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Tuffarsi
02 feb 2017
02 feb 2017
Intervista a Tania Cagnotto, migliore tuffatrice al mondo da 1 metro. A quattro mesi dal ritiro, Tania racconta Tania.
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Zaha Hadid è stata un'architetto. Se n'è andata lo scorso marzo dopo essere stata definita decostruttivista, visionaria, genio e molte altre cose. A torto, mai scenografa. Come se si potesse ignorare che il suo meraviglioso London Aquatics Center, progettato per le Olimpiadi di Londra 2012, è stato l'ambientazione della scena più drammatica della storia di Tania. La scena in cui per lei sembra tutto perduto.

La tremenda finale del trampolino 3 metri a Londra 2012, ha due foto simbolo. Nella prima Tania è a bordo vasca, accovacciata sul pavimento come una bambina trascinata via dallo scaffale dei giocattoli. Guarda il tabellone con la classifica finale. Nella terza riga c'è scritto Sanchez Soto, Cagnotto nella quarta. Le separano solo 20 centesimi di punto - 362.40 e 362.20 - eppure sono due pianeti lontani. Nella seconda foto dà già le spalle al tabellone, l'asciugamano calato sulla testa e la voglia di scappare via. «Quel giorno ho pensato di smettere».

Aveva 27 anni, non pochi per una tuffatrice, ed era arrivata quarta anche pochi giorni prima, nel sincro assieme a Francesca Dallapè. I primi due podi olimpici della sua vita erano stati ad un passo. E invece no. Tornava a casa a mani vuote. «Mi sembrava di essere in un film, hai presente? Qualcosa di non reale». Oltre alle foto, nella letteratura di quella tragedia sportiva ci sono anche le interviste televisive. «Mi facevano le domande, mi chiedevano di spiegare cos'era successo. Ma io non lo sapevo. Non trovavo proprio le parole. Avevo solo voglia di andare a piangere».

La bassa qualità del video non scalfisce lo sconforto di Tania, nemmeno a distanza di anni.

La crudeltà di Londra ha rovesciato un'epica fortissima su tutta la parabola di Tania. Ma avrebbe anche potuto spezzarla. «In quel momento non riuscivo a programmare il giorno dopo, figuriamoci un impegno da lì a 4 anni. Non avevo nessuna voglia di pensare a Rio».

La traversata transcontinentale da Olimpiade 2012 a Olimpiade 2016, è il classico argomento da bilanci di fine carriera. Come quelli che escono dalle parole che scambio con Tania a novembre, quando è ormai un'ex atleta. Ci sentiamo nel periodo in cui lavora a Dance Dance Dance, un programma per Sky in cui danza assieme ad altri personaggi noti. Le nostre conversazioni cadono tra una seduta di trucco e una di prove. Mi dice che le è sempre piaciuto ballare e che si sta divertendo parecchio, ma non le dispiace prendersi qualche pausa a parlare della cosa che conosce meglio, i tuffi.

Bolzano, Giorgio, Carmen e le montagne

È paradossale che in Italia, la città riferimento di uno sport acquatico sia Bolzano. Le brevi chiacchierate con Tania mi hanno però portato a pensare che, più che d'acqua, i tuffi siano uno sport d'aria. Il gesto del tuffatore è un iceberg al contrario. Solo una piccola parte vive sott'acqua; il grosso si compie fuori, in volo.

Tania nasce proprio lì, in una famiglia che sembra la polaroid di quella terra a metà tra italianità e germanitudine, al centro dell'arte dei tuffi. Il padre Giorgio Cagnotto e la madre Carmen Casteiner, sono lui italiano - emigrato da Torino - e lei altoatesina - di madrelingua tedesca. Hanno un passato da tuffatori e una lunga carriera da allenatori. Un ritratto-cliché stropicciato da un retroscena. «Lo sai vero che i miei non avrebbero voluto farmi fare i tuffi?».

«Mi hanno portata a tennis, danza, sci e un altro paio di cose». Forse volevano risparmiarle il peso del cognome? «Non credo. Quello non mi ha mai pesato. Piuttosto sapevano fin troppo bene che sarebbe stata una strada dura. Si ricordavano dei sacrifici che i tuffi gli avevano imposto. Ci sta che un genitore provi a proteggerti dalle difficoltà che ha vissuto lui, no?». A questo punto la carriera costruita al fianco del padre allenatore diventa poetica del paradosso. «Paradosso fino a un certo punto. Avevo due genitori allenatori: quando hanno capito che mi piaceva solo buttarmi in acqua la cosa più naturale era che fossero loro ad allenarmi. All'inizio con mia mamma, il resto della carriera con mio papà».

