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AFP/Getty Images
Calcio Marco De Santis 3 agosto 2016 12'

Un futuro all’altezza del passato

Cosa blocca la cessione del Milan e quali sono le prospettive più realistiche.

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Come successo lo scorso anno, anche questa stagione rischia di trasformarsi in una tortura cinese per i tifosi rossoneri. Sono ormai tre mesi e mezzo che la notizia della possibile cessione della squadra a un gruppo di investitori provenienti dalla Cina appare sui giornali, con un ritmo simile a quello avuto dalla vicenda Mr. Bee: grande esaltazione iniziale, dubbi generati dal fatto che la firma viene regolarmente rinviata “alla prossima settimana”, dichiarazioni del presidente Berlusconi prudenti o entusiastiche a seconda del suo umore ma alla fine, e per il momento, ancora nessun fatto concreto.

 

Anzi, oggi come oggi siamo ancora più indietro rispetto alla trattativa con Mr. Bee, per il quale era stato concluso quantomeno un accordo preliminare, prima che diversi fattori ancora non totalmente chiariti facessero saltare tutto dopo estenuanti rinvii (dalla crisi delle borse asiatiche che avrebbero fatto fare un passo indietro a diversi investitori coinvolti nella trattativa, alla possibilità che questi finanziatori fossero più virtuali che reali…).
A che punto è questa nuova trattativa con gli intermediari Galatioto e Gancikoff, e gli investitori cinesi Sonny Wu e Steven Zheng, entrambi impegnati nel settore delle energie rinnovabili? Perché dal 5 luglio, giorno in cui Berlusconi uscendo dall’ospedale ha di fatto annunciato pubblicamente la cessione della società, non c’è stato ancora niente di concreto? È legittimo l’ottimismo che, a quanto dicono i giornali, continua a ostentare Fininvest? I soldi per l’acquisto della società ci sono? E se ci sono, cosa sta rallentando la trattativa?

 

Premesso che nella vicenda ci sono delle zone d’ombra sulle quali solo il tempo potrà, forse, far chiarezza, per tentare di rispondere a queste domande è probabilmente necessario spostare il punto di vista rispetto a quello dell’analisi prettamente economica che, a mio avviso, non può fornire da sola una visione completa della situazione. È difficile capire, basandosi solo su logiche economiche, cosa può trattenere Fininvest dal cedere una società come il Milan che negli ultimi anni ha rappresentato un “buco nero” per i conti del gruppo con passivi di 90 milioni nel 2014 e nel 2015, con tutte le premesse per ottenere un risultato altrettanto preoccupante anche nel 2016.

 

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D’altra parte non è molto chiaro come mai, se il gruppo cinese interessato all’acquisto è così convinto da voler acquisire immediatamente il 100% della società, valutandola circa 750 milioni (debiti compresi), non arrivi il momento della firma (“signing”), che sarebbe solo il primo passo verso un’acquisizione definitiva da completarsi entro tre mesi (con il “closing”), salvo ripensamenti di una delle parti in causa.

 

Silvio l’ottimista
Più che sulla fattibilità economica dell’operazione, allora può essere interessante posare lo sguardo sulla psicologia applicata agli affari delle parti in causa: e cioè sulle strategie di vendita di Fininvest e sul particolarissimo modo d’agire di molte realtà provenienti dalla Cina che, dovendo sottostare alle indicazioni del regime governativo, non possono sempre agire con la mentalità degli uomini d’affare occidentali.

 

Da sempre la mentalità di Berlusconi e dell’intero gruppo da lui guidato lo ha spinto verso obiettivi elevatissimi sostenendo pubblicamente la possibilità di raggiungerli, indipendentemente da quanto fossero difficili le imprese da compiere, con una certezza granitica. Se all’apice della sua carriera imprenditoriale, prima, e politica, poi, questa lucida follia lo ha portato a risultati straordinari, negli ultimi anni le speranze del presidente del Milan sono naufragate in più di un’occasione nell’oceano di una realtà molto diversa da quella da lui immaginata. Invece di “tornare a essere padrone del campo e del giuoco e vincente in Italia, in Europa e nel Mondo”, il Milan è nel pieno di una spirale negativa nella quale sono stati triturati allenatori e giocatori, con roboanti dichiarazioni presidenziali rimaste ferme al livello di sogno irrealizzabile (un anno fa si parlava dei possibili ritorni in rossonero di Ancelotti e Ibrahimovic…).

 

Partendo da questa osservazione, e ricordando quanto successo con Mr. Bee, è evidente che non si debba dare troppo peso alle parole di Berlusconi (o del gruppo Fininvest) quando parla di trattative praticamente concluse o molto ben indirizzate, perché a priori non è possibile sapere se queste dichiarazioni fotografino la realtà o diano semplice voce alla speranza che tutto fili liscio.

