Tuffarsi
Intervista a Tania Cagnotto, migliore tuffatrice al mondo da 1 metro. A quattro mesi dal ritiro, Tania racconta Tania.
La Cina non è vicina
Tra le migliaia di limiti di cui è fatto un luogo comune, c’è soprattutto la superficialità. Propongo a Tania di analizzare la dittatura cinese nei tuffi femminili con un paio delle frasi fatte che vengono usate più spesso. Una legata alla popolosità – in un miliardo e sei di persone vuoi che 2 brave a tuffarsi non le trovino? – un’altra alla severità del metodo – eh ma là non scherzano, se non sei brava e non vinci sono guai. Tania sospira come fanno quelli che non capiscono bene da che parte cominciare per confutare il pressapochismo. «Innanzitutto in Cina i tuffi sono uno sport nazionale. Iniziano da piccolini e anche prima di avere l’età per andare a scuola si allenano già anche 8 ore al giorno». Il tempo come fattore chiave. «Considera che io ho iniziato a fare 2 allenamenti al giorno, solo dopo la maturità. Hanno un vantaggio di anni che è praticamente impossibile colmare». Il valore aggiunto poi, c’è eccome. «Un po’ gli arriva dalla biologia: sono fisicamente leggeri e minuti, e questo aiuta. Il resto lo fa la maniacalità. Sono le più brave, punto. Gli va riconosciuto senza girarci troppo attorno».
Tania e Shi Tingmao se la ridono mentre guardano He Zi ricevere la proposta di matrimonio in mondovisione.
Mi sono sempre chiesto come possa essere, vissuta da dentro, lavorare duramente per partecipare a competizioni in cui sai già che primo arriverà qualcun altro. «Devo dire che io l’ho sempre vissuta abbastanza serenamente questa cosa. Tanto è sempre stato così». L’obiettivo rischia però di non essere la medaglia più preziosa, ma la prima medaglia lasciata libera dalle cinesi. «Vero. Credimi: per me arrivare dopo di loro valeva davvero come un oro. Ed è così per tutte. Non credere che considerare un bronzo come un oro sia qualcosa che rende la vita facile, anzi: sul podio rimane libero un gradino solo».
Il primo dei tre atti
Nascosta dentro la definizione astrusa di “Struttura restaurativa in tre atti” c’è la concezione che da sempre le culture occidentali hanno di storia. Il primo a canonizzarla era stato Aristotele. L’idea è che una trama per compiersi abbia bisogno di tre atti. Il primo a disegnare il contesto, il secondo a disseminare imprevisti che innescano l’azione, il terzo a risolvere tutto quanto in un finale. Barzellette, fatti di cronaca, film, episodi di vita quotidiana, tutto quanto raccontiamo e ci viene raccontato, è composto di tre atti. Lo stesso vale per la carriera di Tania.
Il suo primo atto va dal 2000 al 2009, da quando ha capito che sarebbe stata una tuffatrice professionista a quando le cose sono cambiate davvero. «Il 2009 me lo ricordo come l’anno in cui tutto ha iniziato a diventare più complicato. C’erano gli Europei di Torino e i Mondiali di Roma. Due gare importanti in casa portano più tifo sulle tribune ma anche più pressione. Quasi all’improvviso mi sono resa conto che avevo delle attese da non tradire. Prima avevo giocato con l’incoscienza della giovane outsider, da quel momento invece ho iniziato a portarmi sul trampolino molta più adrenalina. Sentivo che per tenerla a bada accumulavo uno stress che non avevo mai dovuto affrontare».
Gradi di adrenalina e stress che da quel momento non sono più tornati sotto il livello di guardia. «Dopo Torino c’è stato il boom improvviso della notorietà. Non ero più solo una tuffatrice, ero anche famosa. All’inizio non è stato semplice gestirlo». I primi confronti con Daniela Cavelli, la psicologa a cui Tania dice di dovere molto, arrivano proprio quell’anno. «Fino ad allora era stata in gran parte una passione, dal 2009 i tuffi sono diventati di più un lavoro, non so se mi spiego. Ho continuato ad amarli, ma la vita mi è cambiata».
Tania Cagnotto in veste di personaggio noto. Qui a Sanremo con Dallapè e Littizzetto per presentare la canzone di Frankie hi-nrg mc.
Le faccio notare che spesso usa carriera e vita come sinonimi. «Beh, di fatto lo sono. Diciamo che fino a poche settimane fa la mia vita e i tuffi sono sempre stati un tutt’uno». Poi torna il suo disarmante realismo, «un tutt’uno che mi sono potuta permettere perché, fortunatamente, non ho avuto gravi problemi nel privato. Ho sempre potuto pensare solo ai miei tuffi».
Dimenticare la sconfitta, costruire un nuovo sé
Nell’autunno del 2012, tra Londra e Rio de Janeiro deve prendere una decisione: restare incastrata nei tentacoli della delusione più feroce, scendere dal trampolino, dire basta? Oppure decidere di indossare ancora il costume della miglior tuffatrice italiana di sempre?
