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Alexander Volkanovski è oro colato
28 set 2021
28 set 2021
Un altro match spettacolare contro Ortega.
(articolo)
14 min
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Sabato notte, durante l’evento UFC numero 266 sono andati in scena tre match che andrebbero considerati quasi come tre main event, tutti di altissimo profilo e di grande qualità tecnico-fisica. Ovviamente quello più atteso della card, in termini puramente sportivi, era la difesa della cintura dei Piuma da parte di Alexander “The Great” Volkanovski, minacciato dal numero 2 del ranking Brian “T-City” Ortega. Entrambi coach dell’ultima edizione del reality The Ultimate Fighter, i due hanno finito col portare il conflitto sportivo sul piano personale, trascinando fuori i litigi avuti all’interno della casa nella quale si svolge il reality, sfruttando una spontanea antipatia reciproca. Nei giorni precedenti all’incontro è stato Volkanovski, in particolare, ad accendere gli animi ricordando a Ortega la precedente squalifica per doping, aggiungendo che non aveva “meritato il suo posto”.

Brian Ortega, quindi, aveva qualcosa in più del solito da dimostrare. Oltretutto, non nuovo agli scontri titolati, aveva già affrontato Max Holloway a UFC 231 ma ne era stato totalmente ridimensionato: da grande promessa pronta per il palcoscenico più prestigioso, a fighter pericoloso e duro ma ancora non completo, non abbastanza almeno per affrontare il numero uno di categoria. Dopo aver già battuto due volte proprio Max Holloway (il secondo match lasciando parecchie discussioni sulla validità del giudizio dietro di sé) Volkanovski non poteva affrontarlo per la terza volta, e il secondo della fila era Ortega.

Uno dei fighter più sottovalutati

Per qualche ragione, Alexander Volkanovski è al tempo stesso uno dei fighter più straordinari e uno dei meno amati dell’intero roster UFC. Nessuno vero motivo scatenante, se non la “colpa” di aver battuto l’amatissimo Max Holloway, almeno nel loro secondo incontro, in maniera non assolutamente convincente. Ma Volkanovski è a quota 20 (sì, venti) vittorie consecutive nella sua carriera nelle MMA, di cui 10 ottenute in UFC. È un campione legittimo, a tratti illeggibile, incredibilmente completo e tatticamente brillante.

Forse la qualità che spicca più delle altre è la sua capacità di mutare e adattarsi all’avversario. Dotato di un allungo stratosferico (180 cm, assurdo considerando i 168 cm d’altezza), di un footwork rapido e preciso, e di un cardio che fa pensare abbia un terzo polmone, Volkanovski è stato capace di annullare ogni punto di forza di tutti i suoi avversari, esaltando contemporaneamente i propri, al punto di dominarli o, nel peggiore dei casi, controllarli in maniera agevole. E se parliamo di singoli momenti passati all’interno della gabbia, forse proprio il match contro Brian Ortega può essere stato il più complicato per lui, quello con i momenti più delicati.

Dopo aver perso contro Holloway, Ortega è rimasto fuori dall’ottagono per un periodo piuttosto prolungato. La sua versione rasata, che lo avvicinava più a Lord Voldemort che a un surfista californiano a cui somiglia di solito, ci ha introdotto a una nuova versione del suo stile di combattimento, e a farne le spese è stato il Korean Zombie Chan Sung Jung, a UFC 260, superato da un Ortega potente, mobile, rapido.

In apertura del main event di UFC 266, Volkanovski e Ortega hanno combattuto alla pari, anche se la prima ripresa è andata in favore del campione, che non ha avuto bisogno di tempo in più per adattarsi ai movimenti dello sfidante. Dall’inizio, è stato Volkanovski ad avanzare e scegliere il range d’attacco; Ortega ha semplicemente accettato le distanze imposte che, col passare dei minuti ha migliorato il proprio timing ed è andato a segno il più delle volte.

Fa davvero effetto vedere un fighter dell’altezza di Volkanovski scegliere di combattere dall’esterno, merito di quell’allungo di cui parlavamo, superiore persino a quello di un fighter come Ortega che in piedi gli dà più di una decina di centimetri. Ma anche del suo timing: con le armi che ha a disposizione, Volkanovski massimizza il risultato minimizzando i rischi, che comunque ha corso. Al contrario dei suoi match precedenti, in questo con Ortega ci sono stati momenti difficili e pericoli concreti.

Uno dei pochi colpi veramente pericolosi del primo round.

