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Andrea Beltrama
Tyrese Maxey è l'accelerazione del Process
09 nov 2023
09 nov 2023
Il protagonista inatteso del grande inizio dei Sixers.
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Andrea Beltrama
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IMAGO / ZUMA Press
(foto) IMAGO / ZUMA Press
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Momenti di fuoco. Applausi. Braccia al cielo. Poi il collasso, la paura. E l’azzardo difensivo che concede a Kristaps Porzingis il tiro del pareggio, a pochi secondi dalla sirena. Contro i Boston Celtics, nella partita più attesa di questo inizio di stagione, c’erano tutte le premesse per un collasso in stile Sixers. Il tiro del lettone, però, è finito corto. E con il rimbalzo difensivo è arrivata anche la sesta vittoria consecutiva per Philadelphia, salutata giustamente da un pubblico genuinamente contento. Un po’ era il sospiro di sollievo per avere evitato la catastrofe, dopo che, sul 104-89 a 4 minuti dalla fine, la partita sembrava ormai morta e sepolta. Ma un po’ era anche la sensazione di aver visto qualcosa di puro, di autentico. Dei Sixers umili, grintosi, arrembanti. E, soprattutto, in grado di buttare sul campo un livello di intensità continuo, con tutti i giocatori in campo.Forse è ancora l’ebbrezza per essersi liberati dell’ultima telenovela. O forse è il segno che, con l’arrivo del nuovo allenatore Nick Nurse e i nuovi equilibri dopo lo scambio, qualcosa è veramente cambiato. Nella tattica e nella testa. Durerà? È prestissimo per dirlo. E anche se non fossimo a novembre, il motto sarebbe quello dei tifosi dei Sixers, superstiziosi e pessimisti: “Hoping for the best, but expecting the worst”, sempre e comunque. Scaramanzia a parte, però, rimane la soddisfazione per un inizio di stagione che meglio di così non poteva andare. Fieno da mettere in cascina, in attesa di capire cosa succederà a un gruppo che, guardando al lungo futuro, molto probabilmente verrà ancora una volta rivoluzionato. Ma che, per il momento, sta girando veramente bene. Rinnovamento dello spiritoLa follia del “Process” ha un metodo. Sa rigenerarsi con logiche ricorrenti, ma una veste sempre nuova. Dagli psicodrammi di Ben Simmons all’arrivo di James Harden; dall’esonero di Doc Rivers ai capricci del "Barba", sfociati nella sua cessione. Le delusioni si sono susseguite in maniera quasi identica. E così, la partita contro Boston di mercoledì sera, da temutissimo trauma trigger dell’ultima eliminazione ai playoff, si è trasformata in una bizzarra Prima alla Scala: la prima vera occasione per vedere il nuovo assetto dopo lo scambio che ha spedito Harden e PJ Tucker ai Clippers in cambio di Nicolas Batum, Robert Covington, Marcus Morris e KJ Martin, più asset al Draft che verranno utili un domani. Per giunta contro uno dei principali avversari della Eastern Conference, con cui i destini potrebbero tornare a incrociarsi in primavera inoltrata. E dopo una partita vera, con intensità decisamente superiore a