
«It’s coming home», dicono gli inglesi. E così hanno titolato negli ultimi giorni alcuni quotidiani kenyoti e ugandesi, accogliendo il Campionato delle Nazioni Africane (CHAN) dove un secolo fa si giocò la prima gara ufficiale tra due Paesi della regione. Era il 1926, Kenya e Uganda - non per caso due colonie britanniche - si contendevano a Nairobi l’edizione inaugurale della Gossage Cup, da uniche partecipanti (nel secondo dopoguerra si aggiungeranno Tanzania e Zanzibar, fino all’odierna coppa CECAFA).
Novantanove anni più tardi, e per la prima volta in assoluto, da queste parti si sta svolgendo una grande competizione targata CAF, corrispettivo africano della UEFA. “Pamoja” recita lo slogan di questa edizione, che in lingua swahili significa “insieme”, con Kenya, Uganda e Tanzania come co-host. E così il calcio africano è tornato a casa, e un epilogo all’inglese (ben inteso: senza drammi) è dietro l’angolo. La sensazione è che il trofeo resterà in East Africa giusto per queste quattro settimane. Sono troppe le avversarie più attrezzate: Marocco, Algeria, Egitto, Senegal e Nigeria in primis.
La gara d’esordio dell’Uganda, persa 0-3 contro l’Algeria, ha offerto una nitida testimonianza del dislivello possibile tra contesti di alto e basso profilo nel continente. Il risultato è crudele ma sorprendente fino a un certo punto, pensando al gap tra i campionati dei due paesi e ricordando che al Championnat d'Afrique des Nations prendono parte soltanto i giocatori delle squadre domestiche.
La serata di martedì al Nelson Mandela National Stadium di Kampala, però, è stata un punto di partenza, d’incontro e d’arrivo per diversi percorsi. Nelle ultime settimane lo sbarco del CHAN nella City of Seven Hills è stato al centro di diversi interventi pubblici del presidente Yoweri Museveni, e di altre importanti cariche statali; tra cui la first lady e ministra dello sport Janet Museveni, presente sugli spalti per il match d’esordio dei “Cranes” (le gru, uccello nazionale dell’Uganda ed emblema al centro della bandiera nero-giallo-rossa, nonché soprannome delle sue delegazioni sportive).
E poi, chi altro c’era sulle tribune del Mandela Stadium, martedì sera?
C’era il presidente della CAF, Patrice Motsepe. C’erano 30.000 tifosi della squadra di casa. E c’eravamo anche noi, da quelle parti per farci un’idea di come sia vissuta e percepita la più importante rassegna sportiva nella storia recente del paese. O almeno, fino alla Coppa d’Africa (AFCON) 2027, in programma proprio nelle tre nazioni “Pamoja”: un motivo in più per osservare con attenzione i risvolti extra campo dell’appuntamento.
DA KAMPALA ALLO STADIO
Accaparrarsi un biglietto è stato tutt’altro che semplice. I primi vani tentativi sul portale online dedicato sono naufragati per l’impossibilità di pagare con carte internazionali; quelli successivi, con “mobile money” (la valuta digitale del posto), si sono schiantati invece contro una serie di “Error 404” dovuti all’elevato traffico sulla piattaforma. Alla fine sono riuscito comunque a rimediare un biglietto direttamente alla sede FUFA (federcalcio ugandese). Un tagliando cartaceo, malgrado la CAF avesse annunciato la disponibilità esclusiva di e-ticket, ma tant’è. Sono pronto per partire alla volta del mio primo incontro con il calcio africano.
Il caos (acustico e fisico) di fronte allo sportello, unito alla mia impossibilità di parlare luganda, hanno reso l’impresa piuttosto difficoltosa.
Raggiungere l’impianto è un’altra avventura. Il Mandela Stadium si trova a una decina di chilometri dal centro città, percorsi con l’unico mezzo ipotizzabile, un boda boda (moto-taxi), visti i limiti al traffico predisposti per l’occasione e la perenne congestione sulle arterie cittadine. Chi ha viaggiato o vissuto quaggiù, o in contesti simili, può immaginare come sia stata la quarantina di minuti di viaggio: intensa, provante, sensoriale. Parte dell’esperienza.
