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Marco D'Ottavi
Tutti gli addii di Luciano Spalletti
26 mag 2023
26 mag 2023
L'improvvisa rottura con il Napoli è solo l'ultima di una lunga serie.
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Marco D'Ottavi
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Piove sul Diego Armando Maradona. È uno stillicidio senza tonfi di trombette e strilli di tifosi. Piove da un cielo che non ha nuvole; piove su Luciano Spalletti. Il mister si alza, dà indicazioni alla squadra, guida il suo Napoli a un’altra vittoria, 3-1 sull’Inter. Ma non è già più il suo Napoli. Nell’ultima settimana si è consumato l’addio, a parole, tra l’allenatore che ha riportato lo Scudetto in città e la città che ha permesso all’allenatore di coronare il suo sogno da Campione d’Italia. Come è stato possibile? Le ricostruzioni più accreditate raccontano di una PEC come causa scatenante: il perfetto colpevole nella nostra Italia della burocrazia. De Laurentiis l’avrebbe mandata a Spalletti per ufficializzare il rinnovo unilaterale del contratto subito dopo la vittoria dello Scudetto. Un gesto freddo e amministrativo che avrebbe fatto saltare la mosca al naso al mister, irritato per essere stato trattato come un impiegato qualunque e non come l’uomo del miracolo. Forse ne sapremo qualcosa di più nei prossimi giorni. Le parole dei protagonisti, come sempre in questi casi, sono state criptiche, come se non si trattasse di affari, ma di Santo Graal. De Laurentiis ha detto che «la libertà è un bene incommensurabile, va rispettata. Non limiterei mai la sua perché non vorrei che lo facesse con me. Mai tarpare le ali a nessuno». Spalletti gli ha risposto: «Non ho bisogno delle ali, non devo volare da nessuna parte. Semmai per quello che vorrei fare mi serviranno un paio di stivali». Neanche una cena tra i due, la “cena dell’intesa”, ha risolto lo stallo. Dopo la partita con l’Inter l’allenatore è stato definitivo: «Il discorso ormai è definito. Non è che si cambia idea tutti i giorni [...] Se non sei convinto di dargli tutto quello che merita questa piazza, è giusto fare dei ragionamenti e si arriva a una conclusione e poi si va dritti. Non è che ci sia piovuta addosso». Ora, sembra, si prenderà un anno sabbatico. Un addio assurdo e improbabile: meno di un mese fa era una favola italiana, oggi sono spuntati i coltelli. Eppure, non il primo. Tra Spalletti e le squadre che allena sembra che la separazione debba arrivare in maniera sgradevole, più per ripicche e incomprensioni che non per mancanza di risultati. La lista dei suoi addii difficili è lunga e piena di aneddoti, dichiarazioni, attriti. Abbiamo provato a ricostruirli al meglio possibile, per come se ne è parlato ai microfoni e sui giornali. I primi addiiChe Spalletti sia una persona irrequieta non è una novità. È il rovescio delle persone curiose, sanguigne, passionali. Alla prima esperienza in panchina, dopo aver portato l’Empoli dalla C1 alla Serie A in due anni tra lo stupore generale, nel giorno della festa promozione, l’allenatore gela tutti: «Non mi sento ancora pronto per la A: prima di dire sì devo riflettere». È un Empoli casalingo, costruito da Corsi e lanciato da Spalletti. Il presidente cade dalle nuvole: «Giuro che non ne sapevo niente, sento queste parole per la prima volta anch'io».

Spalletti con un giovane Corsi (alla sua sinistra).