Ritratto di famiglia dal cuore degli anni 90.

Tania usa spesso l'aggettivo naturale quando mi spiega gli snodi della sua storia. Una commistione di sano fatalismo e senso pratico. «Fin dall'inizio è stato un percorso molto naturale». «Sai che anche pensandoci, non ricordo esattamente quando ha iniziato a diventare una cosa seria? Ricordo che ad un certo punto è nato il sogno Sidney 2000. Sapevo che avrei avuto 15 anni e che quindi sarei stata l'atleta più giovane della spedizione italiana. Forse lavorare per riuscire ad andare in Australia è stata la prima vera svolta».

La stessa naturalezza le ha fatto prendere due decisioni non banali. La prima, affrontare un rapporto atleta-allenatore accettando di mettere in gioco anche quello padre-figlia. «Il rovescio della medaglia è che poi la sua sofferenza la senti anche tua, a differenza di quel che capita con un allenatore semplicemente collega. A Londra vedere anche la faccia di mio padre è stato un secondo colpo al cuore. Una doppia sofferenza». L'altra decisione non banale è stata amputarsi per sempre la gioia infantile di saltare dentro l'acqua. «Sì, tuffandoti per professione il piacere di tuffarti per tuffarti lo perdi. Arrivi al punto di avere il rifiuto di buttarti in acqua al di fuori di gare e allenamenti. Per farti capire, in vacanza io non mi tuffo proprio».

Mi interessa capire com'è stato essere un simbolo dello sport italiano a Bolzano. Una città che fino agli anni 80 ha respirato forti tensioni culturali e separatiste, con quartieri, scuole, negozi, locali per gli italiani e altri per i tedeschi. «Io mi sono sempre sentita un'italiana con l'enorme privilegio di essere bilingue. Per fortuna la mia generazione non ha vissuto più di tanto quel clima». Non pensa di essere stata il simbolo solo di una delle due anime della città. «Credo che la mia storia, se un minimo effetto l'ha avuto, abbia unito e non diviso la gente di Bolzano. Se non altro, lo spero».

L'infinita impossibile ricerca della perfezione

Quando descrive il piacere di tuffarsi Tania non dà grosso peso allo spirito ludico che dovrebbe essere alla base della maggior parte degli sport. «Sì, da piccola mi divertivo, ma non è il divertimento di giocare, che so, a tennis. Voglio dire, se decidi di fare tuffi solo per divertirti, prima o poi li abbandoni. Più prima che poi». Per lei il piacere arriva dal lavoro capillare sul proprio corpo, sui propri errori, su di sé. Dall'inseguimento del tuffo perfetto.

«Una volta l'ho fatto il tuffo perfetto. A Pechino, nel 2008. Ho preso 10. L'unico 10 di tutta la finale, in casa delle cinesi. Una sensazione incredibile, di qualcosa che si colma. Può suonare strano che ci si ricordi di un tuffo da 10 in una gara che poi non si è vinta. Ma un tuffo da 10 è un obiettivo per ogni tuffatore».

I tuffi sono una questione più estetica che agonistica. Ti chiedono di compiere un gesto il più vicino possibile alla perfezione. Come la ginnastica artistica o il dressage. Con la differenza però che il ginnasta e il cavaliere hanno un attrezzo e un campo su cui muoversi, mentre il tuffatore non ha nulla: guarda l'aria senza nemmeno vedere l'acqua. L'unico riferimento che ha è il ricordo del tuffo che sta per fare. Esiste un'espressione più fondamentalista del misurarsi-con-sé-stessi?

«Che poi naturalmente la tua conformazione da un lato, il tuo talento dall'altro, ti portano ad avvicinarti alla perfezione con un tipo di tuffo e ad allontanartene con un altro. Io ho sempre amato il doppio e mezzo rovesciato. Mi piaceva tenerlo per ultimo e spesso ho rovesciato la classifica con quel tuffo. Allo stesso modo soffrivo da morire il doppio e mezzo ritornato. Non c'è allenamento che tenga: siamo costruiti per fare meglio alcuni tuffi e peggio altri».