Mi trovo nel mezzo di uno sciame di moto e taxi collettivi di cui non vedo la fine, né davanti né alle spalle. Come stare al centro del gruppo in una gara di ciclismo, ma respirando tutto lo smog di questo mondo, prendendo qualche colpo da specchietti e gomiti di altri boda boda, e dando le orecchie in pasto a clacson, fischietti, vuvuzela, altoparlanti e qualsiasi macchina da decibel sia mai stata inventata. Può suonare come un’atmosfera infernale, ma in realtà mi fa percorrere gli ultimi due chilometri con la pelle d’oca.
Dove si firma per vedere Via Novara e Viale Caprilli così, quando si gioca a San Siro?
Il Mandela Stadium è un’ellisse di cemento color sabbia, nel pieno stile degli stadi cinesi “chiavi in mano”. Ora bisogna accedere alla struttura. Tra tifosi, venditori di qualsiasi cosa, uno spiegamento impressionante di forze dell’ordine e un sistema inefficiente di code e tornelli, il congestionamento è totale. Si entra pochi alla volta, e con tanta pazienza.
Passare inosservato, per me, è impossibile. Non trascorre un minuto senza sentire un “what you doin’ here, mzungu?”, “che ci fai qui, mzungu?” (che letteralmente significa “bianco”, una versione locale del gringo latino). Io mi aggiro sotto l’ala protettiva di Jejey, il mio imprevisto compagno d’avventura. Un ragazzo del posto appena conosciuto in boda boda - gli ultimi 500 metri, per ottimizzare i tempi, si fanno rigorosamente in tre - e con cui finirò a guardare e commentare la partita, e più tardi a bere una Nile Special.
In ogni caso, considerando anche il carattere di prova generale pre-AFCON 2027, il bilancio è più che positivo. E non era scontato, in una zona abbastanza critica nelle serate di maggiore affluenza, per stessa ammissione degli addetti alla sicurezza. “Si tratta di un evento che può attirare tanta microcriminalità, ma non si è registrato nessun disordine fuori dallo stadio”, conferma un portavoce della polizia di Kampala a un quotidiano locale, sottolineando l’enfasi posta dal governo e dal comitato organizzativo su questo aspetto.
90 MINUTI, E OLTRE
Appena raggiungo il mio posto in tribuna, a un quarto d’ora circa dal fischio d’inizio, mi rendo conto che le mie passate esperienze in stadi europei, sudamericani e asiatici hanno poco o niente a che fare con l’ambiente che mi circonda; con il modo di vivere l’identità, il tifo e lo spettacolo per i tanti, tantissimi giovani presenti - e non potrebbe essere altrimenti, in un paese in cui l’età media è inferiore ai 17 anni.
Avvicinandomi allo stadio mi chiedevo quanto la narrativa sul calcio africano ereditata dal Mondiale 2010 in Sudafrica, la stessa che sui media europei accompagna ogni edizione dell’AFCON, sia densa di cliché. Vuvuzela, persone che ballano sugli spalti, clima di festa - pensavo: sarà davvero così? Oppure, come spesso accade in questi frangenti, si tratta di una rappresentazione stereotipata?
Mi aspettavo, in tutta sincerità, che la mia esperienza dal vivo avrebbe decostruito almeno in parte questa narrazione. Un po’, forse, lo desideravo anche. E invece è il contrario: vengo travolto dalla positività contagiosa con cui la gente si affaccia all’evento. In un ambiente in cui sono abituato a trovare una tensione e un’accezione della gioia soprattutto liberatoria, trovo invece il piacere di condividere il momento con la collettività, anche nella sconfitta. Di manifestare in ogni forma, convenzionale e non, le proprie emozioni. E a proposito di racconti triti e ritriti, ma a quanto pare veritieri, ne posso confermare un altro: il frastuono delle vuvuzela, malgrado il divieto sbandierato dalla CAF alla vigilia. Un brusio di sottofondo che non si coglie solo in parte dalla tv, ma che ventiquattro ore dopo, mentre scrivo queste righe, mi sembra ancora di sentire nelle orecchie.
