dei suoi ieri contro l’Australia, o l’affidabilità in attacco di Jaromir Bohacik, top scorer dei suoi nel corso del torneo a quasi 16 punti di media.
Anche contro l’Australia, Tomas Satoransky è stato l’ultimo a mollare.
La strada che porta a Tokyo
Con le medaglie ancora da assegnare, è già chiaro e definito il quadro delle qualificate a Olimpiadi e tornei Preolimpici della prossima estate. A Tokyo sono già sicure di esserci, oltre al Giappone padrone di casa: Spagna e Francia per l’Europa; Argentina e Stati Uniti per l’America; Nigeria per l’Africa; Iran per l’Asia e infine Australia per l’Oceania. Di queste, soltanto gli iraniani sono una new-entry rispetto a Rio, con Haddadi e compagni che ritroveranno i cinque cerchi dopo la partecipazione all’Olimpiade di Pechino.
Per l’Iran sarà soltanto la terza partecipazione a un torneo Olimpico: il debutto nel 1948 a Londra. Fondamentale, come per raggiungere il 2008 a Pechino, è stato Hamed Haddadi.
Allo stesso tempo è definito il lotto delle prime sedici qualificate ai tornei preolimpici, con ben nove squadre europee qualificate: Serbia, Polonia, Repubblica Ceca, Lituania, Italia, Grecia, Russia, Germania e Turchia. Avranno la possibilità di giocarsi uno dei quattro posti disponibili per Tokyo anche Brasile, Venezuela, Portorico, Repubblica Dominicana, Nuova Zelanda, Tunisia e Canada, mentre il ranking FIBA successivo al Mondiale determinerà le ultime otto qualificate (due per area FIBA, con Slovenia e Croazia che dovrebbero assicurarsi i due inviti "europei").
La struttura dei tornei Preolimpici seguirà pedissequamente quella di tre anni fa: concentramenti da sei squadre, con due gironi da tre che andranno a determinare semifinali e finale secca per ciascuno dei pass per il Giappone. Si giocherà tra il 23 e 28 giugno del prossimo anno, in sedi ancora da definire, a ridosso della conclusione dei campionati in giro per il mondo (obbligati a terminare entro il 12 dello stesso mese) e soprattutto delle finali NBA, con l’ultima possibile data per l’atto finale indicata dalla lega per il 21 giugno.
Tornei, quindi, di cui è impossibile prevedere oggi l’andamento. Le tante squadre europee - ben 11 su 24 - farebbero propendere per un poker del vecchio continente, ma nazionali come Canada e Brasile hanno le possibilità di giocarsela. Senza dimenticare poi le sorprese che spesso costellano tornei del genere, come la qualificazione della Nigeria nel 2012 ai danni della Grecia.
Nella Nigeria che giocherà la terza Olimpiade consecutiva, il migliore è stato senza dubbio Josh Okogie.
Proprio la corsa alle Olimpiadi ha potuto mostrare uno dei punti più importanti della nuova formula del torneo: ogni partita e ogni canestro ha contato per delineare le gerarchie del torneo. La qualificazione della Repubblica Ceca ai quarti di finale, grazie alla classifica avulsa con Grecia e Brasile (e al largo successo sui verdeoro), o quella dell’Iran (che nella prima fase aveva perso, pur di misura, le sue tre partite) a Tokyo 2020, per differenza canestri nei confronti di una Cina dall’eguale record vittorie-sconfitte, sono i due esempi più evidenti.
Se da un lato ci sono stati i tanti blowout di cui si è largamente discusso, dall’altro è impossibile negare come queste prime due settimane di torneo siano state emozionanti e imprevedibili. La formula del torneo è indubbiamente perfettibile, ma molti di questi correttivi potrebbero anche arrivare col tempo: con l’abitudine a giocare questi tornei, ad esempio, alcune nazionali più deboli (il pensiero va soprattutto a Asia e Africa, che non sono riuscite a piazzare nemmeno una squadra tra le prime 16 del mondo) potrebbero salire gradualmente di livello.
Sarà interessante vedere, quindi, cosa cambierà nella strada che porterà al primo Mondiale “a tre” (Giappone, Indonesia e Filippine, con finale nell’immensa Philippine Arena da 55,000 posti) della storia. Prima, però, Argentina, Australia, Francia e Spagna vogliono continuare a mostrare al mondo che “we’ve got game”.