Il primato dell'estetica su tutto il resto è causa e insieme effetto di punteggi sempre e comunque soggettivi. Come se un arbitro, senza tener conto dei gol segnati, a fine partita giudicasse la prova delle due squadre con un voto. «Ogni giudice attribuisce sfumature di voto differenti, è inevitabile. Poi però a fine gara tutte quelle sfumature pesano». Un fattore non banale per un atleta. Ti alleni, gestisci lo stress, fai la tua gara, eppure non c'è un piano davvero oggettivo su cui misurarti con l'avversario. «Lo devi mettere in conto. Può capitare che un giudice ti dia meno di quel che meriti. A me è successo proprio a Londra, nel sincronizzato con Francesca. Una sensazione di impotenza. Preferisco mille volte sbagliare il tuffo piuttosto che perdere per un giudizio sbagliato».

Lo sconforto di Cagnotto e Dallapè dopo il quarto posto a Londra 2012.

Mi racconta che l'episodio di Londra era stato talmente clamoroso che avevano deciso di non arrendersi. «Volevamo dimostrare che avevano sbagliato. Per anni la Federazione si è battuta. Segnalava tutte le situazioni troppo generose a vantaggio dei canadesi». Canadesi come Abel e Heymans, la coppia che si era presa il bronzo londinese che sarebbe stato di Tania e Francesca. «Ci sono state anche delle riunioni a Losanna, tra le federazioni e la FINA. Non so cosa si siano detti ma dal 2013 le cose sono piano piano migliorate. C'è stata più giustizia».

Tania from Houston University, Texas

Young diver who brings a wealth of international experience to the Cougar diving corps. Esordisce così la pagina ancora online del profilo di Tania come atleta di Houston Cougars, la galassia delle squadre universitarie di Houston University.

Nel 2005 Tania ha 20 anni e della lunga tradizione sportiva del College texano - sono passati dai Cougars (i puma) ex atleti-studenti divenuti poi icone dello sport USA, tra cui Hakeem Olajuwon e Carl Lewis - le interessa fino ad un certo punto. «Avevo scelto gli Stati Uniti per migliorare il mio inglese e avevo scelto Houston perché lì c'era Julia Pakhalina». Nel preparare l'intervista ho letto da più parti dell'ammirazione di Tania per la tuffatrice russa. «Era stata l'unica a battere le cinesi e si tuffava con un'eleganza magnetica. L'ho sempre tenuta come modello. Avevamo in comune anche il fatto di essere allenate entrambe dai nostri papà. A Houston mi sarei potuta allenare ogni giorno assieme a lei, uno stimolo enorme».

Lo stemma di Houston Cougars.

Quando Tania mi spiega che lei e Pakhalina ogni giorno, dalle 6 alle 9 e dalle 14.30 alle 17, venivano allenate dalla stessa allenatrice, provavano gli stessi esercizi, condividevano segreti, ho pensato al pericolo di avvantaggiare l'avversaria. «Nei tuffi non esiste questa cosa. Non ci sono tattiche da non svelare o rivelazioni tecniche che possono farti diventare all'improvviso un'altra tuffatrice. Tra noi non c'è mai stata rivalità. Anzi mi ha aiutata moltissimo, sia in piscina sia ad orientarmi all'università. Si è creato un bellissimo rapporto. Per dire, dopo Londra l'sms di Julia è stato uno dei più importanti che mi siano arrivati. Era quasi più a pezzi lei di me».

Una mattina di fine agosto, durante una lezione del suo corso di Scienze Alimentari, gli altoparlanti sparano per le aule e i corridoi del college, l'ordine di evacuare. Stava arrivando Katrina, era più sicuro lasciare la città. «Sono corsa in stanza, ho fatto le valigie e con le mie inquiline siamo partite per Austin». Dopo l'uragano torna a HU, ma a fine anno accademico la storia di Tania negli Stati Uniti si interrompe definitivamente. «Il sistema dello sport universitario americano si basa su una grande competizione tra gli atenei. Ai Cougars interessava che portassi più punti possibili a loro e al College attraverso le gare. Ma ero arrivata a farne troppe e “tuffisticamente” stavo peggiorando. Non erano molto preoccupati di farmi andare bene a Mondiali o Europei. Quando me ne sono resa conto, sono tornata a casa. Ma è un'esperienza che rifarei».

