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Un bilancio di Euro 2016
15 lug 2016
15 lug 2016
Abbiamo raccolto le opinioni più interessanti sull'Europeo francese, alla fine ci è piaciuto o no?
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51 partite giocate, 108 gol segnati, 201 cartellini gialli e 3 rossi, 3000 lanci lunghi, un vincitore: tutto o quasi dimenticabile. Non è stato un grande Europeo, tanto nella percezione comune, quanto in quella degli opinionisti calcistici più raffinati. La media gol, 2,12 a partita, la più bassa delle ultime cinque edizioni, peraltro drogata dai 7 gol di Francia - Islanda, è il riflesso più diretto di quanto poco ci siamo divertiti. Su

 Ian Darke ha eletto Euro 2016 la competizione peggiore dai tempi di Italia ’90.

 

Non è stato solo un torneo poco divertente, ma anche poco interessante. Per questo è difficile trovare una definizione che fissi storicamente l’eredità di questo torneo continentale. Non è stato un Europeo del cambiamento né dello spettacolo; non è stato un Europeo delle grandi squadre, né delle grandi narrazioni individuali: persino la storia individuale più importante, quella di Cristiano Ronaldo, si è in fondo definita come una narrazione in negativo, un contraltare anti-eroico alla sua solita eroicità.

 

Se vogliamo iscrivere Euro 2016 all’interno di un apparato di senso storico, allora potremmo prendere a prestito la definizione di Daniele Manusia e dire che è stato un Europeo del “conservatorismo”, conseguenza diretta di un’epoca di grandi conservatorismi anche extra-calcistici. Ma non è il solo ad avere una visione così depressa della competizione. Su Ultimo Uomo abbiamo analizzato l’Europeo mentre si svolgeva non riuscendo a trattenere qualche critica magari persino prematura, ma a conti fatti anche i nostri commentatori internazionali non hanno lesinato i peana.

 

Facendo un giro tra le opinioni più interessanti uscite negli ultimi giorni il bilancio finale che emerge è molto meno ricco di chiaroscuri di quanto potremmo immaginare. Non voglio essere troppo distruttivo, ma ho letto molti pezzi ed è davvero difficile trovare opinioni che si discostino da un tono complessivamente negativo, spesso molto negativo. Specie se l’oggetto del discorso è strettamente calcistico e la domanda è: “Come sarà ricordato Euro 2016?”. Quello che ho proverò a fare qui sarà raccogliere le opinioni più interessanti e organizzarle secondo le tematiche emerse, per dare un bilancio il più completo possibile della competizione appena conclusa. Insomma, ci ricorderemo di Cristiano e della falena, del gol di Éder, dell’Islanda, dei rigori di Italia-Germania, ma vale la pena fare spazio nel nostro archivio mentale anche per un giudizio d’insieme.

 

 



 

“È stato il primo Europeo a 24 squadre e non sarà l’ultimo, ma dovrebbe esserlo” si scrive

. Un opinione confermata anche dal critico e polemista inglese (polemista ma brillante come raramente riescono ad essere i polemisti) Barney Ronay sul

: “La struttura a 24 squadre è stata un fallimento”. Se volevate avere un bilancio chiaro della percezione comune sulla nuova formula eccovi accontentati.

 

L’ampliamento del numero delle squadre ha permesso la presenza di tante formazioni di cui forse avremmo fatto volentieri a meno e altre che si sono trovate su un palcoscenico come quello dell’Europeo con dei mezzi tecnici non al livello. La conseguenza più diretta sono state le tante partite tecnicamente inguardabili, dove ha finito per prevalere la voglia di non perdere e l’incapacità letterale di fare più di tre passaggi consecutivi. Anche le partite con in campo tanta qualità potenziale si sono rivelate difficili da digerire: Croazia-Portogallo per esempio,

su ESPN “una delle partite più noiose di una fase a eliminazione diretta”, non ha fatto vedere tiri in porta per 117 minuti ed è stata davvero difficile da guardare senza svenire - a meno che non siate dei pervertiti delle complesse gabbie difensive preparate da Fernando Santos. Se, non dico i gol, ma almeno i tiri in porta, formano una parte essenziale dell’esperienza di uno spettatore di calcio, questo Europeo ci ha spinti a un livello di frustrazione estetica con pochi precedenti. Forse per questo Daniele Manusia, al momento di scegliere il gol del torneo riguardando tutti quelli segnati, ha

di scrivere le sceneggiature delle partite e far diventare il calcio come il wrestling.