A chi gli chiede di quanto tempo ha bisogno, Spalletti risponde: «E che ne so, non posso mica mettere la sveglia... Diciamo due, tre giorni». Le motivazioni sono anche tecniche: l’allenatore ha paura che possano vendergli i suoi migliori giocatori, costretto ad affrontare una A depauperato dal talento che si è cercato all'Empoli. Alle spalle ci sono anche tante offerte però. Dopo aver avuto assicurazioni da Corsi, Spalletti decide di restare. È però solo questione di tempo: a marzo esce la notizia di un suo accordo con la Sampdoria, a inizio aprile parla già da futuro allenatore dei blucerchiati. Corsi prova a fare buon viso a cattivo gioco «se ci salviamo, provo a trattenerlo». L’Empoli si salva, ma mentre la città festeggia, Spalletti è già lontano. Ai microfoni chiede a tutti di dimenticarlo: «Il peggior errore di questa città sarebbe far paragoni tra futuro e passato».Dopo Empoli arrivano una serie di addii più subiti che cercati da Spalletti: il primo è proprio con la Sampdoria, con Mantovani che lo esonera a dicembre, poi lo richiama dopo che un mese e mezzo di Platt in panchina ha peggiorato la situazione. Spalletti finisce in crescendo, ma non evita la retrocessione, che spinge le due parti a salutarsi in punta di piedi: «Anche io ho commesso errori» ammette, già promesso sposo del Venezia di Zamparini, non immaginando a quello che va incontro. Dopo averlo pungolato per un po’, il presidente del Venezia lo esonera ancor prima di novembre, per far posto a Materazzi. Passano tre giornate e Zamparini ci ripensa: richiama Spalletti, ma solo per esonerarlo di nuovo, una seconda volta, un paio di mesi dopo. «Non vedo entusiasmo sulla sua faccia», spiega, «È sempre triste, funereo, cupo. E poi veste di nero, che porta male». Una giustificazione tanto assurda a cui Spalletti, almeno in maniera ufficiale, non risponde. https://twitter.com/VeneziaFC_EN/status/1654453346793672705

Qui, almeno, non era vestito di nero.

L’allenatore toscano rimane fermo un anno, poi fa un breve passaggio a Udine, 11 giornate per chiudere la stagione 2000/01. Il contratto però non viene rinnovato (l’Udinese gli preferisce un redivivo Roy Hodgson) e sembra la fine della sua storia con la Serie A. A richiamarlo, a stagione inoltrata, è infatti l’Ancona, in piena zona retrocessione in B. È qui che Spalletti rilancia la sua carriera. Porta l’Ancona fino all’ottavo posto, ha il suo primo grande litigio con un idolo dei tifosi (Pietro Parente) e convince l’Udinese a puntare su di lui. Il braccio di ferro con Pozzo In Friuli Spalletti diventa grande. In tre anni centra due volte la zona UEFA e al terzo anno, addirittura, la Champions League, per la prima volta nella storia del club. All’ultima giornata, con lo stadio in festa, Pozzo predica serenità: «Non mi sembra ci siano segnali di tempesta. Anzi, lo vedo sereno» dice del suo allenatore. Le voci danno Spalletti sulla panchina della Roma, ma lui nega («Mi date tutti sulla panchina della Roma, ma io il secondo a Zeman non lo faccio. Al limite lo può fare lui...»). La realtà però è ben diversa: Spalletti è in contatto con Rosella Sensi da settimane, con la Roma pronta a offrirgli il doppio dello stipendio e una squadra con Francesco Totti. Pozzo, però, non vuole farlo andare via, ora che c’è la Champions. Tra i due c’è una “burrascosa telefonata” (definizione de La Gazzetta dello Sport) in cui Spalletti gli rinfaccia alcune dichiarazioni («Con questa squadra avremmo dovuto conquistare la Champions prima e non all'ultima giornata»), in più si parla di pendenze economiche, soldi che l’Udinese dovrebbe all’allenatore ma che non ha pagato. Il 5 giugno Pozzo dice ai giornalisti che Spalletti è solo stanco di allenare e che lui gli ha proposto un ruolo da direttore tecnico. «L’idea non gli è dispiaciuta», dice Pozzo, «Ci siamo ripromessi di ridiscutere la cosa al mio rientro in Italia verso metà giugno». Il giorno dopo, però, Spalletti gela Udine: «Ritengo concluso il mio ciclo all' Udinese, perché non mi sento in grado di garantire tutti gli anni quel quarto posto che è invece diventata un'esigenza». Altri due giorni e presenta le dimissioni al DS Piero Leonardi, mentre Pozzo è in Spagna. Un gesto ufficiale inaspettato che apre due strade: o Spalletti paga una penale all’Udinese oppure deve stare fermo un anno.