Gli USA e Houston e i Cougars erano il posto migliore per lavorare al fianco di una stella mondiale dei tuffi. Il migliore per combinare sport professionistico e studio. Il migliore per imparare a perfezionare l'inglese. Allora perché tornare a casa? Perché non erano il posto migliore per preparare l'assalto alle migliori.

La Cina non è vicina

Tra le migliaia di limiti di cui è fatto un luogo comune, c'è soprattutto la superficialità. Propongo a Tania di analizzare la dittatura cinese nei tuffi femminili con un paio delle frasi fatte che vengono usate più spesso. Una legata alla popolosità - in un miliardo e sei di persone vuoi che 2 brave a tuffarsi non le trovino? - un'altra alla severità del metodo - eh ma là non scherzano, se non sei brava e non vinci sono guai. Tania sospira come fanno quelli che non capiscono bene da che parte cominciare per confutare il pressapochismo. «Innanzitutto in Cina i tuffi sono uno sport nazionale. Iniziano da piccolini e anche prima di avere l'età per andare a scuola si allenano già anche 8 ore al giorno». Il tempo come fattore chiave. «Considera che io ho iniziato a fare 2 allenamenti al giorno, solo dopo la maturità. Hanno un vantaggio di anni che è praticamente impossibile colmare». Il valore aggiunto poi, c'è eccome. «Un po' gli arriva dalla biologia: sono fisicamente leggeri e minuti, e questo aiuta. Il resto lo fa la maniacalità. Sono le più brave, punto. Gli va riconosciuto senza girarci troppo attorno».

Tania e Shi Tingmao se la ridono mentre guardano He Zi ricevere la proposta di matrimonio in mondovisione.

Mi sono sempre chiesto come possa essere, vissuta da dentro, lavorare duramente per partecipare a competizioni in cui sai già che primo arriverà qualcun altro. «Devo dire che io l'ho sempre vissuta abbastanza serenamente questa cosa. Tanto è sempre stato così». L'obiettivo rischia però di non essere la medaglia più preziosa, ma la prima medaglia lasciata libera dalle cinesi. «Vero. Credimi: per me arrivare dopo di loro valeva davvero come un oro. Ed è così per tutte. Non credere che considerare un bronzo come un oro sia qualcosa che rende la vita facile, anzi: sul podio rimane libero un gradino solo».

Il primo dei tre atti

Nascosta dentro la definizione astrusa di “Struttura restaurativa in tre atti” c'è la concezione che da sempre le culture occidentali hanno di storia. Il primo a canonizzarla era stato Aristotele. L'idea è che una trama per compiersi abbia bisogno di tre atti. Il primo a disegnare il contesto, il secondo a disseminare imprevisti che innescano l'azione, il terzo a risolvere tutto quanto in un finale. Barzellette, fatti di cronaca, film, episodi di vita quotidiana, tutto quanto raccontiamo e ci viene raccontato, è composto di tre atti. Lo stesso vale per la carriera di Tania.

Il suo primo atto va dal 2000 al 2009, da quando ha capito che sarebbe stata una tuffatrice professionista a quando le cose sono cambiate davvero. «Il 2009 me lo ricordo come l'anno in cui tutto ha iniziato a diventare più complicato. C'erano gli Europei di Torino e i Mondiali di Roma. Due gare importanti in casa portano più tifo sulle tribune ma anche più pressione. Quasi all'improvviso mi sono resa conto che avevo delle attese da non tradire. Prima avevo giocato con l'incoscienza della giovane outsider, da quel momento invece ho iniziato a portarmi sul trampolino molta più adrenalina. Sentivo che per tenerla a bada accumulavo uno stress che non avevo mai dovuto affrontare».

Gradi di adrenalina e stress che da quel momento non sono più tornati sotto il livello di guardia. «Dopo Torino c'è stato il boom improvviso della notorietà. Non ero più solo una tuffatrice, ero anche famosa. All'inizio non è stato semplice gestirlo». I primi confronti con Daniela Cavelli, la psicologa a cui Tania dice di dovere molto, arrivano proprio quell'anno. «Fino ad allora era stata in gran parte una passione, dal 2009 i tuffi sono diventati di più un lavoro, non so se mi spiego. Ho continuato ad amarli, ma la vita mi è cambiata».

