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Dario Vismara
Un'estate italiana
22 lug 2015
22 lug 2015
Le scelte di Bargnani, Belinelli, Gallinari e Datome per le loro carriere, tra cambi di squadra, estensioni, ritorni e gli Europei in arrivo.
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Dario Vismara
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Avete presente quello strano meccanismo per il quale, un'estate sì e l’altra no, ogni singolo italiano con un televisore e/o una connessione Internet si ritiene il nuovo CT della Nazionale di calcio e la popolazione italiana viene colta dalla sindrome dei “58 milioni di allenatori”? Ecco: pur in una nicchia come è quella del basket NBA in questo paese, quando si parla dei nostri quattro connazionali, tutti quelli che seguono in maniera più o meno approfondita la NBA hanno qualcosa da dire—cosa che invece non necessariamente succede quando si commenta il resto della Lega, salvo i nomi più famosi. Il problema è che molto spesso questi commenti sui giocatori italiani vengono da osservatori “tifosi” e non “imparziali”, il che rende piuttosto difficile poter parlare di loro quattro in maniera critica e il più possibile oggettiva. Contando poi che provengono da quattro zone d’Italia diversissime—un romano, un bolognese, un milanese e un sardo—il rischio di campanilismo nei commenti è altissimo.

 

È innegabile però che aver avuto quattro giocatori italiani in NBA negli ultimi dieci anni ha aumentato esponenzialmente l’attenzione sul basket d’oltreoceano e ha portato nelle case di molti italiani un prodotto che altrimenti sarebbe rimasto sicuramente seguito dai ferventi “impallinati”, ma decisamente meno facile da consumare per un pubblico più ampio. Per questo l’estate appena affrontata da Andrea Bargnani, Marco Belinelli, Danilo Gallinari e Gigi Datome è stata decisamente interessante: non era mai successo che arrivassero tutti e quattro alle prese con decisioni importanti per il proprio futuro, e l’attenzione sulle loro scelte è stata altissima. Per questo è il caso di parlare in maniera un po’ più approfondita di quanto hanno fatto quest’estate, in rigoroso ordine d’ingresso nella Lega.

 



Mesi fa abbiamo ospitato sulle pagine di

le opinioni di Howard Beck, penna di punta del

con un passato al

e all’

. In quella occasione, parlando di Bargnani, ci disse candidamente di «non essere sicuro che un’altra squadra voglia metterlo sotto contratto quest’estate». La sua profezia si è rivelata errata, visto che Bargnani ha firmato un biennale al minimo salariale (secondo anno in player option) con i Brooklyn Nets, ma ci fa capire quale sia la percezione della nostra ex prima scelta assoluta al di là dell’oceano—un giocatore che a malapena trova spazio in NBA. Come se non bastasse, nei giorni successivi alla sua firma sono usciti diversi pezzi come

di John Schuhmann su

o

su

o

su ESPN, all’interno dei quali Bargnani viene massacrato dal punto di vista cestistico (nel primo), personale (nel secondo) e di adattamento ai Nets (nel terzo, che però lascia aperta la possibilità di una “high reward” nel caso in cui le cose vadano bene).

 

Non so perché i giornalisti americani si siano accaniti così contro Bargnani negli ultimi anni. Di sicuro un atteggiamento non sempre disponibile nei confronti dei media influisce, ma i media americani sono abituati a essere trattati malissimo dai giocatori (vedi:

) e a esaltarli o massacrarli per le loro prestazioni in campo, lasciando da parte le eventuali antipatie personali. Per questo, più che per la sua personalità o un non meglio precisato “ce l’hanno tutti con lui”, le motivazioni di questo “odio” verso Bargnani sono più da ricercare nel tipo di giocatore è diventato il Mago oggi—non la versione “idealizzata”, non quello che era quattro anni fa, non “quello che potrebbe ritornare a essere se sano”, ma quello che è

. Ovverosia un lungo che dovrebbe teoricamente avere il compito di aprire il campo, ma che nelle ultime cinque stagioni ha tirato 1.237 volte dal mid range e solo 610 da tre, peraltro mantenendo un’efficienza maggiore sulle seconde conclusioni (0.95 punti per tiro) rispetto alle prime (0.87, pur con una buona percentuale del 43.3%), come segnalato nel pezzo analitico di Schuhmann.

 

Nell’ultima stagione Bargnani è stato un buonissimo giocatore di pick and roll (1.10 punti per possesso, 11° nella Lega tra quelli con almeno 100 possessi), ma i problemi di Bargnani non sono mai stati nella metà campo offensiva, quanto in quella difensiva. Quest’anno la sua presenza in campo ha fatto registrare un orrido -17.5 punti su 100 possessi, il peggior dato dei New York Knicks (senza di lui il dato scende a “solo” -8.2), il tutto continuando a prendere meno del 10% dei rimbalzi disponibili (da sempre il suo tallone d’Achille) e concedendo il 57.2% al ferro agli avversari—il terzo peggior dato della Lega dopo Thaddeus Young e Enes Kanter, tra i giocatori con

.