«Sono tornata in piscina dopo Londra e non mi sentivo a mio agio. Il classico pesce fuor d’acqua, hai presente? Non capivo bene dov’ero e cosa stavo facendo. Era come se mi vedessi da fuori e non ci trovassi un gran senso». Ripensando a quella fase, le parole le si spengono. Mi spiega poi che la rinascita non è stata solo coraggio e rivalsa. «C’è stato molto lavoro di molte persone. Ho fatto una serie di sedute con Daniela. Abbiamo parlato molto. Di Londra, di come vivevo gli allenamenti, le gare, la mia vita in generale. Insieme abbiamo capito che dovevo prenderla diversamente. Limitare la pressione che mi mettevo da sola e iniziare a fare anche altre cose. Non pensare solo ai tuffi, insomma».
Al rientro in piscina dopo Londra, senza più nessuna certezza, Tania ha scelto di togliersene un’altra: suo padre. «La novità più importante dopo Londra è stata fare a meno di lui». Una scelta condivisa. «Sapevamo entrambi che per tornare a vincere non avevo bisogno di un allenatore migliore; solo di un altro. Serviva un cambio, una scossa. Avere davanti un nuovo volto poteva restituirmi nuovi stimoli. La collaborazione con Oscar Bertone è nata così». Bertone – la voce tecnica del commento Rai, al fianco di Bizzotto – da atleta era stato allenato proprio da Giorgio. Un uomo di fiducia e una figura familiare. Il segno di una rivoluzione necessaria nella forma più che nella sostanza.
Superati gli scogli delle scelte più insidiose, la navigazione si è fatta sorprendentemente salda. Come mai prima di allora. «Dal 2013 in poi, ho passato gli anni più belli della mia vita”. Lo sentite? È il terzo atto che si apre. «Ho preso quell’anno con una leggerezza che prima di Londra avrei giudicato da irresponsabile. E invece è stata la svolta. Mi sono allenata meno, ho fatto altre cose. Sono andata a Barcellona per i Mondiali in pace con me stessa e sono arrivate due medaglie». Era la controprova che le serviva. Aveva avuto il coraggio di mettere in discussione abitudini e metodi che aveva sempre seguito, e ora quelle scelte di rottura iniziavano a pagare. «Da li ho cambiato proprio testa. Mi sono divertita. Ok, non il divertimento di cui ti dicevo da piccola perché avevo comunque esposizione e pressioni. Ma avevo capito come dargli il giusto peso. Da Barcellona sono state tutte stagioni una migliore dell’altra».
In posa con l’oro mondiale.
Una nuova levità che la rende padrona delle situazioni, anche di quelle che non si sarebbe mai aspettata di vivere. Come arrivare sul tetto del mondo. «Il mondiale nel 2015? Se ci penso mi torna ancora il pianto di gioia. Prima al mondo da 1 metro non me lo sarei mai aspettata». Il credito col destino aperto a Londra inizia a saldarsi. «In un certo senso sì. L’oro di Kazan è stato la vera rivincita che mi sono presa sul 2012. Per come è arrivato, per quanto stavo bene. Come a dire Londra non mi hai sconfitta, sono ancora qui. Piangevo moltissimo. Vedevo la bandiera italiana in mezzo a due bandiere cinesi e non riuscivo a crederci. Te l’ho detto, il risultato più difficile non è l’oro: è riuscire a tuffarsi meglio delle cinesi».
A Rio de Janeiro arriva un’atleta che sente di aver sistemato tutti i conti aperti con la propria carriera. Che arriva alla sua ultima Olimpiade per gustarsela a fondo, tuffo dopo tuffo. Poi si vedrà.
Quasi portabandiera
Prima di Rio 2016 era stato anche il tempo della futilità del dibattito su chi dovesse essere il porta bandiera azzurro alla cerimonia d’apertura dei Giochi. La sola cosa certa era il diktat di Malagò, presidente del CONI, che aveva deciso sarebbe stata un’atleta, con l’apostrofo del femminile. Le sole che per passato e presente avrebbero potuto reggere il tricolore dentro il Maracanà, a detta di tutti, erano Federica Pellegrini e Tania Cagnotto.
Una volta ufficializzato il nome della Pellegrini, Berruto – personaggio mai scontato, dimessosi con coraggio da ct della nazionale di volley e oggi amministratore delegato di Scuola Holden – dice che avrebbe preferito Tania. Sia perché i tuffi sono uno sport di grande umiltà e sacrificio, sia per la storia personale di questa ragazza. Cosa ci avrà visto Berruto dentro quella “storia personale”? «E chi lo sa. Forse semplicemente sa quanto può essere dura da digerire la sconfitta per un soffio e stava pensando a cosa mi era successo a Londra».
A Rio 2016, portabandiera a modo suo: sugli spalti dell’arena del beach volley a tifare Lupo e Nicolai.
Dietro al tifo popolare che la voleva come portabandiera c’era tutto l’affetto che il grande pubblico le ha sempre riservato. «Quello mi ha sempre fatto un piacere enorme. Enorme davvero. Vado molto fiera dell’amore della gente, dell’averla vista emozionarsi per me. Probabilmente è successo perché sono un tipo molto comune. Potevo essere la figlia o la sorella di chiunque. Quelli che invece fanno i fenomeni si allontanano dalle persone, e alla lunga stanno antipatici. La ragione forse sta lì».