L’andamento della gara non premia il calore del pubblico, purtroppo. La spinta degli spalti è inesauribile, ma nei primi minuti ho la nitida impressione che ci sia una goleada in arrivo. Il divario tecnico pare troppo ampio per immaginare una sfida equilibrata, e ogni volta che l’Algeria porta palla negli ultimi venti metri nasce una potenziale occasione da gol. In qualche modo, però, l’Uganda si scuote e riesce a portare la partita su un binario fisico, a spezzarne il ritmo, e mi illudo che forse…
Nel momento forse più brillante dei “Cranes”, poco dopo la mezz’ora, da calcio d’angolo arriva però il gol dello 0-1, che cambia indelebilmente lo spartito. Da quel momento alla Nazionale nordafricana basta controllare la gara, abbassando il baricentro, lasciando che lo sterile possesso palla dell’Uganda faccia scorrere i minuti sul cronometro. E quando i padroni di casa iniziano a sentire l’urgenza di fare qualcosa di più, dal 60’ in avanti, si aprono praterie nell’altra metà campo. E nascono i presupposti per lo 0-2, e poi lo 0-3 definitivo - un passivo che avrebbe anche potuto dilatarsi, per quanto accaduto negli ultimi minuti.
Come mi ricorda Jejey, “c’è un motivo se le loro squadre puntano a vincere la Champions League, e le nostre non la giocano neanche”. Non ha tutti i torti, anche se l’ultimo successo algerino nella massima competizione africana risale al 2014 (ES Sétif, il suo secondo titolo e il quinto per un club nazionale), e l’ultima finale al 2015 (USM Alger), il livello tecnico, tattico ed economico dei due campionati non è comparabile. I magrebini sono terzi nel ranking CAF per club, e dalla League A (valore medio delle rose: cinque milioni circa, per Transfermarkt) negli ultimi cinque anni sono salpati oltre trenta giocatori verso i campionati europei. A Kampala, invece, si guardano da lontano le grandi del continente: ventiduesimo posto nel ranking, due sole qualificazioni (con rapida eliminazione) alla Champions League, valore medio delle rose inferiore ai 100.000 euro (sempre secondo Transfermarkt).
PIÙ DI UN TORNEO
Sul campo, insomma, c’è una differenza abissale, forse anche più ampia di quella che separa le due nazionali in competizioni che non prevedono la presenza esclusiva di giocatori “domestici”. L’ultimo precedente tra “Cranes” e “Fennecs”, nelle qualificazioni ai prossimi Mondiali: 1-2, con i primi che schieravano nove titolari da campionati esteri. Il bello del CHAN, però, è anche e soprattutto questo: il legame intimo con le leghe locali e quindi con il pubblico, al netto di un livello inevitabilmente più basso rispetto all’AFCON.
Per la federazione africana si tratta infatti di un palcoscenico “fondamentale all’interno della strategia per rendere il calcio continentale più attraente per tifosi, sponsor ed emittenti globali”, come ha sottolineato Patrice Motsepe, contestualmente all’annuncio del nuovo montepremi. Più cospicuo che mai: ai vincitori del 2025 verranno corrisposti oltre tre milioni e mezzo di dollari, quasi il doppio delle ultime edizioni; mentre i compensi per gli altri turni (qualificazione, raggiungimento di quarti e semifinali) sono stati aumentati in media del 32% rispetto al 2022. “Una svolta che sosterrà lo sviluppo dei calciatori a livello locale”, spiega Motsepe, “e che contribuirà a rafforzare la competitività globale del nostro calcio.”
Per la CAF, comunque, il Campionato delle Nazioni Africane rimane il fratello minore dell’AFCON. E lo stesso si può dire, in scala, per i paesi che lo stanno ospitando. Come anticipato, Kenya, Uganda e Tanzania hanno approcciato la rassegna prima di tutto come test per il 2027: trasporti, infrastrutture, sicurezza, ticketing, accoglienza per delegazioni, stampa e addetti ai lavori - tutto deve essere rodato ora, lontano dalle attenzioni e dalla severità dell’audience mondiale.
In questo quadro, per il Kenya l’evento è anche un piccolo ma simbolico riscatto, dopo aver visto sfumare le già assegnate AFCON 1996 e CHAN 2018, revocate per il ritardo nei cantieri. Non che si tratti di un caso isolato, anzi: l’elasticità dello spazio e del tempo nelle competizioni africane è diventato purtroppo un grande classico. Lo conferma la corrente edizione, che sarebbe la CHAN 2024 e si sta disputando - dopo due rinvii, a settembre e febbraio - con dodici mesi di ritardo. E lo ricordano i tanti slittamenti e cambi di programma dell’ultimo decennio: i traslochi delle AFCON 2015 e 2019, i posticipi di CHAN 2020 e AFCON 2021, 2023 e 2025, le insicurezze che accompagnano qualsiasi tornata, o quasi.