Nella seconda ripresa Volkanovski ha lasciato che Ortega prendesse l’iniziativa, attendendo l’esposizione del suo avversario per accoglierlo in counterstriking. Ma dopo poco tempo ha rivisto il suo game plan, tornando a pressarlo e ottenendo ancora una volta l’inerzia, spezzata alle volte dai tentativi di leg kick di Ortega, che hanno comunque arrecato danni relativi al campione.

I due sono entrati parecchie volte in clinch e sono arrivati a combattere anche al suolo: se nello stand-up Ortega aveva qualche risposta, in clinch ne ha trovate poche, era sempre Volkanovski ad ottenere la posizione di vantaggio. Anche a terra, salvo un paio di occasioni veramente pericolose di cui parleremo a breve, Volkanovski ha imposto il proprio wrestling di posizione e portato a segno un ground and pound feroce, che ha cambiato i connotati del suo avversario.

Non c’è stato solo Volkanovski, però. Durante il secondo round Ortega ha centrato il campione con un gancio, restituendo un colpo importante, che gli ha aperto uno squarcio sotto l’occhio sinistro. Ortega ha compreso bene alcuni momenti e ha utilizzato i propri colpi al meglio, fra i quali è spiccata anche una gomitata.

Ortega è andato vicino all’upset

È dal terzo al quinto round semmai che Volkanovski è andato in crescendo, prendendo le redini dell’incontro. Nonostante una superiorità a tratti schiacciante per quanto riguarda volume e cattiveria dei colpi (in queste tre riprese il campione ha portato a segno più del triplo dei colpi dello sfidante, poco meno di 150 colpi significativi contro un numero di colpi tra i quaranta e i cinquanta) Volkanovski ha comunque rischiato di perdere il match, come dichiarerà anche lui in conferenza, in almeno due occasioni.

Nella terza ripresa, dopo aver intercettato un calcio circolare destro del campione, Ortega l’ha sbilanciato con un diretto e si è fiondato alla ricerca della ghigliottina, andando incredibilmente vicino alla sottomissione. La ghigliottina pareva chiusa, ma la determinazione di Volkanovski non lo ha fatto cedere, riuscendo a riguadagnare spazio per respirare e poi addirittura top position dalla quale ha scatenato un furioso ground and pound che ha tumefatto Ortega.

Le gambe di Volkanovski si muovevano tarantolate per liberarsi dalla ghigliottina.

Nella furia che lo guidava per mettere fuori gioco Ortega, Volkanovski si è esposto ed è caduto preda di una triangle choke. Le due sottomissioni preferite di Ortega in pochi secondi.

Eppure, neanche questa volta Volkanovski ha ceduto.

Volkanovski si è liberato anche da questo tentativo di sottomissione. Pazzesco.

È un attimo, e la storia può cambiare. Gli anglofoni li chiamano defining moments, i momenti che determinano un match, una carriera, una storia. Il terzo round del match tra Volkanovski ed Ortega rientra legittimamente tra i migliori round della storia della promotion. E il campione, anche se può non essere il più simpatico, ha guadagnato il rispetto che molti gli negavano. La terza ripresa si è conclusa con un altro attacco continuato in ground and pound che ha totalmente sfinito Ortega.

Alla fine della quarta ripresa le condizioni di Ortega erano così compromesse che Herb Dean non era convinto di far riprendere l’incontro, tanto da chiamare il medico e da aver bisogno che gli desse il via libera per l’ultima ripresa. Ortega ha mostrato una durezza davvero leggendaria: è l’unico fighter nella storia UFC ad aver assorbito più di 200 colpi in più di un match (214 contro Volkanovski, 290 contro Holloway).

Nell’ultimo round Volkanovski ha tolto il piede dall’acceleratore e dato modo ad Ortega di sfogare le ultime energie residue. Dopo venti minuti di lotta, la freschezza aveva ormai abbandonato lo sfidante, che ha disperatamente cercato di trovare una via per la vittoria, ma non è riuscito ad evitare l’inevitabile. I giudici hanno assegnato l’ovvia vittoria ad Alexander Volkanovski, a quota due difese titolate. L’unico fighter capace di tenergli testa rimane probabilmente Max Holloway, e forse è arrivato il momento di vederli per la terza volta sul ring insieme.

Valentina Shevchenko, “untouchable”

Non c’è molto da aggiungere a ciò che sapevamo già su Valentina Shevchenko: nella divisione delle 125 libbre è due spanne sopra le altre sfidanti. Sembra fare un altro sport. La vittima di turno è stata la coriacea Lauren Murphy, convinta di poter superare la campionessa (non potrebbe essere altrimenti altrimenti diventa difficile entrare in gabbia) ma costretta a sbattere contro il muro della dura realtà. Il match è durato quattro riprese, tutte a senso unico e con delle immagini che si sono ripetute come in un déjà vu.