 


“E il gol di Éder è un monumento alla frustrazione…”



 

Le eccezioni ci sono state, ma pochissime: Francia-Germania per Jonathan Wilson, Spagna-Italia e Galles-Belgio secondo Chris Jones, ma anche Croazia-Spagna è sembrata di un altro livello. Comunque, forse, è troppo poco per un torneo così lungo.

 

Lo spettacolo è stato condizionato da una struttura che ha premiato l’atteggiamento più difensivo possibile: la fase a gironi, in cui passavano anche le migliori terze, riducendo a 8 su 24 il numero di eliminate, ha reso più importante non perdere che vincere. Un effetto uguale e contrario a quello ottenuto con l’introduzione dei 3 punti per vittoria di qualche anno fa. Basti pensare che nei gironi, prima ancora di giocare, le squadre avevano l’87% di possibilità di passare il turno: la maggior parte delle formazioni ha giocato per escludere quel 13%.

 

Chris Jones su ESPN non ha usato mezzi termini: “Una fase a gironi che elimina solo 8 squadre su 24 è ovviamente ridicola”. Jones ha anche sottolineato la conseguenza paradossale di tutto questo: “Vincere a volte è stato dannoso. La Germania si è qualificata prima nel girone e ha affrontato altre due prime come Francia e Italia. Qualsiasi struttura di un torneo che scoraggia la necessità di vincere va presto smantellata”.

 

 



 

Chi ha voluto dare al torneo una chiave di lettura più positiva lo ha invece definito “l’Europeo delle Underdog”, delle sfavorite, dei Davide contro Golia. Il

per esempio, ma anche

, l’

o addirittura l’

. Alcuni, come

hanno provato a inserire i buoni risultati di Galles, Irlanda del Nord e Islanda all’interno di una tendenza più generale capace di unire quest’anno sia club (citando ovviamente il Leicester, ma anche l’Atletico Madrid) che Nazionali.

 

Guardando i risultati del Galles, arrivato in semifinale, e dell’Islanda, ai quarti, è una considerazione tutto sommato intuitiva. Ma è davvero interessante? In fondo l’ampliamento a 24 squadre, unito alle stranezze di sorteggio e struttura, ha fatto sì che i risultati positivi di squadre senza tradizione calcistica fossero quasi una conseguenza statistica. Si sono qualificati quasi tutti, alcune squadre “piccole” si sono trovate ad affrontare altre squadre piccole (Galles-Irlanda del Nord), o comunque le più piccole tra le “grandi” (Islanda-Inghilterra): per forza di cose alcune di esse hanno passato il turno.

 

L’Irlanda del Nord si è qualificata agli ottavi perdendo due partite su tre e segnando appena un gol. Il Galles e l’Islanda hanno approfittato, rispettivamente, dell’ottimo tabellone (facendo qualcosa di più contro il Belgio, il cui valore comunque era di molto inferiore alle attese) e dell’abisso in cui è sprofondata l’Inghilterra. Nessuno dei commentatori ha sminuito i risultati di Galles e Islanda, entrambi belli e narrativamente potenti, ma tutti concordano nel considerarli anche il riflesso della crisi di gioco mostrata in questo Europeo.

 

L’Islanda, col suo 35% medio di possesso palla, ha lasciato l’iniziativa agli avversari aspettando un errore, cucendo un campo piccolo da difendere e grande da attaccare. Se difendersi a oltranza non è di per sé un problema per il calcio - specie per una Nazionale che deve fare di necessità virtù - lo diventa se la squadra che deve attaccare ha a disposizione pochissime idee e una cattiva organizzazione: “Stiamo vedendo squadre che a volte hanno davvero preparato solo la fase difensiva, lasciando quella offensiva all’improvvisazione” ha scritto Manusia. “La Francia contro la Germania ha dimostrato che la disparità di possesso può comunque produrre un calcio godibile. Ma quando una squadra si trasforma in un semplice sacco da pugilato difficilmente produrrà uno spettacolo che vale la pena guardare”

Wilson. Uno spettacolo che in generale su

  è stato definito “soporifero”.

