Un anello per domarli
Cosa significa il titolo conquistato da Golden State per la storia del gioco, per Kevin Durant, per Steph Curry e per LeBron James?
L’apoteosi di Kevin Durant
Di Dario Ronzulli
Partiamo dai numeri, che in questo caso tanto freddi non sono: 35.2 punti, 63.9% di percentuale reale dal campo, 8.2 rimbalzi, 5.4 assist, 28.5% di usage, 121.7 di offensive rating. Eppure queste cifre, seppur strabilianti, non rendono in minima parte l’idea dell’impatto che ha avuto Kevin Durant sulle Finals 2017 e sul terzo episodio della trilogia. Il premio di MVP all’unanimità è stato la logica conseguenza di una serie di partite memorabili nelle quali KD da un lato ha confermato di essere un enigma senza soluzione per la difesa dei Cavs e dall’altro ha dato un’accelerata paurosa al suo cammino verso l’agognato titolo.
Kevin Durant puts up 35.2ppg, 8.4rpg, & 5.4apg in 5 games to secure the 2017 #NBAFinals MVP! pic.twitter.com/5EW499QLYB
— NBA (@NBA) 13 giugno 2017
Godiamocelo in loop.
Durant ha vissuto a lungo con la nomea dello splendido perdente (parola che viene appiccicata addosso ai giocatori con una facilità irrisoria, ma questo è un altro discorso). C’è sempre stato un “ma” ad accompagnarlo: grande realizzatore “ma” non è un uomo squadra; grande talento “ma” non è un leader; grande tecnica “ma” non vince quando conta; e così via. Se ha lasciato i Thunder ed è andato ad Oakland è perché quell’etichetta gli creava un fastidio quasi fisico. Voleva vincere, voleva l’immortalità, voleva rispetto: e chi gli poteva offrire tutto ciò meglio degli Warriors? Nessuno. Come ha scritto Tom Ziller: “The Warriors — and only the Warriors — offered guaranteed glory”.
Era scontato che questa scelta avrebbe attirato su di sé ironie, insulti e accuse variamente assortite per la serie “ti piace vincere facile, eh?”. Come se il Larry O’Brien Trophy fosse stato consegnato da Adam Silver già al momento della firma con gli Warriors. In realtà nello sport nulla è scritto e tutto è da conquistare: dal primo giorno di training camp – se non da prima – Durant ha dovuto lavorare quasi più sull’aspetto mentale, sulla concentrazione, sulla pressione da affrontare per una stagione che sul lato tecnico e tattico. L’essere “obbligati a vincere” poteva essere la vera avversaria per Golden State e KD, ma riguardando la stagione non c’è mai stato un momento in cui realmente i giocatori di Kerr sono sembrati in balia della paura e dei vecchi fantasmi. Neanche k.o. come quello con Memphis ha fatto perdere la concentrazione, e neanche l’infortunio dello stesso Durant li ha rallentati. Una dedizione all’obiettivo comune spaventosa, la prima causa di una stagione fantastica.
Se da un lato Golden State ha dato a Durant quello di cui aveva bisogno, lo stesso si può dire dell’ex Thunder verso la squadra. Da quale lato penda di più la bilancia è questione di sensazioni personali più che di dati oggettivi. Di certo c’è che KD ha portato in squadra esattamente quello che la dirigenza e Kerr si aspettavano da lui: talento offensivo, applicazione difensiva, sacrificio per la squadra, condivisione dell’idea di gioco. Che ci provasse con tutto se stesso era certo; che l’effetto sul campo sarebbe stato questo non era affatto prevedibile con certezza assoluta.
È l’apoteosi di Durant, sia inteso come Kevin che come mamma Wanda. Una figura cruciale nella vita dell’MVP, diventata anche mediaticamente rilevante dopo i commoventi ringraziamenti pubblici del figlio per il premio di miglior giocatore del 2014 fino al botta e risposta con Stephen A. Smith che aveva definito il passaggio di KD agli Warriors «the weakest move I’ve ever seen from a superstar». Una donna forte, energica, decisa: è anche merito suo se il numero 35 è arrivato dove voleva.