 

Il vero problema è che mettendo su un piatto pregi e difetti del Bargnani attuale all’interno di una struttura di squadra NBA, il saldo è sempre più spesso negativo: hai voglia a dire “quanti sette piedi tirano e mettono palla per terra così?”, se quelle due qualità portano a soluzioni non efficienti come un tiro dalla media distanza (che le difese NBA concedono sempre più volentieri). E il fatto di essere stato molto spesso infortunato negli ultimi quattro anni depone molto più a suo sfavore piuttosto che a favore, perché denota un fisico sempre più inaffidabile con il passare degli anni.

 

Detto questo, la scelta di andare a Brooklyn per fare il cambio di Thaddeus Young e Brook Lopez è di difficile comprensione tattica: se in attacco può offrire—almeno teoricamente—qualcosa di diverso rispetto agli altri due (ma in maniera inefficiente), in difesa risulta praticamente ingiocabile con chiunque venga schierato, contando che il quarto lungo, Thomas Robinson, è un buon rimbalzista ma sottodimensionato a livello NBA. E nella pallacanestro, per fortuna o purtroppo, si giocano

metà campo—cosa di cui ci si dimentica spesso quando si parla del Mago a livello NBA.

 



Tra le squadre interessate a Bargnani c’erano anche i Sacramento Kings, che invece hanno convinto Marco Belinelli a trasferirsi in California in meno di un’ora, come ha confessato il Beli in occasione del Media Day della Nazionale. Aveva altre offerte sul tavolo—Hornets, Warriors, Pelicans, Clippers, Lakers, Spurs—di varia entità e durata, ma alla fine l’offerta più alta, quella da 19 milioni in tre anni dei Kings, lo ha convinto a sposare la causa di Vivek Ranadivé, Vlade Divac e George Karl.

 

Una proposta economicamente molto vantaggiosa—definita da lui stesso «quella che finalmente senti di meritarti, ricompensa per tutti i sacrifici che hai fatto»

—che il Beli aveva già rifiutato due anni fa da Cleveland, preferendo andare a San Antonio per inseguire il sogno di vincere un titolo, riuscendoci al primo colpo e aggiungendoci la ciliegina della vittoria al Three Point Contest. Di sicuro gli sarebbe piaciuto riprovarci con gli Spurs, specialmente dopo l’arrivo di Aldridge e West, ma i texani non avevano lo spazio salariale per poterlo rifirmare alle cifre che lui chiedeva. E a 29 anni è anche giusto che un giocatore faccia i propri interessi personali e massimizzi i guadagni fintanto che può, pur sacrificando la possibilità di vincere subito. Il tiro poi è una qualità che “invecchia bene” ed è sempre cercata dalle contender, perciò il Beli potrebbe essere ancora un free agent con discreto mercato quando finirà il suo accordo con i Kings nel 2018, all’età di 32 anni.

 

Quello che è certo è che a Sacramento non ritroverà la stessa situazione vincente avuta a New Orleans, Chicago e San Antonio—anzi, potrebbe essere molto più simile a quella di Golden State dell’era Don Nelson o di Toronto 2009 a inizio carriera. I Kings non vanno ai playoff da prima ancora che il Beli entrasse nella Lega nel 2007 (solo Minnesota manca la post-season da più tempo) e le cose non sembrano essere iniziate col piede migliore, dato che il rapporto tra l’allenatore George Karl e la stella DeMarcus Cousins in questo momento «

» (come dichiarato da Divac) e che «non so quando o come mi incontrerò con Cuz, anche se succederà» (come

da Karl). I Kings sono stati molto attivi sul mercato—hanno visto rifiutate offerte pesanti a Wes Matthews e Monta Ellis, prima di firmare Rajon Rondo, Kosta Koufos, Caron Butler e Omri Casspi—e sono intenzionati a costruire una squadra con record vincente in vista dell’apertura della nuova arena nella prossima stagione, anche sacrificando parte del proprio futuro come fatto nello

pur di riuscirci.

 

Per il Beli sarà “una sfida”, come gli piace definirla, e sarà interessante scoprire quanta “

” sarà in grado di portare in uno spogliatoio pieno di personalità esplosive e in un roster di talento, ma non facilmente compatibile da un punto di vista tecnico. Magari non arriveranno ai playoff nemmeno quest’anno, ma di sicuro sarà interessantissimo seguirli per tutto la stagione.

 



Dei quattro italiani, Danilo Gallinari è l’unico a non aver avuto il contratto in scadenza—ma non per questo la sua estate è stata priva di notizie, anzi. Quando il Gallo si è spaccato il legamento del ginocchio, i Denver Nuggets erano una squadra in grande ascesa, reduce da 57 vittorie in un anno, ma nel giro di due mesi dopo il suo incidente non solo sono stati eliminati al primo turno dei playoff, ma se ne sono anche andati il GM Masai Ujiri, l’allenatore George Karl e l’attuale MVP delle Finali Andre Iguodala. Negli ultimi due anni la squadra ha vinto solo 66 partite, complice un

con l’allenatore Brian Shaw, e qualche giorno fa ha ceduto il giocatore più rappresentativo di quest’epoca, Ty Lawson, a Houston in cambio di contratti tagliabili e un paio di scelte. Questa, a tutti gli effetti, è una

.