quella che si vede in questo periodo di stagione, è arrivata una vittoria convincente. Con tanti motivi per tornare a casa soddisfatti.Oltre alla vittoria, la parte migliore della serata per i tifosi di Philly sono stati i lampi intriganti della nuova identità dei Sixers. Senza Harden, che nel bene e nel male si trovava a gestire il pallone per lunghe porzioni di ogni attacco, Philadelphia ha mostrato uno stile nuovo, o comunque diverso rispetto a quello del recente passato. Circolazione veloce; poco pick and roll; Embiid spesso servito in movimento; coinvolgimento di tutti nella manovra offensiva. E una voglia di alzare i ritmi indomita, anche a costo di forzare i tempi in certe situazioni. Soprattutto quando ci sono state in campo le seconde linee e Nurse ha potuto sfoggiare quintetti avanguardisti e fluidi, con uno tra Covington e Batum da numero 4, e tanti saluti ai "ritmi da casa di riposo" (citazione di un italiano locale) che avevano fatto sanguinare gli occhi in certi momenti della passata stagione. Al di là della tattica, però, è lo spirito di tutto l’ambiente che sembra finalmente ringalluzzito. Libero di galoppare non solo sul campo, ma anche nello sfoggio delle emozioni, dopo che l’ennesima telenovela di inizio stagione aveva portato distrazioni, fastidio, e una buona dose di tensione. E così, quando i Sixers hanno chiuso il terzo quarto con un parziale figlio di recuperi e sudore, è arrivata spontanea l’ovazione di tutto il Wells Fargo Center, evidentemente contento di non doversi lambiccare il cervello davanti agli umori e alle lune di Harden. E pazienza se, di tanto in tanto, un’apertura di contropiede finisce direttamente in terza fila.A guadagnarne, oltre alla vivacità della manovra, è stata anche la difesa. Che non può più contare sulla rocciosità di PJ Tucker come jolly da mandare sull’attaccante più pericoloso degli avversari, ma in compenso può preoccuparsi di mordere le caviglie, invece che semplicemente proteggere i propri anelli deboli. Vero è che la leggerezza di Tyrese Maxey si pagherà più avanti, quando le partite conteranno davvero. Ma nulla toglie che i Sixers di queste prima uscite abbiano mostrato una capacità inedita di aggredire, tatticamente e fisicamente, l’attacco avversario. Ben lontana dall’atteggiamento passivo delle ultime versioni, anche prima di Harden. Ed è proprio grazie alla difesa che la partita contro i Celtics è stata indirizzata sui binari giusti grazie al gagliardo parziale di 12-3 con cui i Sixers — con le seconde linee più Embiid in campo — hanno preso il comando nella seconda metà del terzo quarto. Sei minuti abbondanti in cui hanno tenuto l’attacco di Boston a 1/13 dal campo, mettendo pressione sulla palla, colpendo in contropiede, e gasando all’inverosimile la folla del Wells Fargo. E proprio Embiid che chiama a raccolta i tifosi, sull’onda dell’entusiasmo per le due stoppate con cui ha chiuso il quarto, è l’immagine più autentica di questi Sixers frizzanti. Con meno talento, ma immensamente rinnovati nello spirito e nelle idee.