“Vieni qua, bello di mamma!”
Dunque: adesso Kevin Durant è un vincente perché ha un anello al dito. Anzi no: resta un perdente perché ha vinto solo con altri fenomeni. Lasciamo queste considerazioni a chi lo sport non sa neanche dove sia di casa. Quello che è sotto gli occhi di tutti, lovers and haters, è che Kevin Durant aveva un obiettivo, ha scelto una strada che sentiva sua più di altre, ha lavorato duramente giorno dopo giorno ed è arrivato al traguardo a braccia alzate. Ovviamente avrà sempre dei “ma” ad accompagnarlo, perché il destino dei grandi giocatori è questo: tuttavia siamo certi che il malessere che creavano non ci sarà più.
KD aveva già il suo posto nella storia del Gioco: ora si è semplicemente spostato qualche fila più avanti in una poltrona che sente più confortevole.
Steph Curry e la narrativa dominante
di Daniele V. Morrone
Per parlare di Steph Curry penso sia utile iniziare raccontando l’aneddoto del sigaro, diventato famoso perché lui stesso si è presentato alle interviste post-vittoria fumandone uno: «La storia dietro questo sigaro è che dopo gara 7 dello scorso anno ho detto ad uno dei miei più cari amici di metterlo da parte e preservarlo. Per essere così in grado di godermi il processo e il viaggio. Ho aspettato un anno intero per potermelo fumare. Ovviamente ora me lo godo tutto».
Steph Curry arrives on set and smokes his cigar 😄 pic.twitter.com/V1cXvReH3D
— Andrew Joseph (@AndyJ0seph) 13 giugno 2017
Avevo scritto nella preview delle Finali di quanto sarebbero state importanti per Steph Curry, per riuscire prima di tutto a distruggere la narrativa venutasi a creare dopo quelle dello scorso anno. E l’idea che il sigaro rappresenti per lui proprio il simbolo di questa narrativa andata in fumo penso sia quella forse più evidente. Dopo il secondo titolo, però, penso che si debba fare un discorso sul rapporto tra lui e la sua legacy.
“Sopravvalutato”, “La squadra ora è di KD”, “Inutile ai fini del risultato”, “Sparatore a salve”: questi sono solo alcuni dei commenti presi dal mucchio del post Finali 2016 dedicati a Steph Curry. Penso sia inutile spendere del tempo a confutare frasi del genere, mentre il discorso di fondo è molto importante. Per la storia della NBA l’arrivo di Michael Jordan rappresenta uno spartiacque decisivo anche nel rapporto tra un giocatore e la propria legacy: Jordan non solo ha obliterato la concorrenza dei contemporanei, ma ha cambiato la visione della NBA delle future generazioni. La natura da “maschio alfa” del giocatore più forte della storia ha portato al pensiero unico della narrativa che la legacy di un giocatore sia legata al suo status all’interno di una squadra vincente: non basta più vincere, lo si deve fare come unico padrone incontestato all’interno del sistema e nelle gerarchie del gruppo. Bisogna insomma non soltanto battere la concorrenza esterna, ma obliterare anche quella interna. Come se il titolo di MVP delle Finali abbia lo stesso valore dell’anello. E che un giocatore, per poter entrare nella storia tra i migliori di sempre, debba avere quello come obiettivo tanto quanto vincere l’anello.
