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Contro le sfilate di moda dei calciatori
13 nov 2025
I giocatori spendono sempre più tempo a scegliere i vestiti da farci vedere.
(articolo)
6 min
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Ricordo un’intervista di dieci anni fa in cui Cristiano Ronaldo, infastidito dalle domande del giornalista che gli chiedeva dello scandalo di corruzione che aveva travolto la FIFA, aveva risposto che non era di quel genere di cose che parlava negli spogliatoi coi suoi compagni. «E di cosa parlate?», gli aveva chiesto quello, rispondendo con stupore allo stupore. Ronaldo rispose: «Di musica, di donne, di moda, di scarpe, di borse, di gioielli, di tagli di capelli… vuoi che ti faccio una lista completa?».

Sembrava una risposta provocatoria, volutamente esagerata. Dopotutto togliendo la musica e le donne gli unici argomenti di conversazione riguardavano la loro apparenza. E invece no, oggi possiamo essere certi che fosse sincero, non solo perché ormai sappiamo che Cristiano Ronaldo non sa cosa sia l’ironia, ma anche perché abbiamo la prova che i calciatori, in effetti, pensano solo a come vestirsi.

Non vorrei dargli troppa importanza, ma vi sarete accorti anche voi che i raduni della Nazionale francese a Clairefontaine sono diventati delle vere e proprie sfilate. Questa cosa la chiamano “tunnel fit” e viene dalla NBA. Ok. Jules Koundé si presenta con stivaletti coi tacchi, maglioni sgargianti e borse di marca; Ibrahima Konaté sembra l’agente segreto che torna indietro nel tempo per uccidere Hitler bambino in un nuovo film di Christopher Nolan. Adesso anche Calafiori si presenta a Coverciano con dei pantaloni animalier e quindi forse sta prendendo piede.

Certo, abbiamo degli esempi contrari: Hansi Flick al Barcellona, per dire, ha imposto la tuta proprio per evitare distrazioni nei prepartita. Insomma, è un tema di discussione. Deschamps stesso, la personificazione dell’anti-stile, non ha potuto fare a meno di commentare i capelli di Mbappé quando è apparso evidente che se li stesse facendo crescere con una specie di pettinatura afro dall’aspetto stranamente frattale come quello dei broccoli romani.

Adesso non è che io sono contro i vestiti, o lo stile. Anzi, semmai non mi piacciono le uniformi (o meglio, il fatto di costringere qualcuno a indossare un’uniforme, perché le uniformi, di per sé, sono quasi sempre bellissime) o i dress code. Però questa cosa mi infastidisce anche se non lo vorrei. Mi pare una superficialità aggressiva, che blocca sull’uscio chiunque provi a fare un passo all’interno di quelle identità sfuggenti, nebbiose, forse vuote. Un modo come un altro per non dire niente di sé: lasciar parlare i vestiti.

Non è solo una questione di privilegi e distanza dal loro pubblico - il fatto, cioè, che nessuno di voi, di noi, probabilmente possa permettersi di vestirsi come loro - ma soprattutto dell’annoso problema del ruolo dei calciatori nella nostra società. Abbiamo detto così a lungo che i calciatori non devono essere dei modelli che alla fine proprio quello sono diventati, dei modelli, di vestiti e accessori e gioielli. Ma quando lo dicevamo intendevamo che i calciatori avevano diritto alla propria giovinezza, all’esprimere opinioni e compiere errori come tutti. Il punto era questo: come tutti.

I tunnel fit sono sfacciate dichiarazioni di significato opposto. Che i calciatori non sono come tutti. E ripeto, non vorrei dargli troppa importanza, ma io ci vedo anche la conseguenza del loro isolamento, il fatto che tutti o quasi gli sforzi delle società di calcio sono tesi a proteggerli, coccolarli, ma anche separarli dalla normale quotidianità degli esseri umani. Un tempo non era mistero che i dirigenti spingessero i calciatori più agitati a fare una famiglia, ad avere figli, così da calmarsi, oggi è come se ogni calciatore fosse un esperimento scientifico di produttività ed efficacia. E ogni esperimento scientifico richiede il controllo delle variabili. Meno variabili, più facile è controllare.