In questo contesto anche Pat Beverley si sente intitolato a prendersi i tiri nel finale di quarto.

EsplosioneNessuno sembra aver giovato dalla partenza di Harden quanto Tyrese Maxey. L’uomo che Morey si rifiutò di cedere quando ancora era lontano dal giocatore che possiamo ammirare oggi. Una mossa che probabilmente ritardò la risoluzione della vicenda di Ben Simmons, ma che, col senno di poi, appare decisamente lungimirante. Quello ammirato nelle prime uscite è stato infatti un giocatore su livelli mai visti prima, capace di unire alla proverbiale velocità una fiducia nel tiro da fuori, anche a lunghissimo raggio, che lo rende un grattacapo incredibilmente complicato per le difese avversarie. Dopo sette partite viaggia a 25,5 punti di media, il 44% da 3 su oltre otto (!) tentativi, il 50% dal campo. E soprattutto ha raddoppiato gli assist — da 3,6 a 7,2 — a fronte di un numero invariato di palle perse (1,3). Un capolavoro di efficienza per un giocatore che, senza la presenza ingombrante del "Barba", si è ritrovato a gestire un numero di possessi e responsabilità infinitamente superiore, e finora lo ha fatto comportandosi da vera seconda stella della squadra. Merito anche del fatto che, per la prima volta, il suo ruolo nelle gerarchie è chiarissimo: non avere la possibilità di nascondersi dietro ad Harden vuole anche dire di potersi permettere di sbagliare, senza paura, e senza la prospettiva di vedere ridotto il proprio ruolo durante lo svolgimento della partita. La partita contro i Celtics è stata emblematica di quello che Maxey potrà essere se le cose andranno per il verso giusto: un giocatore che racchiude dentro di sé un possibile contropiede a ogni possesso, anche senza superiorità numerica, tanta è la sua velocità con la palla in mano. E senza il pensiero di dover “aspettare” Harden, o quantomeno garantirgli un numero sufficiente di possessi, la sua rapidità può finalmente sfogarsi liberamente, aiutata ora anche dalla filosofia della squadra. È infatti impressionante la sistematicità con cui Philadelphia cerca di trasformare ogni rimbalzo in una transizione rapida (solo gli Hawks e i Clippers corrono di più in NBA), con Maxey che spesso riceve l’apertura dal rimbalzo all’altezza della metà campo già lanciato in piena velocità.Se a questo si aggiungono gli evidenti miglioramenti nel concludere nei pressi del canestro (dal 59% della passata stagione all’attuale 65%), si possono vedere chiaramente tutti gli ingredienti per l’esplosione definitiva, dopo un continuo crescendo negli anni passati. In varie circostanze, nella partita contro i Celtics, ha chiuso le penetrazioni di forza, usando il contatto a proprio vantaggio, invece di subirlo. Una novità importante per un giocatore che fino a questo momento tendeva a essere quasi mono-dimensionale nella sua assurda velocità, e adesso, considerando pure i miglioramenti al tiro (sta tirando con un irreale 76,5% da tre piedi per terra, per quanto dal palleggio sia al 23%), sembra in possesso di un ventaglio di soluzioni più ampio. Resterà sempre l’incognita della tenuta difensiva, soprattutto contro avversari più grossi. Ma con un sistema solido alle spalle come quello implementato da coach Nurse in queste prime giornate, la speranza dei tifosi dei Sixers è quella che magagne difensive individuali, spesso evidenziate nelle versioni precedenti, possano avere un impatto minore.

I nuovi Big Two dei Sixers di Nurse.

The shit that happensCosa si prospetta allora? Difficile dirlo, e non solo perché è novembre. Per molti addetti ai lavori i Sixers di queste settimane sono una squadra di transizione. Con i mesi — se non le settimane — contati. Lo scambio con i Clippers ha portato contratti in scadenza e un margine di manovra sul mercato che, con le mani legate dalla situazione di Simmons prima e Harden poi, non si profilava da anni. In linea con la forma mentis del Process, quella che snobba il presente in favore di possibili gratificazioni future, potrebbe essere finalmente il momento giusto per portare a Philly il terzo All-Star che, secondo il mantra del suo stesso capo della dirigenza, è condizione necessaria per essere dei candidati credibili per il titolo. Oltre che scongiurare mal di pancia di Embiid che, seppur mai davvero verificatisi, restano sempre uno spettro terrificante per tutta la città. Eppure, visto da una prospettiva esterna, tutto il Process potrebbe essere visto come un gigantesco, assurdo interludio. “The shit that happens when you’re waiting for the things that never come”, parafrasando il saggio Lester Freemandi The Wire ("Ciò che accade quando aspetti per cose che non succederanno mai", più o meno). Un’attesa di qualcosa che rimane vago, mentre le occasioni concrete sfumano una dopo l’altra. Forse verrà rivoluzionato tutto già questa stagione; più probabilmente si aspetterà l’estate e i free agent che porterà in dote grazie al gargantuesco spazio salariale protetto come un bene prezioso.Nel frattempo, però, c’è un gruppo da applaudire. In piedi. Agitando con convinzione le mani. Proprio come successo alla fine del terzo quarto della partita contro i Celtics. Pur sempre meglio di come era finita l’ultima volta.

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