Zaha Hadid è stata un’architetto. Se n’è andata lo scorso marzo dopo essere stata definita decostruttivista, visionaria, genio e molte altre cose. A torto, mai scenografa. Come se si potesse ignorare che il suo meraviglioso London Aquatics Center, progettato per le Olimpiadi di Londra 2012, è stato l’ambientazione della scena più drammatica della storia di Tania. La scena in cui per lei sembra tutto perduto.
La tremenda finale del trampolino 3 metri a Londra 2012, ha due foto simbolo. Nella prima Tania è a bordo vasca, accovacciata sul pavimento come una bambina trascinata via dallo scaffale dei giocattoli. Guarda il tabellone con la classifica finale. Nella terza riga c’è scritto Sanchez Soto, Cagnotto nella quarta. Le separano solo 20 centesimi di punto – 362.40 e 362.20 – eppure sono due pianeti lontani. Nella seconda foto dà già le spalle al tabellone, l’asciugamano calato sulla testa e la voglia di scappare via. «Quel giorno ho pensato di smettere».
Aveva 27 anni, non pochi per una tuffatrice, ed era arrivata quarta anche pochi giorni prima, nel sincro assieme a Francesca Dallapè. I primi due podi olimpici della sua vita erano stati ad un passo. E invece no. Tornava a casa a mani vuote. «Mi sembrava di essere in un film, hai presente? Qualcosa di non reale». Oltre alle foto, nella letteratura di quella tragedia sportiva ci sono anche le interviste televisive. «Mi facevano le domande, mi chiedevano di spiegare cos’era successo. Ma io non lo sapevo. Non trovavo proprio le parole. Avevo solo voglia di andare a piangere».
La bassa qualità del video non scalfisce lo sconforto di Tania, nemmeno a distanza di anni.
La crudeltà di Londra ha rovesciato un’epica fortissima su tutta la parabola di Tania. Ma avrebbe anche potuto spezzarla. «In quel momento non riuscivo a programmare il giorno dopo, figuriamoci un impegno da lì a 4 anni. Non avevo nessuna voglia di pensare a Rio».
La traversata transcontinentale da Olimpiade 2012 a Olimpiade 2016, è il classico argomento da bilanci di fine carriera. Come quelli che escono dalle parole che scambio con Tania a novembre, quando è ormai un’ex atleta. Ci sentiamo nel periodo in cui lavora a Dance Dance Dance, un programma per Sky in cui danza assieme ad altri personaggi noti. Le nostre conversazioni cadono tra una seduta di trucco e una di prove. Mi dice che le è sempre piaciuto ballare e che si sta divertendo parecchio, ma non le dispiace prendersi qualche pausa a parlare della cosa che conosce meglio, i tuffi.
Bolzano, Giorgio, Carmen e le montagne
È paradossale che in Italia, la città riferimento di uno sport acquatico sia Bolzano. Le brevi chiacchierate con Tania mi hanno però portato a pensare che, più che d’acqua, i tuffi siano uno sport d’aria. Il gesto del tuffatore è un iceberg al contrario. Solo una piccola parte vive sott’acqua; il grosso si compie fuori, in volo.
Tania nasce proprio lì, in una famiglia che sembra la polaroid di quella terra a metà tra italianità e germanitudine, al centro dell’arte dei tuffi. Il padre Giorgio Cagnotto e la madre Carmen Casteiner, sono lui italiano – emigrato da Torino – e lei altoatesina – di madrelingua tedesca. Hanno un passato da tuffatori e una lunga carriera da allenatori. Un ritratto-cliché stropicciato da un retroscena. «Lo sai vero che i miei non avrebbero voluto farmi fare i tuffi?».
«Mi hanno portata a tennis, danza, sci e un altro paio di cose». Forse volevano risparmiarle il peso del cognome? «Non credo. Quello non mi ha mai pesato. Piuttosto sapevano fin troppo bene che sarebbe stata una strada dura. Si ricordavano dei sacrifici che i tuffi gli avevano imposto. Ci sta che un genitore provi a proteggerti dalle difficoltà che ha vissuto lui, no?». A questo punto la carriera costruita al fianco del padre allenatore diventa poetica del paradosso. «Paradosso fino a un certo punto. Avevo due genitori allenatori: quando hanno capito che mi piaceva solo buttarmi in acqua la cosa più naturale era che fossero loro ad allenarmi. All’inizio con mia mamma, il resto della carriera con mio papà».