Per questo il calciatore deve essere vuoto, senza particolari interessi o passioni. Oppure deve averne di innocue, come appunto i vestiti. Nei vestiti possono sfogare tutto il loro bisogno di esprimersi; i loro sentimenti, le loro opinioni sul mondo, tutto può essere ridotto a una giacca in pelle o un bomber in maglia; tutto sta nella scelta tra un paio di sneakers da mille euro e un paio di stivaletti in pelle con tacco da cowboy. La ricerca dei vestiti richiede tempo, è difficile vestirsi bene, e così può andarsene tutto il loro tempo libero, quello che gli lasciano gli allenamenti e le infinite ore di sonno di cui hanno bisogno per recuperare e non rompersi. E poi ci sono le famiglie, certo, giusto per non sentirsi come degli astronauti nello spazio.

Magari vado troppo in là, sovrainterpreto, lo so, ma dato che quando Balotelli faceva esplodere il cesso di casa propria coi petardi ero uno di quelli che diceva che non dovevamo chiedergli di essere un modello, vorrei aggiungere oggi, che si può comunque pretendere qualcosa di più dai calciatori. Senza tirare in ballo i tempi in cui i calciatori veramente carismatici andavano in giro con le galline al guinzaglio (Gigi Meroni ancora meglio di Salvador Dalì che si presentava negli studi televisivi con un formichiere preso in prestito allo zoo), potrò lamentarmi di Lamine Yamal che si fa pagare gli autografi perché la sua fidanzata ha bisogno di troppi soldi? Potrò vederci un segno della decadenza di questa particolare branca della cultura globale - il calcio - ormai priva di qualsiasi carica critica, incapace della minima ribellione dal conformismo, o persino di commento di quello che la circonda?

Il privilegio della fama dovrebbe rendere i calciatori più liberi, di quanto lo siamo noi, dai conformismi e dalle costrizioni sociali. E invece è come se i calciatori contemporanei fossero dei monumenti ambulanti al conformismo, con i loro figli-fratelli-minori, con il lusso normalizzato come all’interno di una pubblicità per auto in cui non c’è traffico, in cui non ci sono le altre auto. Le fatiche del loro corpo, i piedi storti, callosi, le unghie nere, coperte da tessuti alieni, nascoste nelle fogge sartoriali dei loro travestimenti.

Fateci caso: i calciatori che più ci piacevano, che più ci appassionavano, erano quelli più vicini, quelli che usavano il loro potere mediatico ed economico per mandare un gigantesco vaffanculo al potere stesso. Calciatori ribelli, che fumavano sigarette e bevevano nonostante fossero atleti, che vivevano alla luce del giorno e non sotto la luce rossa di Marcos Llorente, che magari uscivano anche la notte anziché dormire dodici ore come i bambini appena svezzati. Sempre in equilibrio tra performatività e umanità, tra fare quel che dovevano e quello che volevano.

Ma anche: calciatori che rifiutavano di stringere le mani dei dittatori, calciatori laureati in medicina, calciatori che rifiutavano la nazionale di un Paese oppressore per rappresentare una nazionale rivoluzionaria. Calciatori, in sostanza, con uno spessore umano, con una profondità, che non rimandavano solamente a se stessi, anzi, alla propria immagine. Che non ambivano a vivere all’interno di una pubblicità di Vogue.

I calciatori si sforzano così tanto di vestirsi bene che a me non interessa sapere nient’altro di loro. Temo che la mia curiosità sia inversamente proporzionale alla loro superficialità, al loro desiderio di trasformarsi in pura immagine, in personaggi che recitano una parte. D’altra parte, il calcio è il regno della carne, delle gambe. Il campo non mi basta, ho bisogno di conoscere gli uomini che giocano, ma il Met Gala di Clairefontaine e la settimana della moda di Coverciano mi hanno già stufato.

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