 

Non sorprende allora che negli scorsi mesi il nome di Danilo sia uscito in vari

—prima con

, poi con

—anche se proprio ieri sera ha

fino al 2018, un po’ come

dal compagno Wilson Chandler. Con questa mossa il Gallo ha probabilmente rinunciato a un po’ di soldi—con un’intera annata al livello della conclusione della scorsa stagione avrebbe potuto ricevere anche offerte più alte sul mercato, complice la

nella free agency 2016—ma, come ci ha confermato lunedì alla presentazione della Nazionale, a Denver si trova «davvero molto bene» e «se avessi puntato sui soldi avrei fatto scelte diverse già quando sono uscito dal contratto da rookie». Per questi motivi, e anche per la sua storia clinica, ha preferito assicurarsi i soldi garantiti subito e diventare uno dei volti della rifondazione dei Nuggets.

 

Il Gallo prenderà 14 milioni l’anno prossimo (invece degli 11.5 previsti dal precedente contratto), 15 milioni nel 2016-17 e ha una player option per il terzo anno a 16.1 milioni che, se rifiutata, gli permetterebbe a 29 anni di sondare il mercato in concomitanza della seconda esplosione del cap (atteso a quota 108 milioni), quando contratti come quello che ha appena firmato sembreranno più che normali per giocatori del suo livello. In più ha una “trade kicker” piena, il che significa se venisse scambiato in un’altra squadra, avrebbe il diritto a guadagnare il 15% in più rispetto a quanto scritto sul contratto.

 

Certo, resta il fatto che questi Nuggets non sembrano pronti per giocarsi i playoff in tempi brevi, specialmente in un Ovest spietato come quello degli ultimi anni. Ma ci sono dei buoni motivi per sorridere: innanzitutto hanno preso un nuovo allenatore molto competente come Mike Malone (aka

), e hanno un paio di giovani molto interessanti come Emmanuel Mudiay e Jusuf Nurkic su cui poter lavorare. Non è una brutta base di partenza, e considerando anche gli accordi lunghi di Gallinari, Faried e Chandler, si può pensare di ricostruire qualcosa di decente dopo due anni disastrosi.

 



Avendo giocato solamente 447 minuti in NBA, sarebbe facile dire che Gigi Datome ha sbagliato a provare l’avventura dall’altra parte dell’America. In realtà le cose sono più complicate di così: dopo aver trascinato Roma alla finale Scudetto nel 2013, era arrivato il momento giusto per tentare l’avventura negli States—non solo dal punto di vista cestistico, ma anche come esperienza di vita. Purtroppo è andata male, dato che a Detroit le cose non sono andate come immaginato due anni fa e a Boston l’esperienza è durata solo qualche mese, ma la scelta sulla carta rimane sicuramente quella giusta.

 

Le offerte da parte delle franchigie NBA non sono mancate—si dice soprattutto di Clippers e Washington—ma, come ha scritto anche

, cercava una squadra «che mi desse un ruolo nelle rotazioni» e non solamente un posto a roster, con il rischio di rimanere sul fondo della panchina e di giocare solo in caso di infortunio di un altro nel suo ruolo. D’altronde quelli che sta per affrontare sono gli anni migliori della sua carriera e non poteva continuare a passarli senza giocare. Per questo, l’offerta europea del Fenerbahçe aveva tutte le caratteristiche perfette che cercava: alto livello di gioco con grandi obiettivi (il Fener ha fatto le Final Four di Eurolega l’anno scorso e conta di ripetersi), possibilità di contribuire ai risultati (idealmente va a sostituire l’MVP dell’Eurolega Nemanja Bjelica, andato ai Timberwolves), il tutto allenato da una leggenda come Zeljko Obradovic e con un’altra esperienza all’estero in una città come Istanbul. E per la NBA, come dichiarato al Media Day della Nazionale, «

».

 

Quello che è certo è che tutti e quattro, una volta risolte le loro questioni contrattuali, possono presentarsi agli Europei di Berlino con la testa sgombra e la possibilità di giocare tutti assieme per una medaglia continentale, che manca alla nostra Nazionale da Stoccolma 2003, e che ci permetterebbe di tornare alle Olimpiadi dopo 12 anni di assenza, quando raccogliemmo l’argento nelle indimenticabili notti di Atene. Il talento è indubbiamente molto alto e le traiettorie delle carriere di tutti e quattro si incontrano forse nel miglior momento possibile: ora starà a loro portare questa squadra ai più alti livelli europei. Ma di questo avremo modo di parlare più avanti.

 
 

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