Nel primo round Shevchenko non ha permesso a Murphy di prendere troppa confidenza in avanzamento, ha preferito fermarla e riprendere l’inerzia stroncando le sue azioni sul nascere. Dopo poco tempo, percependo il pericolo, Murphy si è quasi spenta. La chiusura del primo round poi, con atterramento ottenuto da parte della campionessa, ha fatto capire alla sfidante che sarebbe stata una serata lunga e dolorosa.

Nel proprio percorso all’interno dell’ottagono - in crescendo - Lauren Murphy aveva sbaragliato le contendenti, facendosi strada e puntando davvero al titolo, credendoci.

Al termine del primo round, tutte le sue certezze si erano sbriciolate. Per dare la dimensione di quanto il match sia stato a senso unico, si può guardare ai numeri: Shevchenko ha surclassato Murphy superandola di ben 87 colpi significativi (98 a 11). Aveva fatto meglio solo contro Priscila Cachoeira (95 a 2).

Superato il primo round, il copione è stato sempre lo stesso: dalla distanza Murphy si sentiva comprensibilmente in una situazione di costante pericolo; la guardia chiusa di Shevchenko, che le permetteva di rientrare sui colpi dell’avversaria molto agilmente con combinazioni di tre colpi chiuse da low o middle kick, le conferiva un’aura quasi mistica che la faceva apparire intoccabile. Guardia thai, gamba avanzata che teneva il tempo di contrattacco, capacità di controllare ogni momento e movimento.

Murphy ha tentato la carta del grappling, ma neanche lì ha avuto molta fortuna. Shevchenko a metà round ha schivato un diretto, poi ha legato e perfezionato un takedown aiutandosi con il peso ed un colpo d’anca. L’esperienza e la qualità difensiva di Murphy a terra le hanno permesso di arrivare al termine della ripresa in maniera quasi indenne.

Nella ripresa successiva Shevchenko ha mostrato alcuni dei colpi più spettacolari del proprio repertorio: calci sforbiciati, high kick, spinning kick al corpo. Murphy è riuscita ad assorbire o schivare i colpi in maniera agevole, ma le combinazioni da tre colpi da parte della campionessa hanno trovato continuità e al termine del round l’angolo di Murphy suggeriva alla sfidante di accorciare il più possibile perché dalla distanza la disfatta sarebbe stata certa. Ma quanto si può accorciare quando si ha di fronte un’avversaria come Shevchenko?

Nel quarto round Murphy si è virtualmente arresa. Shevchenko per un attimo si è sbilanciata ed è scivolata e lei non ha avuto la prontezza per avventarsi. Forse in quel momento ha avuto la certezza di poter terminare il match. L’inizio della fine è cominciato con un gancio a segno con il quale Shevchenko ha fatto barcollare Murphy, inseguendola immediatamente e riempiendola di ganci sinistri al volto. La sfidante ha tenuto botta in maniera coriacea, ma era ormai sul punto di cedere.

Dopo un takedown a segno l’azione è rallentata, sempre grazie alla capacità difensiva al suolo di Murphy, ma l’illusione è durata poco: feroce ground and pound e fine dei giochi.

Valentina Shevchenko ha così ottenuto la sua sesta difesa titolata e raggiunto Ronda Rousey al terzo posto per maggior finalizzazioni nella storia delle categorie femminili in UFC, preceduta solo da Amanda Nunes, con 10, e Jessica Andrade, con 7.

Valentina Shevchenko non può essere considerata la campionessa numero uno pound for pound finché Amanda Nunes continuerà a vincere, ma la fighter kirghisa ci sta andando veramente vicino.

Nick Diaz, triste?

Il main event “della gente” a UFC 266 consisteva nel ritorno in gabbia di Nick Diaz. In un rematch secolare, il maggiore dei bad boys di Stockton ha affrontato Robbie Lawler, che aveva sconfitto eoni orsono a UFC 47. L’importanza popolare del ritorno di Nick, fan favorite da sempre, era certificata dai video promozionali su YouTube, dove il loro incontro aveva demolito per visualizzazioni i due match titolati, superando le due milioni e mezzo di views.

Già nella settimana precedente al match, dalle prime impressioni, Diaz sembrava avere una personalità diversa dal solito. Il ragazzino che da bullizzato si era trasformato in bullo ha lasciato spazio a un uomo maturo e pieno di incertezze, che dichiarava a Brett Okamoto di ESPN di non avere piacere nel combattere e di attendere i suoi match con tensione e nervosismo. Ma si sa, se sei bravo a fare qualcosa, in qualche maniera la farai. E Nick è sempre stato un combattente naturale.

