La storia in movimento
di Dario Costa
Quando si riscrivono le pagine del libro dei record, i paragoni con le grandi squadre del passato diventano inevitabili. E tirare in ballo la Storia del gioco, quella con la s maiuscola, dopo aver assistito alle tre migliori stagioni consecutive appare quasi un atto dovuto. Tuttavia, se mettere a confronto singoli giocatori di epoche diverse risulta già di per sé un esercizio futile, riproporre lo stesso schema accostando squadre distanti per genesi, contesto storico e percorso competitivo equivale a lasciare aperta una botola verso il vuoto profondo delle sterili discussioni da bar. In questo senso, le dichiarazioni audaci dei tanti campioni ritiratisi nel secolo scorso, al di là della sagace replica di Steve Kerr, non hanno offerto appigli.
Numeri alla mano, con la vittoria in gara-5 delle Finals 2017 gli Warriors hanno chiuso il triennio più vincente della pallacanestro contemporanea (254 vittorie a fronte di 54 sconfitte). I termini di paragone più vicini a quanto portato a termine da Steph Curry e compagni sono i Chicago Bulls del triennio 1996-97-98 (248-56), seguiti dalla loro versione precedente 1091-92-93 (230-74) e dai Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, che tra il 2000 e il 2002 inanellarono un record complessivo di 226 vittorie e 78 sconfitte spingendo e alzando il piede dal pedale. Ad accomunare gli inseguitori di Golden State in questa particolare classifica è, ovviamente, il conseguimento del three-peat, impresa sfuggita ai ragazzi di Kerr con la finale persa dodici mesi fa. Viceversa, a differenziare gli Warriors da quelle tre memorabili epopee c’è il particolare non trascurabile che, sulla baia, quella conclusasi stanotte parrebbe la prima parte di un romanzo destinato a diventare una lunga saga epica. Ritiri prematuri e poi definitivi – o quasi – e l’insostenibile convivenza tra le due stelle della squadra avevano fermato quei treni di Bulls e Lakers la cui corsa sembrava inarrestabile, laddove le premesse affinché Golden State continui a dominare la lega anche nei prossimi anni appaiono oggi del tutto evidenti.
Un particolare curioso, emerso tra le discussioni sul tema che hanno animato gli appassionati in questi giorni, aiuta forse a comprendere meglio come questi Warriors vengano percepiti e quale potrebbe diventare il tratto distintivo della loro dinastia. Più che il confronto con le squadre sopra menzionate, ad accendere le fantasie dei cultori sembrerebbe infatti essere l’immaginario incrocio con l’incarnazione di cattiveria e scorrettezza tradotte sul parquet, ovvero i Bad Boys della Detroit fine anni Ottanta. Il pensiero su cui poggia la risposta alla domanda “chi, tra le squadre del passato, potrebbe fermare Durant e compagni?” è chiaro: questi Warriors giocano una pallacanestro così vicina alla perfezione stilistica che, per batterli, servirebbe una squadra quasi del tutto disinteressata alla forma e orientata a far emergere la sostanza, magari a colpi di trash-talking e gomitate. Come a dire: se non sei in grado di riprodurre la celestiale genialità con cui Thelonious Monk muove le dita sul pianoforte, tanto vale provare a coprirne le melodie facendo suonare gli Slayer al massimo del volume. Perché la cifra stilistica di questi Warriors è senza dubbio la qualità di pallacanestro offerta dalla prima palla a due della stagione fino al fischio finale di gara 5.
Sotto questo punto di vista, l’esempio più vicino potrebbe essere rappresentato dagli Spurs delle Finals 2014, guarda caso anche loro usciti vincenti con il medesimo punteggio dal confronto con LeBron James, i cui talenti erano all’epoca ormeggiati dalle parti di una South Beach ormai priva di forze e motivazioni. La fluidità del gioco e la capacità di eccellere su entrambi i lati del campo è in effetti analoga, ma le somiglianze finiscono lì. Quella era una squadra forgiata da quindici anni di esperienza ad altissimo livello, condotta da una guida tecnica senza precedenti, trascinata da un fenomeno in portentosa ascesa (Leonard), con tre straordinari, vecchi leoni all’ultimo ruggito (Duncan-Parker-Ginobili) e comprimari in stato di grazia (Green, Mills e Diaw). Un allineamento perfetto delle stelle che, come prevedibile, non si è più ripetuto.
Questi Warriors, invece, hanno due dei cinque migliori giocatori della lega, quattro dei primi quindici (la criminosa esclusione di Klay Thompson dai quintetti All NBA è attualmente al vaglio dell’apposita commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite): con un tale accumulo di talento individuale, giocare con quella scioltezza non dovrebbe risultare possibile. L’inserimento di Durant, primo attore che veniva da un contesto tecnico ben diverso, è avvenuto in modo del tutto indolore, senza imporre modifiche sostanziali all’impianto di gioco o alterazioni agli equilibri dello spogliatoio. La volontà di passarsi la palla e difendere di squadra è un requisito necessario in casi come questo, ma non sempre si dimostra presupposto sufficiente. Perché oltre alla volontà occorre poter disporre del talento e della comprensione del gioco, ingredienti di cui Golden State può disporre in dosi mai accumulate prima sotto un unico banner.