Per 10 giorni si rimane in uno stallo messicano, con la Roma che inizia a tremare visto che tutti gli allenatori rimasti in giro si stanno sistemando. Per aprirsi la strada verso la capitale, Spalletti decide di pagare di tasca propria, una cifra tra i 200 e i 250mila euro sembrerebbe. «Non posso dire se vado alla Roma [...] Se la Roma mi volesse contattare, io sarei disponibile a parlarci. Attualmente non c’è nessun incontro in programma» dice appena libero. Due giorni dopo è l’allenatore della Roma. Il tacco, la puntaA Roma arrivano tre secondi posti consecutivi più alcune grandi notti europee. Alla quarta stagione la squadra arriva sesta, dando l’idea di essere un po’ a fine ciclo. Spalletti è dato come partente, direzione Zenit San Pietroburgo. Il 10 maggio dice che «Può darsi che alcune componenti abbiano fatto riunioni per mandarmi via», il 25 che «Quando uno in un posto non ci vuole stare, è meglio lasciarlo andare». Il 4 giugno si incontra con Rosella Sensi e decidono di andare avanti insieme. «Resto perché sono io che voglio restare», dice. Totti, saputa la notizia, non sembra contentissimo: «Spalletti resta? Sono contento, anche perché in giro non c'era altro». Immediata la replica dell’allenatore: «Totti si è sbagliato, perché di meglio c'è sempre e questa è una mia volontà».La stagione della Roma inizia con un doppio preliminare di Europa League vincente con Gent e Kosice (curiosamente con due vittorie per 7-1), poi però arrivano due sconfitte contro Genoa e Juventus. Dopo il 1-3 subito all’Olimpico dai bianconeri, Spalletti va davanti ai microfoni e attacca i giocatori. È la famosa conferenza stampa del «Sono cinque anni che dico gli equilibri, gli equilibri, gli equilibri… il tacco, la punta, il titolo, il gol», parole scandite da una mano che sbatte sul tavolo, «Gli equilibri! Ci vogliono gli equilibri! Bisogna avere forza, se non si fanno i contrasti», la mano sbatte più forte sul tavolo a far capire la gravità del momento «non si vincono le partite, non si vincono le partite».

Sembra lo sfogo di un momento, ma invece è la fine, dopo solo due giornate. Nella pancia dello stadio Spalletti dice al suo entourage di «non poterne più», scottato dal mercato (è l’anno di Zamblera e Lobont), attaccato dai tifosi in e rotta con Totti, che critica apertamente per il mancato impegno. Il giorno successivo Sensi incontra Ranieri alle 11, alle 12:15 invece è il turno di Spalletti, che 40 minuti dopo esce da Villa Pacelli annunciando le sue dimissioni.Sensi avrebbe invitato l’allenatore a ripensarci, ma Spalletti sarebbe stato irrevocabile: «Sono stanco. Non riesco più a trasmettere le mie idee alla squadra. Non ha senso andare avanti». L’allenatore sceglie addirittura di rinunciare ai 7,2 milioni lordi restanti nel suo contratto, chiedendo però che venisse pagato il suo staff. L’ultimo atto è una fuga verso Trigoria, per svuotare l’armadietto. Uscendo dalla villa, nella fretta, l’allenatore struscia un muro con la fiancata del suo Q7.Speravo de morì primaPochi mesi dopo Spalletti è sulla panchina dello Zenit, dove rimane quattro anni prima di venire esonerato a marzo del 2014. È forse l’unico addio davvero tranquillo per l'allenatore toscano, che saluta tutti dicendo che rimarrà per sempre tifoso. Sta due anni fermo e poi l’inaspettato: a gennaio del 2017 torna ad allenare la Roma, subentrando a Rudi Garcia. Sul campo questa minestra riscaldata funziona: Spalletti rimette in piedi la squadra il primo anno, ma nel secondo qualcosa si rompe. Per qualcosa, ovviamente, si intende il rapporto con Totti. C’è parecchia bibliografia a riguardo: interviste, dichiarazioni, una serie TV, eppure ancora oggi è difficile ricostruire come si sia arrivati a un punto così inconciliabile, da una parte Spalletti e dall’altra il Re di Roma. Le dietrologie si sprecano: c’è chi dice che l’allenatore - che già aveva avuto un rapporto conflittuale con Totti - sia stato richiamato solo per mettere fine alla carriera del numero 10 giallorosso, qualcosa che nessun altro a Roma - non a torto - voleva fare. Chi dice invece, che Spalletti abbia provato quel piacere sadico del carnefice nel costringerlo a smettere. Sottotraccia lo scontro tra i due è aperto dal primo giorno. Il capitano della Roma racconterà nel suo libro che appena arrivato Spalletti gli disse: «L’altra volta ti ho permesso tutto, Francesco, ora non più. Devi correre come gli altri, anche se ti chiami Totti». Ma la questione esplode in pubblico solo a febbraio, quando Totti rilascia un’intervista al TG1 in cui, dopo aver esplicitamente chiesto il rinnovo di contratto, accusa Spalletti di non farlo giocare e di non dirgli le cose in faccia: «[Con lui] è un rapporto buongiorno e buonasera».