 

Il risultato più positivo è stato un Europeo molto equilibrato, almeno a livello competitivo, in cui nessuna partita aveva un risultato scontato dall’inizio. Sia per una questione di livello medio che si è alzato: “"è stato un torneo molto equilibrato perché il livello medio delle squadre si è alzato, sin dalle qualificazioni (come dimostra l’eliminazione dell’Olanda”

  da Ecòs del Balon; sia perché, come

  Emiliano Battazzi: “Ormai si conoscono tutti a memoria, è quasi impossibile essere sorpresi da un avversario, lo studio a volte raggiunge addirittura le migliaia di ore”.

 



 

Quindi in un certo senso, se vogliamo definire questo “l’Europeo delle Underdog” possiamo dire che in molti casi le squadre con meno talento hanno giocato meglio di quelle che ne avevano di più a disposizione, tanto per questioni tattiche quanto per questioni psicologiche. In un calcio che sta diventando sempre più mentale, dove le partite si giocano all’interno di bolle di pressione sempre più esplosive, non avere l’obbligo di dover vincere e “fare la partita” si è dimostrato un vantaggio considerevole.

 

 



 

Euro 2016 non sembra aver proposto nessuna idea originale per contribuire al discorso sull’evoluzione del calcio moderno. “Nessuno ha giocato un calcio accattivante. Nessuno ha fatto vedere niente di nuovo. Per lo meno in Brasile, due anni fa, c’erano state le bellissime transizioni del Cile, piccoli uomini pieni di creste e muscoli che risalivano il campo in un lampo, oltre al glorioso secondo tempo di lanci lunghi con cui l’Olanda aveva devastato la Spagna” ha scritto Barney Ronay. In qualche modo questa è anche la conferma del fatto che il flusso di innovazione tra club e Nazionali è ormai unilaterale, con le seconde che sembrano capaci di assorbire le nuove idee male e soprattutto con grande ritardo. Addirittura abbiamo visto il ritorno di forme di calcio vintage, che credevamo estinte, come fa

Battazzi: “Con il kick and run, che ormai speravamo in via d’estinzione, ci si arriva agli ottavi e pure ai quarti: esteticamente e tatticamente, poteva andarci meglio”.

 

Se c’è un aspetto della storia del calcio su cui Euro 2016 sembra aver espresso una sentenza chiara è quello del secolare dibattito tra un calcio del pallone e un calcio dello spazio, o forse ancora meglio: tra un calcio proattivo e uno reattivo. “La morte del calcio di possesso?” è il titolo dell’articolo di Wilson e considerazioni su questo tono sono state fatte anche da Ronay: “Il calcio di possesso ha continuato il suo viaggio da stile vincente a mietitrebbia superata.”

 

Spagna, Svizzera, Ucraina, Belgio, Germania e Ungheria erano tra le migliori dieci squadre per percentuale di passaggi riusciti e in tutto hanno vinto 11 partite su 33; 4 delle 10 finaliste erano invece tra le 10 squadre con la minore percentuale di possesso.

 

Per questo, come

Wilson, “Molte partite sono sembrate quasi una battaglia a non prendere l’iniziativa, una lenta corsa in bicicletta al non-possesso. Le partite di spinta-e-aggressione, di due squadre che vanno l’una contro l’altra - che è ciò che crea spettacolo - sono state rare se non inesistenti, una situazione esasperata dall’abbondanza di squadre moderate, la cui massima ambizione era i piazzare otto uomini dietro la palla”. Su

 anche Charlie Rexach - istituzione del calcio catalano, noto soprattutto per aver scoperto Messi da ragazzino - si è espresso sulla tendenza: “Tutte le squadre erano più preoccupate di non perdere che di darsi da fare per vincere, cosa che si è tradotta in partite prolungate fino ai rigori, unica soluzione a due ore di gioco senza gol”.

 

“Vuoi vincere? Stai lontano dal pallone!” ha chiuso Ronay.

 

 



 

Il risultato più macroscopico di tutto questo, nella sceneggiatura tattica delle partite di questi Europei, è stato assistere a delle estenuanti battaglie attacchi contro difese: “Euro 2016 ha raccontato sempre la stessa storia: attacchi dominanti contro difese ostinate” è stato scritto su

.