Ritratto di famiglia dal cuore degli anni 90.
Tania usa spesso l’aggettivo naturale quando mi spiega gli snodi della sua storia. Una commistione di sano fatalismo e senso pratico. «Fin dall’inizio è stato un percorso molto naturale». «Sai che anche pensandoci, non ricordo esattamente quando ha iniziato a diventare una cosa seria? Ricordo che ad un certo punto è nato il sogno Sidney 2000. Sapevo che avrei avuto 15 anni e che quindi sarei stata l’atleta più giovane della spedizione italiana. Forse lavorare per riuscire ad andare in Australia è stata la prima vera svolta».
La stessa naturalezza le ha fatto prendere due decisioni non banali. La prima, affrontare un rapporto atleta-allenatore accettando di mettere in gioco anche quello padre-figlia. «Il rovescio della medaglia è che poi la sua sofferenza la senti anche tua, a differenza di quel che capita con un allenatore semplicemente collega. A Londra vedere anche la faccia di mio padre è stato un secondo colpo al cuore. Una doppia sofferenza». L’altra decisione non banale è stata amputarsi per sempre la gioia infantile di saltare dentro l’acqua. «Sì, tuffandoti per professione il piacere di tuffarti per tuffarti lo perdi. Arrivi al punto di avere il rifiuto di buttarti in acqua al di fuori di gare e allenamenti. Per farti capire, in vacanza io non mi tuffo proprio».
Mi interessa capire com’è stato essere un simbolo dello sport italiano a Bolzano. Una città che fino agli anni 80 ha respirato forti tensioni culturali e separatiste, con quartieri, scuole, negozi, locali per gli italiani e altri per i tedeschi. «Io mi sono sempre sentita un’italiana con l’enorme privilegio di essere bilingue. Per fortuna la mia generazione non ha vissuto più di tanto quel clima». Non pensa di essere stata il simbolo solo di una delle due anime della città. «Credo che la mia storia, se un minimo effetto l’ha avuto, abbia unito e non diviso la gente di Bolzano. Se non altro, lo spero».
L’infinita impossibile ricerca della perfezione
Quando descrive il piacere di tuffarsi Tania non dà grosso peso allo spirito ludico che dovrebbe essere alla base della maggior parte degli sport. «Sì, da piccola mi divertivo, ma non è il divertimento di giocare, che so, a tennis. Voglio dire, se decidi di fare tuffi solo per divertirti, prima o poi li abbandoni. Più prima che poi». Per lei il piacere arriva dal lavoro capillare sul proprio corpo, sui propri errori, su di sé. Dall’inseguimento del tuffo perfetto.
«Una volta l’ho fatto il tuffo perfetto. A Pechino, nel 2008. Ho preso 10. L’unico 10 di tutta la finale, in casa delle cinesi. Una sensazione incredibile, di qualcosa che si colma. Può suonare strano che ci si ricordi di un tuffo da 10 in una gara che poi non si è vinta. Ma un tuffo da 10 è un obiettivo per ogni tuffatore».
I tuffi sono una questione più estetica che agonistica. Ti chiedono di compiere un gesto il più vicino possibile alla perfezione. Come la ginnastica artistica o il dressage. Con la differenza però che il ginnasta e il cavaliere hanno un attrezzo e un campo su cui muoversi, mentre il tuffatore non ha nulla: guarda l’aria senza nemmeno vedere l’acqua. L’unico riferimento che ha è il ricordo del tuffo che sta per fare. Esiste un’espressione più fondamentalista del misurarsi-con-sé-stessi?
«Che poi naturalmente la tua conformazione da un lato, il tuo talento dall’altro, ti portano ad avvicinarti alla perfezione con un tipo di tuffo e ad allontanartene con un altro. Io ho sempre amato il doppio e mezzo rovesciato. Mi piaceva tenerlo per ultimo e spesso ho rovesciato la classifica con quel tuffo. Allo stesso modo soffrivo da morire il doppio e mezzo ritornato. Non c’è allenamento che tenga: siamo costruiti per fare meglio alcuni tuffi e peggio altri».