Passato qualche giorno dall’intervista, Dana White ha rivelato che il match, dalla divisione dei Pesi Welter, era passato a quella dei Medi, perché probabilmente - anche se non possiamo saperlo con certezza - Nick deve aver avuto dei problemi nel taglio del peso. Nick Diaz era ricordato come un fighter dotato di un grande pugilato (incomprensibile ai più perché tecnicamente sporco, ma asfissiante e costante, dal ritmo tremendo), di ottime doti nel brazilian jiu-jitsu e di un cardio pressoché infinito. Si è visto poco di tutto ciò, nelle tre riprese che hanno portato al TKO, ma Diaz ha ringraziato comunque la folla urlante, ricevendo una vera e propria ovazione.

Dal canto suo, Robbie Lawler aveva tutto da guadagnare da questo incontro. È parso rinato, infiammato dal desiderio di rivalsa, ma esaltato forse dalla condizione imperfetta di Diaz. Partito in maniera esplosiva e ruggente, ha provato ad aggredire subito Nick, ma ha trovato una buona guardia davanti a una altrettanto buona fisicità.

Nelle prime fasi Diaz doveva abituarsi proprio all’intensità dell’incontro, al ritmo dei colpi. Già dall’inizio è sembrato un po’ lento, ma ha sopperito a questo svantaggio con la varietà dei suoi colpi, ganci e diretti che passavano a buon ritmo dal corpo alla figura. Da quando Diaz è entrato in fase, il match è stato un botta e risposta di colpi su colpi. Un meraviglioso match che è difficile raccontare perché incredibilmente frenetico, dal ritmo forsennato, nonostante i suoi protagonisti avessero 38 e 39 anni (rispettivamente Diaz e Lawler).

Ma perché si è parlato di un match triste? Perché se Robbie Lawler non è più nel suo prime, la condizione di Diaz non gli ha consentito, come invece solitamente accadeva, di arrivare neanche alla fine del match. Uno dei motivi della fama di Diaz era dato dalla sua durezza, ma dopo tre round dalla grandissima intensità (è il terzo match col maggior numero di colpi combinati dai due sfidanti: 281, 131 per Lawler, 150 per Diaz, preceduto solo da Luque contro Barberena, 332, e O’Malley contro Moutinho, 300) è stato costretto all’abbandono dopo aver subito un colpo pesante al volto.

Della prestazione di Nick si salvano l’intensità e la varietà dei colpi, il buon timing, e ancora una volta la durezza, finché c’è stata. Perché un fighter di 38 anni non può permettersi di subire i colpi che subiva dieci anni prima, questo è un fatto di natura, incontrovertibile. Ma può migliorare.

Il footwork è sempre stato una delle caratteristiche meno qualitative di Nick Diaz, così come del fratello Nate. Il loro stile gli impone di combattere, come dicono in America, in stand and bang, finché l’uomo più duro non rimane in piedi. Ecco, con l’età che avanza non è più possibile farlo allo stesso modo di quando aveva vent’anni, ma la capacità da incassatore potrebbe essergli sufficiente in un match con un volume di colpi minore.

Va lodato anche il lavoro di Lawler, che ha avuto la lucidità di dire al suo angolo: “So cosa sto facendo!”. Lawler ha subito i colpi di Diaz, ma al contrario del suo avversario, non ha mai barcollato. Da ambo le parti, il lavoro pugilistico è stato apprezzabile, ma se guardando Lawler si poteva notare la potenza e l’intensità dei suoi colpi, guardando Nick non si poteva dire lo stesso. Diaz colpiva Lawler in maniera perpetua, ma lo faceva con esplosività minima, probabilmente per conservare energie.

Lo scopo di Lawler era sfiancare Diaz e dopo quaranta secondi del terzo round, a seguito dell’ennesimo scambio in cui ha messo a segno due ottimi ganci, il naso di Diaz era ridotto talmente male che non ha avuto la forza per tornare nel match al richiamo dell’arbitro. Diaz si era messo schiena a terra, sperando che Lawler lo seguisse, ma Lawler, con un gesto che ricordava moltissimo il primo Nick, gli ha intimato di alzarsi e Nick, in maniera incredibile per i suoi trascorsi, ha risposto di no.

Lawler ha abbracciato Nick a terra, poi lo ha ringraziato ricevendo lo stesso trattamento da parte del suo avversario, che ha ringraziato anche il pubblico, dicendosi contento del ritorno. Non più polemiche e ritorsioni, ma solo sorrisi e ringraziamenti. Forse dovremo abituarci a questo Nick Diaz, ammesso che continui a combattere. Forse anche ai coatti rissosi intorno ai quarant’anni serve un po’ di pace.

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