L’ultima partita della stagione 2016-17.
Nella memoria collettiva, più che la singola giocata di uno dei protagonisti, è probabile che Golden State verrà ricordata per questa eccezionale connotazione, peculiarità che sfocia in quei parziali davvero impossibili da fermare, in particolare tra le mura amiche dove vengono accompagnati dall’intimidatorio coro “Waaaaaaarriooooors, Waaaaaaarriooooors” scandito dagli spalti. Sono quelli i momenti in cui la loro superiorità prende il sopravvento e che in questo triennio sono diventati così abituali da lasciare sorpresi quando non si verificano o, ancor di più, quando non conducono alla vittoria.
E forse l’unicità di questi Warriors risiede proprio lì: nell’apparentemente naturale predisposizione a fare quello che fanno, cioè giocare bene a pallacanestro. In questo senso, più che i raffronti con le grandi squadre del passato, il paragone più azzeccato per Curry e compagni sembrerebbe quello con i prodigi degli sport individuali. La disumana acquaticità di Michael Phelps o l’imprendibile passo di Usain Bolt, per dire: fenomeni da cui risulta lecito attendersi il trionfo a ogni ingresso in corsia (eventualità verificatasi piuttosto spesso, in effetti). Allo stesso modo, osservando Golden State giocare a pallacanestro, la vittoria appare quasi una logica, inevitabile conseguenza. Ovviamente la realtà è ben diversa e dietro alle conquiste di Phelps e Bolt, così come a quelle degli Warriors, ci sono fatica, sudore, sacrifici e una dedizione incondizionata all’inseguimento dei rispettivi traguardi. Eppure, nella percezione comune, l’esito delle competizioni che li vedono coinvolti risulta quasi scontato. Se esiste un metro con cui misurare la dimensione storica di un atleta o di una squadra, questo è senz’altro uno dei più affidabili.
Gli Warriors, insomma, nella storia ci sono già entrati, con buona pace di chi si ostina a non riconoscerne la grandezza e preferisce cullarsi nella nostalgia di un passato che cristallizza memoria ed emozioni, gonfiando il petto della retorica a discapito dell’obiettività. Non solo, come già sottolineato, l’orizzonte sulla baia è più che mai aperto verso nuove conquiste. L’anagrafe è dalla loro parte, l’incastro di ego appare in grado di reggere e nemmeno le implacabili regole della lega sembrano in grado di frapporre ostacoli tra il presente da campioni e un futuro da leggende. Resta da vedere come reagirà il resto dell’NBA al più che probabile dominio degli Warriors: è ipotizzabile che i superteam dei prossimi anni non verranno allestiti con l’unico intento di accumulare il maggior numero di stelle possibile, quanto il maggior numero di stelle possibile in grado di competere con Golden State. Le scelte che le altre franchigie si troveranno a dover prendere saranno orientate a trovare non solo i migliori talenti a disposizione, quanto i migliori talenti a disposizione in grado di giocare insieme. Proprio come Durant e Curry, Thompson e Green, la cui convivenza in campo sembra quasi un esperimento di sofisticata ingegneria biologica. Più che gli anelli vinti e quelli da vincere, ad oggi è questo il risultato più distintivo ottenuto dai Golden State Warriors: essere diventati il paradigma perfetto per il resto della lega.
Se non è grandezza questa, allora la grandezza non esiste.
Golden State è un bene o un male per la lega?
di Nicolò Ciuppani
I Golden State Warriors rischiano di essere la spina nel fianco per chiunque proverà a parlare di NBA nei prossimi anni. Già da adesso secondo molti queste finali sono state “come un All-Star Game” – ovverosia con punteggi altissimi, farcite di stelle e senza particolari attenzioni sulla difesa. Sembrerebbe scontato, ma non è così immediato far capire che se i due attacchi più prolifici della storia giocano ad un ritmo elevato è normale aspettarsi quarti di gioco da 75-80 punti combinati.
Quello che più rischia di spaventare lo spettatore, però, è l’eventuale mancanza di competitività. Queste Finals sono state tecnicamente magnifiche, ma sono già state scartate da molti in favore di altre meno belle tecnicamente e tatticamente per la mancanza di “drammaticità” che solo dei risultati in bilico possono portare. In queste finali invece la squadra favorita ha vinto con buon margine, rispettando il pronostico più diffuso già dallo scorso luglio.
Il viaggio però non è stato così brutto, dai.
La NBA non ha mai brillato per imprevedibilità generale rispetto agli altri sport americani: l’importanza di un singolo giocatore è amplificata dal fatto che puoi schierarne solo cinque in campo contemporaneamente; non esiste un hard cap che porti a drammatici riassetti dei roster da un anno all’altro (come invece accade per la NFL) e le serie di playoff al meglio delle sette partite minimizzano i rischi di upset e di sorprese in generale. Ad aggravare la situazione c’è anche il fatto che Golden State sembra in procinto di aver appena iniziato la sua nuova egemonia sulla lega, quando in realtà ha appena concluso il triennio più vincente in regular season di sempre vincendo due anelli su tre, perdendo l’unica serie in gara-7 con numerosi acciacchi e un Prescelto che doveva adempiere al suo destino (roba in confronto alla quale la strategia per passare sopra o sotto i blocchi sembra essere stupida e irrilevante).