Il primato dell’estetica su tutto il resto è causa e insieme effetto di punteggi sempre e comunque soggettivi. Come se un arbitro, senza tener conto dei gol segnati, a fine partita giudicasse la prova delle due squadre con un voto. «Ogni giudice attribuisce sfumature di voto differenti, è inevitabile. Poi però a fine gara tutte quelle sfumature pesano». Un fattore non banale per un atleta. Ti alleni, gestisci lo stress, fai la tua gara, eppure non c’è un piano davvero oggettivo su cui misurarti con l’avversario. «Lo devi mettere in conto. Può capitare che un giudice ti dia meno di quel che meriti. A me è successo proprio a Londra, nel sincronizzato con Francesca. Una sensazione di impotenza. Preferisco mille volte sbagliare il tuffo piuttosto che perdere per un giudizio sbagliato».
Lo sconforto di Cagnotto e Dallapè dopo il quarto posto a Londra 2012.
Mi racconta che l’episodio di Londra era stato talmente clamoroso che avevano deciso di non arrendersi. «Volevamo dimostrare che avevano sbagliato. Per anni la Federazione si è battuta. Segnalava tutte le situazioni troppo generose a vantaggio dei canadesi». Canadesi come Abel e Heymans, la coppia che si era presa il bronzo londinese che sarebbe stato di Tania e Francesca. «Ci sono state anche delle riunioni a Losanna, tra le federazioni e la FINA. Non so cosa si siano detti ma dal 2013 le cose sono piano piano migliorate. C’è stata più giustizia».
Tania from Houston University, Texas
Young diver who brings a wealth of international experience to the Cougar diving corps. Esordisce così la pagina ancora online del profilo di Tania come atleta di Houston Cougars, la galassia delle squadre universitarie di Houston University.
Nel 2005 Tania ha 20 anni e della lunga tradizione sportiva del College texano – sono passati dai Cougars (i puma) ex atleti-studenti divenuti poi icone dello sport USA, tra cui Hakeem Olajuwon e Carl Lewis – le interessa fino ad un certo punto. «Avevo scelto gli Stati Uniti per migliorare il mio inglese e avevo scelto Houston perché lì c’era Julia Pakhalina». Nel preparare l’intervista ho letto da più parti dell’ammirazione di Tania per la tuffatrice russa. «Era stata l’unica a battere le cinesi e si tuffava con un’eleganza magnetica. L’ho sempre tenuta come modello. Avevamo in comune anche il fatto di essere allenate entrambe dai nostri papà. A Houston mi sarei potuta allenare ogni giorno assieme a lei, uno stimolo enorme».
Lo stemma di Houston Cougars.
Quando Tania mi spiega che lei e Pakhalina ogni giorno, dalle 6 alle 9 e dalle 14.30 alle 17, venivano allenate dalla stessa allenatrice, provavano gli stessi esercizi, condividevano segreti, ho pensato al pericolo di avvantaggiare l’avversaria. «Nei tuffi non esiste questa cosa. Non ci sono tattiche da non svelare o rivelazioni tecniche che possono farti diventare all’improvviso un’altra tuffatrice. Tra noi non c’è mai stata rivalità. Anzi mi ha aiutata moltissimo, sia in piscina sia ad orientarmi all’università. Si è creato un bellissimo rapporto. Per dire, dopo Londra l’sms di Julia è stato uno dei più importanti che mi siano arrivati. Era quasi più a pezzi lei di me».
Una mattina di fine agosto, durante una lezione del suo corso di Scienze Alimentari, gli altoparlanti sparano per le aule e i corridoi del college, l’ordine di evacuare. Stava arrivando Katrina, era più sicuro lasciare la città. «Sono corsa in stanza, ho fatto le valigie e con le mie inquiline siamo partite per Austin». Dopo l’uragano torna a HU, ma a fine anno accademico la storia di Tania negli Stati Uniti si interrompe definitivamente. «Il sistema dello sport universitario americano si basa su una grande competizione tra gli atenei. Ai Cougars interessava che portassi più punti possibili a loro e al College attraverso le gare. Ma ero arrivata a farne troppe e “tuffisticamente” stavo peggiorando. Non erano molto preoccupati di farmi andare bene a Mondiali o Europei. Quando me ne sono resa conto, sono tornata a casa. Ma è un’esperienza che rifarei».
Gli USA e Houston e i Cougars erano il posto migliore per lavorare al fianco di una stella mondiale dei tuffi. Il migliore per combinare sport professionistico e studio. Il migliore per imparare a perfezionare l’inglese. Allora perché tornare a casa? Perché non erano il posto migliore per preparare l’assalto alle migliori.