 

A sostegno di questa ipotesi possiamo citare anche il recente “caso Vivendi”, con la compagnia francese che si è tirata indietro nell’affare che avrebbe dovuto portare all’acquisizione del 100% di Mediaset Premium, accusando Fininvest di aver presentato in sede di trattativa un business plan che prevedeva per Mediaset Premium un pareggio di bilancio irrealistico alla luce degli ultimi dati (la prima trimestrale del 2016 ha chiuso con un rosso di 64 milioni). Pur sottolineando che la società di Cologno Monzese ha rispedito al mittente le accuse, e che questa situazione sarà quasi certamente risolta per vie legali, lasciando quindi ai giudici il compito di stabilire chi abbia ragione e chi abbia torto, pensiamo non sia così difficile ipotizzare che anche nel caso del Milan il business plan presentato ai cinesi relativamente alle potenzialità del brand Milan e ai ricavi futuri del club possa avere qualche lato poco chiaro e bisognoso di approfondimenti certosini da parte di eventuali compratori.

 

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Basti pensare che anche con l’Uefa il Milan ha avuto dei problemi analoghi: il piano di rientro economico che si dice sia stato presentato all’inizio dell’anno, per ottenere dall’Uefa la possibilità di accedere al “voluntary agreement” che avrebbe permesso di sforare i vincoli del Fair Play Finanziario, pare sia stato rimandato al mittente in quanto anch’esso irrealistico e troppo ottimista nelle ipotesi di aumento dei ricavi.

 

Guardando l’intera vicenda dal lato Fininvest, l’unica cosa certa è che i figli di Berlusconi non vedono l’ora di cedere il Milan, ancor di più dopo la diatriba con Vivendi, che potrebbe creare ulteriori difficoltà all’intero gruppo. Per ora la posizione di Fininvest può ritenersi solida nella sua globalità, ma di certo non può permettersi con leggerezza di perdere 100 milioni l’anno in un asset non strategico come è diventato il Milan.

 

Chiarite le volontà, i comportamenti e i limiti della parte venditrice, diamo uno sguardo ai compratori, per certi versi ancora più difficili da decifrare.

 

Il fantasma della “partecipazione statale”
L’invasione cinese in economia, e ancor di più nel calcio, sono relativamente recenti e non è semplice comprenderne i meccanismi più nascosti. Preso atto di ciò, l’unica cosa che possiamo fare è basarci sull’esperienza, andando a cercare nel passato casi paragonabili a quello a cui stiamo assistendo, cercando similitudini che ci possano aiutare a trovare una chiave di lettura sensata. 

Ammesso e non concesso (fino a prova contraria, che i tifosi milanisti si augurano giunga presto) che ci sia realmente la disponibilità di questo gruppo cinese a rilevare il Milan valutandolo 750 milioni di euro debiti compresi (cifra in ogni caso sicuramente più credibile rispetto al miliardo di cui si parlava ai tempi di Mr. Bee), focalizziamo l’attenzione su una frase detta da Berlusconi all’uscita dell’ospedale: «Ho consegnato il Milan a chi è in grado di rilanciarlo. Ho preteso dal gruppo di società cinesi, anche a partecipazione statale, un investimento importante di 400 milioni in due anni».

 

Nelle analisi successive c’è chi si è concentrato sulla “Notizia” con la N maiuscola: ovvero, Berlusconi che annuncia di fatto la cessione del Milan; e chi si è concentrato sul capire se fosse vero o meno della clausola che obbligherebbe i nuovi acquirenti a investire 400 milioni in due anni (c’è chi dice tre) nel Milan. La soluzione dell’enigma, però, potrebbe essere in quell’inciso “anche a partecipazione statale” pronunciato con orgoglio da Berlusconi, ma che potrebbe rivelarsi il vero grande problema che rischia di far naufragare l’intera trattativa.

 

Se magari l’ottimismo di Berlusconi ha collegato immediatamente le aziende a partecipazione statale con l’idea che sia il governo cinese in primis a voler utilizzare il Milan come veicolo di promozione per il movimento calcistico della Cina nel mondo, il dubbio che si va insinuando visti i continui ritardi è che ci sia sì un gruppo di investitori cinesi interessati all’acquisto della società, fra i quali leader di aziende in tutto o in parte a partecipazione statale, ma questi investitori vadano solo successivamente, una volta imbastita la trattativa, a chiedere il via libera finale dal governo cinese. E che questo lasciapassare non sia così scontato.

 

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Tags : ac milanadriano gallianisilvio berlusconiSonny WuSteven Zheng

Marco De Santis, laureato in Scienze Statistiche ed Economiche, proprietario del blog “Calcio e Altri Elementi”, dedicato ad approfondimenti statistici, economici e regolamentari relativi al calcio e ad altri sport.

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