Tania Cagnotto in veste di personaggio noto. Qui a Sanremo con Dallapè e Littizzetto per presentare la canzone di Frankie hi-nrg mc.

Le faccio notare che spesso usa carriera e vita come sinonimi. «Beh, di fatto lo sono. Diciamo che fino a poche settimane fa la mia vita e i tuffi sono sempre stati un tutt'uno». Poi torna il suo disarmante realismo, «un tutt'uno che mi sono potuta permettere perché, fortunatamente, non ho avuto gravi problemi nel privato. Ho sempre potuto pensare solo ai miei tuffi».

Dimenticare la sconfitta, costruire un nuovo sé

Nell'autunno del 2012, tra Londra e Rio de Janeiro deve prendere una decisione: restare incastrata nei tentacoli della delusione più feroce, scendere dal trampolino, dire basta? Oppure decidere di indossare ancora il costume della miglior tuffatrice italiana di sempre?

«Sono tornata in piscina dopo Londra e non mi sentivo a mio agio. Il classico pesce fuor d'acqua, hai presente? Non capivo bene dov'ero e cosa stavo facendo. Era come se mi vedessi da fuori e non ci trovassi un gran senso». Ripensando a quella fase, le parole le si spengono. Mi spiega poi che la rinascita non è stata solo coraggio e rivalsa. «C'è stato molto lavoro di molte persone. Ho fatto una serie di sedute con Daniela. Abbiamo parlato molto. Di Londra, di come vivevo gli allenamenti, le gare, la mia vita in generale. Insieme abbiamo capito che dovevo prenderla diversamente. Limitare la pressione che mi mettevo da sola e iniziare a fare anche altre cose. Non pensare solo ai tuffi, insomma».

Al rientro in piscina dopo Londra, senza più nessuna certezza, Tania ha scelto di togliersene un'altra: suo padre. «La novità più importante dopo Londra è stata fare a meno di lui». Una scelta condivisa. «Sapevamo entrambi che per tornare a vincere non avevo bisogno di un allenatore migliore; solo di un altro. Serviva un cambio, una scossa. Avere davanti un nuovo volto poteva restituirmi nuovi stimoli. La collaborazione con Oscar Bertone è nata così». Bertone - la voce tecnica del commento Rai, al fianco di Bizzotto - da atleta era stato allenato proprio da Giorgio. Un uomo di fiducia e una figura familiare. Il segno di una rivoluzione necessaria nella forma più che nella sostanza.

Superati gli scogli delle scelte più insidiose, la navigazione si è fatta sorprendentemente salda. Come mai prima di allora. «Dal 2013 in poi, ho passato gli anni più belli della mia vita”. Lo sentite? È il terzo atto che si apre. «Ho preso quell'anno con una leggerezza che prima di Londra avrei giudicato da irresponsabile. E invece è stata la svolta. Mi sono allenata meno, ho fatto altre cose. Sono andata a Barcellona per i Mondiali in pace con me stessa e sono arrivate due medaglie». Era la controprova che le serviva. Aveva avuto il coraggio di mettere in discussione abitudini e metodi che aveva sempre seguito, e ora quelle scelte di rottura iniziavano a pagare. «Da li ho cambiato proprio testa. Mi sono divertita. Ok, non il divertimento di cui ti dicevo da piccola perché avevo comunque esposizione e pressioni. Ma avevo capito come dargli il giusto peso. Da Barcellona sono state tutte stagioni una migliore dell'altra».

In posa con l'oro mondiale.

Una nuova levità che la rende padrona delle situazioni, anche di quelle che non si sarebbe mai aspettata di vivere. Come arrivare sul tetto del mondo. «Il mondiale nel 2015? Se ci penso mi torna ancora il pianto di gioia. Prima al mondo da 1 metro non me lo sarei mai aspettata». Il credito col destino aperto a Londra inizia a saldarsi. «In un certo senso sì. L'oro di Kazan è stato la vera rivincita che mi sono presa sul 2012. Per come è arrivato, per quanto stavo bene. Come a dire Londra non mi hai sconfitta, sono ancora qui. Piangevo moltissimo. Vedevo la bandiera italiana in mezzo a due bandiere cinesi e non riuscivo a crederci. Te l'ho detto, il risultato più difficile non è l'oro: è riuscire a tuffarsi meglio delle cinesi».