L’intervista esce mentre la squadra è in ritiro, Spalletti, che poche ore prima aveva annunciato Totti in campo dal primo minuto, lo convoca nel suo ufficio e lo rimanda a casa (altro litigio poi raccontato dal capitano della Roma nel suo libro). Quella sera Totti sarà presente sugli spalti dell’Olimpico, con i tifosi che dimostrano di essere dalla sua parte. La città, in maggioranza, non avrà mai dubbi su da chi parte stare. Dopo la partita l’allenatore spiazza tutti: «Se fanno smettere Totti vado via anche io».

Il futuro di Totti e Spalletti diventa un fantasma che aleggia sulla stagione. Chi la spunterà? Ad aprile, prima di una partita con l'Atalanta, i due arrivano quasi alle mani, poco dopo è Ilary Blasi a dargli del “piccolo uomo”. L’allenatore risponde regalando al giocatore della Roma per i suoi 40 anni il singolo “Piccolo uomo” di Mia Martini. La squadra, che fino a quel momento in campo era andata benissimo, mette in fila una serie di sconfitte, tra cui nel derby, che compromettono il campionato, mentre si fa eliminare dal Lione in Europa League con quella che forse è la sua miglior rosa da anni. Intanto dalla Spagna arriva Monchi per mettere fine alla carriera di Totti alla Roma e, in maniera meno netta a quella di Spalletti nella capitale. Qualche giorno dopo, mentre i tifosi metabolizzano la notizia, l’allenatore avrebbe la possibilità di far giocare gli ultimi minuti della carriera a Totti a San Siro, con il pubblico del Milan pronto a omaggiarlo, ma sul 3-1 Spalletti preferisce far entrare Bruno Peres.

L’allenatore riceve critiche da tutta Italia. «Tornassi indietro» dice «non allenerei la Roma». Si parla di minacce personali, striscioni sotto casa, insulti ai figli. Se il finale di Totti è glorioso, quello di Spalletti sarà l’opposto. Nel giorno dell'addio di Totti (e suo), viene fischiato dall’Olimpico, dando vita ad un finale amarissimo dopo - sommando - 297 panchine e alcune delle stagioni più esaltanti mai viste a Roma.Scherzi a parteNeanche il tempo di lasciare i giallorossi, che Spalletti diventa il nuovo allenatore dell’Inter, scelto dalla nuova proprietà cinese per riportare la squadra ai suoi fasti. La prima stagione si chiude con un quarto posto conquistato grazie a una vittoria per 3-2 sulla Lazio all’Olimpico con un colpo di testa di Vecino, la buona notizia sono i 29 gol di Icardi, che con il nuovo allenatore sembra poter spiccare definitivamente il volo. La seconda stagione, però, le cose iniziano a incrinarsi quasi subito. Prima ci sono le voci di incontri tra Conte e Marotta, con l’ex allenatore della Juventus pronto a subentrare dalla stagione successiva, poi scoppia la grana Icardi. A gennaio 2019 le trattative sul suo rinnovo diventano un caso mediatico, tra dichiarazioni social sue e di Wanda Nara, voli persi, multe salate e frecciate ai tifosi, come quelle dopo la sconfitta con il Bologna. Dopo una vittoria col Parma è lo stesso Spalletti a parlare: «È ora di affrontare la questione, perché qualche discorso di troppo si è fatto». Gli risponde Marotta: «Sono situazioni che gestiamo nel migliore dei modi, smentisco assolutamente che questo possa generare un caso». Sembra un disgelo, ma da quel momento tutto va a rotoli. Wanda Nara dice che Lautaro Martinez - autore del gol vittoria col Parma - ha segnato grazie ai movimenti di Icardi. «Magari Spalletti poteva metterlo prima» dice, poi aggiunge che l’Inter dovrebbe comprare giocatori capaci di mettere palloni buoni al suo assistito. Due giorni dopo esce un gelido comunicato dell’Inter: «Il Club comunica che il nuovo capitano della squadra è Samir Handanovic». Appena saputo Icardi lascia la Pinetina, con la squadra in partenza per Vienna, dove avrebbe dovuto affrontare il Rapid. Luciano Spalletti parla di “decisione condivisa” riguardo la fascia, tra lui e la società: «Togliere la fascia da capitano a Icardi è stata una scelta dolorosa ma condivisa da tutti per il bene dell'Inter». Per qualcuno è stata una scelta della società, per il rinnovo, per altri dell’allenatore, a causa di alcune risposte “non da capitano” date dall’argentino in spogliatoio. Tra Icardi e l’Inter diventa una specie di tira e molla in cui Spalletti si trova invischiato. Uno scenario simile a quello vissuto appena due anni prima con Totti (e che poi, con modalità diverse, accadrà con Insigne). L'argentino rimane un mese fuori rosa poi viene reintegrato per decisione della società. L'allenatore accetta, contro la Lazio lo convoca e lo fa giocare solo negli ultimi minuti. Interrogato a riguardo dopo la partita, Spalletti è durissimo verso l'ex capitano, ma anche di rimbalzo anche con la società: «La mediazione è una cosa umiliante, mediare con un calciatore per fargli mettere la maglia è una cosa umiliante. Valutatela voi. Che cosa vuol dire fare una trattativa per fargli mettere la maglia dell'Inter? Adesso mando la mail agli avvocati dei giocatori e chiedo se vanno bene i convocati».