 

Nel 2010 Mourinho, con l’Inter, sembrava aver trovato il proprio antidoto al calcio di possesso del Barcellona: lasciargli il pallone e mettersi in attesa di un errore come di un cadavere ai bordi del fiume: “Un nuovo paradigma è nato”, ha

Wilson. Una strategia che in un certo senso si fondava su un ideale di grande pessimismo verso l’essere umano: senza il pallone si può sbagliare molto meno. Una tendenza che dal 2010 ad oggi si è sviluppata perdendo molto del fascino mourinhano in cambio di un cinismo più spendibile su larga scala: Manusia nel

 citato definisce questa strategia non solo “reattiva” ma anche “reazionaria” e se nella sofisticazione tattica delle squadre di club riesce comunque a trovare dei picchi di eccellenza interessanti - sempre Mourinho, o ancora meglio l’Atletico Madrid-, nelle Nazionali prende delle forme grezze, rudimentali, quasi preistoriche. Un ribaltamento di una delle frasi più importanti del calcio contemporaneo: “l’attacco è la miglior difesa è viceversa”.  Oggi per alcuni è la difesa ad essere il miglior attacco.

 

Quello visto a Euro 2016 è un calcio che “distingue in maniera netta tra fase offensiva e fase difensiva (a volte inglobando anche la fase offensiva all’interno di quella difensiva, come fa il gegenpressing), una prudenza elevata a eccellenza”,

sempre Manusia.

 

Secondo

questa povertà tattica è stata causata dall’assenza di fantasia e coraggio da parte di quelle Nazionali che avrebbero teoricamente dovuto costituire una sorta di classe media Europea: “Mi riferisco a squadre come Austria, Russia, Ucraina, Svezia, Repubblica Ceca, Turchia. Di fatto, tra le prime otto, solamente la Polonia è ascrivibile in qualche modo a questa categoria di squadre, sebbene sia nobilitata dalla presenza di eccellenze quali Lewandowski e Krychiowiack”. Tutte queste squadre non solo non hanno proposto una struttura offensiva originale e consolidata, ma si sono anche limitate a reggersi su una fase difensiva brutale: “Quasi tutte hanno giocato da un sistema 4-2-3-1 con possibilità di rotazione del centrocampo, quasi tutte hanno difeso facendo appello più alla quantità di corpi allineati nella propria metà campo che a strategie precise” ha scritto Barcellona.

 


ha fatto notare un ritorno di fiamma per le marcature a uomo a centrocampo, o della zona molto orientata all’uomo, il che secondo Flavio Fusi si spiega con il fatto che è più semplice da allenare (e quindi più praticabile per una Nazionale) rispetto a una zona pura. Daniele Manusia iscrive anche questo accorgimento - e cioè orientarsi più sull’uomo che sullo spazio - come un’altra declinazione dell’atteggiamento generalmente conservativo e distruttivo che la maggior parte delle squadre ha scelto a Euro 2016.

 

 

Possiamo dire almeno che il Portogallo ha meritato di vincere?

 

Quasi tutte queste tendenze sono state espresse dal Portogallo: le marcatura a zona orientate all’uomo, un pressing blando, una fase offensiva con poche idee, un atteggiamento in generale conservativo, più attento a limitare i rischi e a distruggere il gioco avversario che a mettere i propri talenti in un contesto di gioco che li esalti.

 

Se il Portogallo ha vinto è allora soprattutto perché ha saputo esprimere lo zeitgeist di Euro 2016 in modo migliore e più equilibrato degli altri. Questa è un’opinione su cui in molti concordano: “Nessun campione è stato mai tanto rappresentativo dell’ethos del torneo. Due attaccanti lasciati a sé stessi in avanti e una cittadella di otto uomini dietro, che ha concesso appena un gol in 420 minuti e che è stata capace di vincere appena una partita nei tempi regolamentari durante l’intero torneo: questo è il calcio moderno” ha scritto Jonathan Wilson con un tono quasi da apocalisse.

 

Il Portogallo ha passato il girone sfruttando il meccanismo delle migliori terze, pareggiando le prime tre partite di un girone mediocre, vincendo appena una partita alla fine dei 90 minuti. Se vi serve una statistica ancora più assurda: il Portogallo è stato in  vantaggio per appena 72 minuti durante tutto l’Europeo. Molti opinionisti hanno citato questi dati per sostenere che il Portogallo non ha meritato di vincere l’Europeo, volendo forse far valere una visione rigidamente meritocratica del calcio.