A Rio de Janeiro arriva un'atleta che sente di aver sistemato tutti i conti aperti con la propria carriera. Che arriva alla sua ultima Olimpiade per gustarsela a fondo, tuffo dopo tuffo. Poi si vedrà.

Quasi portabandiera

Prima di Rio 2016 era stato anche il tempo della futilità del dibattito su chi dovesse essere il porta bandiera azzurro alla cerimonia d'apertura dei Giochi. La sola cosa certa era il diktat di Malagò, presidente del CONI, che aveva deciso sarebbe stata un'atleta, con l'apostrofo del femminile. Le sole che per passato e presente avrebbero potuto reggere il tricolore dentro il Maracanà, a detta di tutti, erano Federica Pellegrini e Tania Cagnotto.

Una volta ufficializzato il nome della Pellegrini, Berruto - personaggio mai scontato, dimessosi con coraggio da ct della nazionale di volley e oggi amministratore delegato di Scuola Holden - dice che avrebbe preferito Tania. Sia perché i tuffi sono uno sport di grande umiltà e sacrificio, sia per la storia personale di questa ragazza. Cosa ci avrà visto Berruto dentro quella “storia personale”? «E chi lo sa. Forse semplicemente sa quanto può essere dura da digerire la sconfitta per un soffio e stava pensando a cosa mi era successo a Londra».

A Rio 2016, portabandiera a modo suo: sugli spalti dell'arena del beach volley a tifare Lupo e Nicolai.

Dietro al tifo popolare che la voleva come portabandiera c'era tutto l'affetto che il grande pubblico le ha sempre riservato. «Quello mi ha sempre fatto un piacere enorme. Enorme davvero. Vado molto fiera dell'amore della gente, dell'averla vista emozionarsi per me. Probabilmente è successo perché sono un tipo molto comune. Potevo essere la figlia o la sorella di chiunque. Quelli che invece fanno i fenomeni si allontanano dalle persone, e alla lunga stanno antipatici. La ragione forse sta lì».

Finalmente Tania

Tania ha ancora la playlist che si era portata a Rio, che ascoltava negli spostamenti tra l'albergo e la piscina. Prima delle qualifiche, prima delle semifinali e prima delle finali. Dentro c'è anche Astronomy Domine dei Pink Floyd. Il pezzo in cui a un certo punto Syd Barrett canta A fight between the blue you once knew. A voler essere romantici sembra proprio che parli a Tania del suo finale di carriera. C'è la battaglia, c'è il blu dell'acqua, c'è lo sguardo già rivolto al passato.

Romanticismo o no, alla fine ci è riuscita. All'ultima Olimpiade - e ultima competizione in assoluto - della carriera, Tania ha vinto le sue prime medaglie ai Giochi: un argento nel sincro da 3 metri con Francesca Dallapè e un bronzo nel singolare, sempre dai 3 metri. Gli slogan della “straordinaria impresa”, della “resurrezione dalle ceneri di Londra” eccetera eccetera, sono ormai triti e ritriti. Meglio non aggiungere altro e godersi la premiazione dalla privilegiatissima visuale dell'iPhone di Francesca Dallapè.

Il tifo di Francesca per Tania dice molto del loro rapporto. Prima del sincro Cagnotto-Dallapè, c'erano stati anche Cagnotto-Marconi e Cagnotto-Batki. “Tutte bellissime esperienze fino a quella straordinaria con Francesca. Unica fin da subito. Non è retorica dire che una coppia funziona sul trampolino solo se funziona anche giù dal trampolino. Ci stimiamo tanto e abbiamo sempre avuto la stessa fame”. A fine carriera, a settembre, Francesca è stata testimone di nozze di Tania.

Francesca che riprende e Tania che si avvia verso il podio, provano un identico senso di pace. La corda sempre tesa a cui sono rimaste aggrappate per tutti quei mesi di preparazione ora si è allentata. Niente più sforzo, fatica, pressione. Finalmente sono in cima.

La gara del singolare di Tania l'hanno vissuta insieme, una dalla tribuna e l'altra dal trampolino, con la leggerezza di chi ha già avuto quel che voleva. «Per noi, a Rio, la gara era il sincro. Volevamo riprenderci quello che ci avevano tolto a Londra».