Impegnato nella lotta per uno dei primi quattro posti, sopraffatto dal caso Icardi, con le voci su Conte nelle orecchie («al 60% l’anno prossimo allenerò in Italia» dice lo stesso allenatore a inizio maggio) Spalletti diventa fatalista riguardo al suo futuro: «Se giornali così importanti stanno scrivendo che il prossimo anno non sarò più su questa panchina avranno i loro buoni motivi» dice. Il fastidio si sposta dall'interno verso l'esterno. Le ultime giornate sono un continuo attaccare i giornali e i giornalisti. Spalletti li accusa di scrivere sempre le stesse cose per destabilizzare, di dargli del “bollito”. A un giornalista che in conferenza stampa gli chiede se è rassegnato davanti alle voci di esonero risponde «Rassegnato io? Rassegnato sei tu [...] se hai problemi vieni che ti do la mia determinazione e il mio carattere, che a me avanza. Non ti vedo tranquillissimo, con questo musino un po' bianchino e un po' smunto, vienimi a parlare e te la metto a disposizione la risposta che tu cerchi».

Si arriva all’ultima giornata, con l’Inter che deve battere l’Empoli per andare in Champions e l’Empoli che deve salvarsi. Ne esce fuori una partita pazza con pali, traverse, salvataggi sulla linea e grandi parate. L’Inter vince 2-1 e ai microfoni Spalletti si toglie qualche sassolino dalla scarpa, soprattutto per quanto riguarda la gestione del caso Icardi: «Io ho il mio carattere, e quando prendo una decisione lo faccio perché sono convinto [...] In un club come l'Inter le decisioni si prendono insieme: poi se uno non c'era, un altro non ha sentito e si torna indietro, allora tutto diventa più difficile». Sul suo futuro dice: «Se mi confermano è da scherzi a parte». Tre giorni dopo non è più l’allenatore dell’Inter. L'esperienza a Napoli sembrava aver segnato il passaggio a uno Spalletti più pacifico. Evidentemente non era così. La tranquillità e il piacere che è riuscito a trasmettere alla squadra non era il suo. Dispiace, perché poche squadre hanno raggiunto i picchi estetici del suo Napoli negli ultimi anni. Ma forse Spalletti ha bisogno di questo conflitto interiore per lavorare al meglio. Quello che possiamo fare, allora, è aspettare la sua prossima destinazione e poi sperare che possa regalarci grande calcio e addii ancora più grandi.

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