 

Ma a questa idea si sono opposte alcune opinioni tipo quella di SB Nation, che rimarca come il Portogallo ha semplicemente scelto la strada che più spesso delle altre conduce alla vittoria: “La difesa spesso vince i tornei, e mentre il Portogallo ha vinto una sola partita nei 90 minuti, al contempo non ne ha persa nessuna”. Michael Caley, che ha affinato una delle migliori versioni degli Expected Goals, ha usato proprio il suo modello statistico per evidenziare che il rendimento offensivo del Portogallo non è stato peggiore di altri.

 

https://twitter.com/MC_of_A/status/748683876952895488/photo/1

La produzione offensiva del Portogallo durante i gironi.



 

https://twitter.com/MC_of_A/status/751756006116515840/photo/1

Prima della finale Francia e Portogallo mostravano all’incirca la stessa produzione offensiva.



 

Parte della contentezza per la vittoria del Portogallo è dovuto al fatto che spesso nello sport si cerca la possibilità di venire sorpresi dall’esito meno scontato. Ci piacciono le storie di chi riesce a competere nonostante mezzi non eccezionali, costruendo un’epica degli ultimi che diventano primi. Se questa cosa può essere vera solo parzialmente per il Portogallo, cioè la squadra con uno dei due migliori giocatori al mondo, su

, (ma non solo) i lusitani vengono messi all’interno dello stesso discorso di Leicester e Atletico Madrid, con un incipit che restituisce bene l’idea di cosa piace delle squadre underdog: “Per un torneo dove l’importanza risiede nei momenti e nelle emozioni intorno al calcio, e non sul calcio in sé, è stato un finale perfetto”.

 

Ed è proprio per gli stessi motivi che in molti non hanno sopportato la vittoria del Portogallo. Considerando un piano puramente calcistico, di gusto o, cosa più importante, di messaggio, che una vittoria del genere può dare al calcio internazionale. Su ESPN Jones ha scritto: “Sono stati cinici e hanno soffocato il calcio. Sono stati come la Grecia del 2004 senza lo spirito dell’underdog. La Grecia doveva giocare in quel modo, il Portogallo no. (…). La mia più grande paura è che altre squadre proveranno a emulare il Portogallo, che il loro stile di gioco possa diventare tossico”.

 

Ma la nettezza di Jones non è isolata, Michael Cox ha detto che “è un manifesto sull’importanza di non perdere le partite”; mentre Rexach ha scritto che la vittoria del Portogallo “è una punizione per tutte le squadre che provano a proporre gioco”, col solito sdegno blasé che contraddistingue chi commenta il calcio da Barcellona.

 

Manusia ha definito questo trionfo portoghese come una specie di “catena della frustrazione”: “Ha vinto una squadra con il merito di aver saputo ostacolare le sue avversarie nello sviluppo del proprio gioco, e ha vinto anche perché le sue avversarie non hanno trovato un modo di aggirare i suoi ostacoli”.

 

Anche senza voler essere catastrofisti ad ogni costo, è difficile evitare un dato: questo Europeo ha mostrato quanto nel 2016 sia più semplice giocare un calcio difensivo e distruttivo che uno offensivo e costruttivo. Se questo non ha niente di sconveniente a un livello morale, è pur vero che non c’è niente di più frustrante che vedere una squadra non sapere cosa fare col pallone (capito, Roy?).

 

Se questo problema nei club viene superato grazie all’accumulazione del talento, alle idee originali dei migliori tecnici, dalla possibilità di un allenamento continuo e costante, per quanto riguarda le Nazionali, e l’importanza delle Nazionali nel contesto di mercato delle squadre di club, non è detto che si tratti di una situazione risolvibile. Alla base di tutto c’è la convenienza: se i meccanismi difensivi sono più semplici da allenare e funzionano bene, perché le Federazioni nazionali dovrebbero faticare alla ricerca di un gioco offensivo che magari non porterà i frutti sperati? Siamo ai confini del calcio stesso, perché la domanda sottintesa a questo dilemma è la più essenziale: perché giochiamo a calcio? Per vincere.


 


 

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