Il terzo anno di questi Warriors non è il terzo anno degli Heat, che vinsero il loro secondo titolo in gara-7 ma senza dare l’impressione che gli Spurs fossero davvero più deboli. E non è nemmeno il terzo anno dei Lakers di Shaq e Kobe, dove iniziava a serpeggiare il malumore e scricchiolii tra le stelle, rischiando tantissimo contro i Sacramento Kings in finale di conference. Golden State invece siede di nuovo sul trono con le altre a debita distanza, e nel breve periodo non sembrano esserci ostacoli alla loro grandezza.
Il sistema ideato nel 2011 con il nuovo CBA era stato pensato proprio per evitare una concentrazione di stelle nella stessa squadra, ma comunque non può impedire ai giocatori di scegliere cosa fare con la propria testa e secondo le proprie ambizioni di carriera. Con ogni probabilità Steph Curry e Kevin Durant rifirmeranno a luglio rinunciando a qualche milione a testa per permettere a Andre Iguodala e Shaun Livingston di restare; il loro monte salariale schizzerà alle stelle in breve tempo, ma già adesso stanno producendo più soldi del necessario (l’anno passato hanno versato oltre 50 milioni nelle casse delle altre squadre come forma di perequazione per gli ascolti televisivi); e all’orizzonte c’è il nuovo palazzetto a San Francisco che sembra promettere nuovi impensabili incassi. Golden State pagherà tantissimo per mantenere questa squadra intatta e difficilmente sarà comunque in perdita. Certo, eventualmente la perdita economica arriverà, molto probabilmente a causa della repeater tax che si fa sempre più gravosa per ogni anno passato sopra la soglia della luxury, ma quel giorno appare ancora lontano e non ci sono motivi per fasciarsi adesso la testa sulla questione.
Eppure, nonostante tutte le promesse del caso, non si può semplicemente pensare che gli Warriors siano un male per la NBA. Non è colpa di Golden State se Toronto-Milwaukee o Utah-Clippers non sono state serie particolarmente piacevoli: le migliori serie e la miglior partita di questi playoff ha comunque visto i Dubs coinvolti, e non è certamente un caso né una colpa. Inoltre c’è quell’inspiegabile dato degli ascolti televisivi, per il quale queste finali sono quelle con gli ascolti più elevati dai tempi di quelle del 1998, in cui Jordan vinceva il suo sesto ed ultimo anello – da sempre il golden standard per la NBA. Ovviamente gli ascolti non sono sempre indice diretto di qualità e si potrebbe pensare ad un calo nel prossimo anno, ma per ora – ed è un trend confermato – i superteam piacciono e vendono. Alla fine lo spettatore medio apprezza più una finale con 7 All-Star (tra cui tre delle superstar più riconoscibili del mondo sportivo in generale tra James, Curry e Durant) e punteggi altissimi che una con meno nomi altisonanti ma più combattuta e tattica (cvd. Spurs-Pistons 2005).
Ogni volta che nasce un superteam (e in maniera più amplificata quando vince) c’è sempre l’impressione che per i prossimi anni “tutto sia già scritto”. Ma ogni volta la competizione migliora: giocare contro una corazzata spinge tutti a migliorarsi, tanto a livello dirigenziale quanto a livello di campo, e spesso dal nulla o quasi dei role player diventano stelle e buone squadre diventano eccellenti, mentre comunque i superteam inevitabilmente invecchiano. Nessuno pensava all’ascesa dei Detroit Pistons quando i Lakers persero una sola partita in tutti i playoff del 2001, e tutti pensavano che gli Spurs avrebbero dovuto “darla su” e rifondare da capo (erano stati sweepati dai Suns nel 2010) quando si formarono gli Heat dei Big Three. Succederà anche con questi Warriors, che sia a causa di un miglioramento diffuso, di una mossa di mercato inattesa o perché fortuna e sfortuna giocano comunque un ruolo determinante ogni anno. Cosa sarebbe successo quest’anno se Durant si fosse fatto male sul serio a fine febbraio dopo aver visto Pachulia crollargli sul ginocchio?
Quello che è certo è che Golden State in questi anni ha cambiato la pallacanestro, ha realizzato il miglior record nella storia della regular season (73-9) e dei playoff (16-1), ma non per questo gli Spurs sono disposti a sprecare il prime di Kawhi, i Cavs quello di LeBron, i Rockets quello di Harden. Alla fine c’è sempre un motivo per guardare Golden State e la NBA: per vedere se qualcuno riesce a batterli, per apprezzare il loro meraviglioso gioco corale o solo per capire quale sarà la prossima corazzata che verrà dopo di loro. Voi Michael Jordan e i suoi Bulls non li guardavate?