Questo però può far venire in mente il passaggio di LeBron James a Miami, che penso che sia ancora più calzante se analizzato nella prospettiva del suo compagno Dwyane Wade. La percezione che abbiamo di Wade, una delle migliori guardie tiratrici della storia del gioco, descrive al meglio quello di cui sto parlando: la legacy che si lascia Wade è diversa da quando ha accettato “nel suo recinto” un altro maschio alfa, di fatto abdicando al suo regno. Steph Curry come Wade ha vinto, sì, ma ha abdicato al suo regno per accettare un pari che potesse fare concorrenza interna al suo dominio di leader tecnico e mentale della squadra. E questo viene visto generalmente come un sacrificio negativo. Soprattutto perché poi, nonostante l’evidente importanza di Curry nel sistema degli Warriors, a vincere il titolo di MVP delle Finali è stato l’altro.
Gli Spurs hanno per fortuna mantenuto accesa in questi anni (grazie alla natura stessa di Tim Duncan) la fiaccola di un’altra visione dello sport e di cosa significhi far parte di un sistema complesso come quello di una dinastia vincente. Gli Warriors – che con i vari distinguo sono una costola dell’evoluzione degli Spurs – in questi anni non hanno fatto altro che proseguire questa idea e l’hanno fatto principalmente grazie a quello che viene considerato un sacrificio da parte di Steph Curry, che come fece a suo tempo Wade, ha abdicato al suo regno per accettare un pari che potesse fare concorrenza interna al suo dominio di leader tecnico e mentale della squadra. Quello che ha fatto Curry però non deve essere per forza visto come un sacrificio negativo: la concorrenza interna è invece quello che più di ogni altra cosa stimola la crescita in qualsiasi ambito di una persona. Avere Durant in squadra non ha solo portato gli Warriors ad entrare nella storia come una delle squadra più forti di sempre, ma ha anche permesso a Curry di abbattere la narrativa predominante. Quando arriva la vittoria finale, essere protagonista della squadra più forte di uno sport di squadra vale tanto quanto esserne il protagonista unico. Curry ha vinto, l’ha fatto divertendosi con dei compagni che lo adorano e con loro ha posto le basi per qualcosa di veramente immenso.
Quello che più mi da fastidio è che lo si accusa di essere qualcosa “di meno” per aver scelto un modo diverso di arrivare al risultato che tutti gli chiediamo. Un modo che poi prevede anche un importante salto mentale da parte sua nel ripensare la natura stessa del suo gioco, aggiungendo una dimensione da passatore e da rimbalzista sottovalutatissima, diventando realmente un giocatore completo. Gli avversari per batterlo in passato hanno giocato sulla narrativa comune che “la stella della squadra debba fare la giocata”, anche sotto pressione, indipendentemente da tutto. Ecco quindi che arrivavano gli aiuti forti, il gioco duro per forzarlo a fare una cosa innaturale per una “classica” stella NBA di prima grandezza: passare il pallone fidandosi dei compagni.
Come scritto da Dan Devine, però, il motivo che rende gli Warriors imbattibili è proprio che Steph Curry ha accettato, pur andando contro la sua natura di realizzatore irrazionale e anarchico, di fregarsene della narrativa: “Se la difesa ti pressa, ti raddoppia, prova a renderti difficile la vita forzandoti la giocata, passala. Muovi la palla e poi muoviti senza palla. Fidati dei tuoi compagni e fidati che ti ritorni. Fidati facendo la giocata giusta, quella intelligente e anche se alla fine non sei tu a chiuderla, ne derivano cose belle. E quelle spettacolari”. Questo è quello che ha fatto Curry per vincere. E se vincere deve essere l’obiettivo ultimo di ogni giocatore della lega, allora non possiamo criticarlo per aver fatto la scelta giusta invece di quella comune. Curry ha accettato senza problemi di condividere il palcoscenico con Durant per crescere come gruppo e come singolo giocatore, per passare da una grande squadra ad una leggendaria. La sua legacy quindi deve essere legata a quella di un vincente non tanto per l’anello al dito, ma come Wade e Duncan prima di lui, per aver battuto anche il pensiero unico dominante. Fumandosi poi un bel sigaro per festeggiare.