Per i paesi ospitanti, però, rappresentano occasioni importanti. “Queste designazioni ci hanno dato una spinta in più”, sottolinea il presidente ugandese Museveni. “Ci è stato detto che servono tre stadi con standard internazionali e a distanza ravvicinata dagli aeroporti, e questa pressione ci ha portati a Hoima. Come Speke scoprì il Nilo, noi grazie a CHAN e AFCON abbiamo scoperto Hoima”. Il riferimento è a un nuovo stadio in costruzione nell’area occidentale del paese, vicino al Kabalega International Airport, con inaugurazione prevista entro il 2026. Giusto in tempo.
Ciò che di sicuro accomuna tutti gli impianti o quasi designati per il CHAN 2024 - a Kampala (Mandela Stadium), Nairobi (Moi International Sports Centre), Dar es Salaam (Mkapa Stadium) e Zanzibar (Amaan Stadium) - è l’onnipresenza, sullo sfondo, dei capitali cinesi. I binari sono noti, la “stadium diplomacy”: i finanziamenti che da Pechino piovono in ogni angolo del mondo - e in terra africana soprattutto, per ragioni politiche ed economiche - agevolando la costruzione di nuovi stadi.
La logica non fa certo eccezione nell’East Africa, dove la traiettoria dei capitali cinesi è ormai un corridoio continuo che unisce ferrovie, porti, aeroporti e, appunto, stadi. Il modello è sempre lo stesso: grant o prestiti a basso interesse, impresa di costruzioni cinese, naming e cerimonia inaugurale con bandiere PPC accanto a quelle locali. In cambio Pechino consolida rotte commerciali vitali e un capitale diplomatico che torna utile ad ogni votazione nelle agenzie ONU.
Oltre alla geopolitica internazionale, però, sullo sfondo ugandese incombono anche le presidenziali di gennaio. Lo si nota in qualsiasi strada di Kampala, dove in queste settimane c’è un’alternanza serrata di manifesti gialli dell’NRM e di banner arancioni “Pamoja CHAN 2024”. Il torneo è diventato così un’estensione della campagna elettorale, con Yoweri Museveni che alza al cielo il pallone col logo CAF, promette lauti bonus ai “Cranes” e si presenta come padre-padrone dell’evento.
VETRINA POLITICA
Gli spalti pieni del Mandela Stadium sono una cartolina perfetta: ordine, colori, senso di appartenza, volti dipinti di nero, giallo e rosso. “Il calcio è lo specchio in cui la nostra gioventù vede la forza della nazione”, diceva il presidente dopo la vittoria della CECAFA 2019. Ed è il tipo di narrativa che Museveni, a capo del governo da quarant’anni, incessantemente, conta di far rimbalzare fino alle elezioni del prossimo gennaio. Va da sé che nell’edizione corrente del CHAN tutto debba funzionare, senza stonature, perché l’evento racconti lo stato di salute e l’efficienza del paese, e quindi di chi lo guida. Uno schema che nel mondo sportivo non fa notizia, e che il leader del NRM (National Resistance Movement) ha mostrato di conoscere da tempo.
A ventiquattro ore dal debutto con l’Algeria, lunedì pomeriggio, Anita Among (speaker della State House di Kampala) ha annunciato il colpo di scena: 1.2 miliardi di scellini (circa 300.000 euro) promessi alla selezione ugandese per ogni vittoria. “Questi contributi non sono semplicemente soldi, sono una fonte di motivazione”, ha detto Among. “Crediamo in voi e vogliamo che anche voi crediate in voi stessi”, ha dichiarato di fronte alle telecamere del ritiro. Poco dopo, l’account ufficiale governativo ha rilanciato il tweet, con l’hashtag #OneUgandaOnePeople.
Anche in questo caso non si tratta di una prima volta. Nel 2016, in occasione della prima qualificazione all’AFCON dopo quasi mezzo secolo, Museveni recapitò 5.000 dollari a testa ai protagonisti dell’impresa; tre anni più tardi donò case statali ai vincitori della già citata CECAFA 2019; e nel 2021, alla vigilia dell’ultima elezione per la presidenza, regalò pick-up Toyota ai membri della nazionale under-20 finalista nella Coppa d’Africa di categoria.
Venerdì sera, comunque, si torna in campo al Mandela Stadium. Davanti ai “Cranes” ci sarà la Guinea, fresca di vittoria sul Niger (1-0). Una vittoria vale tre punti anche fuori dal campo: incassare il primo assegno presidenziale, tenere in vita le chance di qualificazione, e alimentare quel sogno impossibile. “It’s coming home”.