Che il momento chiave di Rio fosse quello, s'intuiva anche da un'intervista a la Repubblica del giorno dopo il successo di coppia. Arrivare a questo argento è stato feroce, scortica, toglie la pelle. So che rimpiangerò lo sport, ma sono a pezzi. Tania non fa nemmeno un cenno alla finale del singolare che avrebbe avuto dopo sei giorni, in compenso la durezza di quelle dichiarazioni aveva fatto parecchio parlare.

Lo sportivo di successo che confessa di aver patito il proprio sport è un'immagine potente. Fa discutere, per certi versi commuovere. Un'idea negli ultimi tempi resa addirittura glamour dallo splendido Open di Moehringer sulla vita di Agassi. Non sembra però il caso di Tania. La donna che mi parla di Rio è molto diversa dall'atleta che ancora a caldo aveva detto quelle cose a Emanuela Audisio. A distanza di qualche mese, l'adrenalina è diventata razionalità e le parole non sono più così crude.

Per quelli che si domandano “dove le tiene un atleta le sue medaglie importanti?”.

«Col senno di poi posso dire che fin dal primo giorno ero serena. Sono arrivata in Brasile spensierata». La tranquillità di chi sa di aver fatto tutto, proprio tutto, quel che poteva fare, al meglio delle sue possibilità. «Buonvecchio, il mio preparatore, ha fatto un lavoro straordinario. Ho avuto uno stato di forma pazzesco per tutto l'anno. Mai stata cosi bene così a lungo. E poi tutto il resto dello staff che mi ha seguita prima di Rio. Nutrizionista, psicologa, fisioterapisti. Non avevo mai avuto una squadra così numerosa e con tante specializzazioni prima».

Rio ricordava quei rilanci avventurosi al tavolo verde, quando per riprendersi da una brutta mano si mettono sul piatto tutte le fiches rimaste: se perdi, perdi tutto; se vinci vale doppio. «No, non era così. È vero, mi mancava solo una medaglia alle Olimpiadi. Ma se per una vita era stata quasi un'ossessione, prima di Rio non lo era più». Merito del risultato straordinario di Kazan e della certezza di aver già dimostrato tutto a sé stessa. «Ero già felice di come era andata tutta la mia carriera. Felice sul serio. Stavo per fare la quinta Olimpiade, la quinta!, e sentivo di essere la miglior Tania che avevo mai visto tuffarsi. A 25 anni, pensare di poter migliorare a 31 mi avrebbe fatto ridere. Invece è stato così. La vittoria più grande era quella».

Le battaglie con sé stessi sorprendono sempre. I tuoi spettri possono affossarti, le tue risorse possono stupirti. Arrivare a Rio era il guanto di sfida che Tania aveva lanciato a Tania. Una prova lunga quattro anni. O forse una vita intera.

D'ora in poi

Pochi possono permettersi il lusso di smettere il giorno dopo aver raggiunto il punto più alto. Pochi ci riescono senza farsi ingolosire dalla prospettiva di altri possibili successi. «Non credere che smettere sia stata una scelta particolarmente coraggiosa. Non sentivo di avere alternative. Era giusto così, era il momento». Quindi ora?

«Avevo sentito di sportivi che, una volta ritirati, non sapevano bene cosa fare nelle giornate libere dagli allenamenti dopo una vita passata a non fare altro che quello. Io sinceramente sono stata più impegnata di prima. Per ora nessun trauma, ma nemmeno il tempo di decidere cosa fare».

A dicembre è arrivato anche il premio donna dell'anno 2016 ai Gazzetta Sports Awards.

Magari un futuro ancora nei tuffi. «Mi piacerebbe molto ma non ho ancora capito bene come posso essere utile. Non voglio prendere decisioni affrettate. Mi prenderò un po' di tempo».

Dopo diversi anni in cui i tuffi italiani sono stati Tania Cagnotto e Tania Cagnotto + Francesca Dallapè, c'è chi dice che non dobbiamo aspettarci di veder ancora sventolare la nostra bandiera sui podi dei prossimi anni. «Non sono d'accordo. Chiaro, va dato tempo ai giovani di crescere e all'ambiente di riassestarsi su nuovi equilibri. Ma le prospettive ci sono. E anche i nomi. Ne dico due: Andrea Chiarabini e Giovanni Tocci. Finché avremo ragazzi come loro dobbiamo essere tutti convinti che i tuffi italiani andranno oltre me e Francesca».

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