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Il Trofeo del Doge ci racconta l'identità di Venezia
07 lug 2022
07 lug 2022
La seconda edizione del torneo di calcio tra le squadre dei sestieri e delle isole di Venezia.
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Visto dall’alto, il campo da calcio di Sant’Alvise sembra uno di quei campi da sogno che si vedono ogni tanto sulle riviste o le pagine Instagram che raccontano l’estetica calcistica. Chiuso su tre lati da delle mura in mattoni a vista e sul quarto da un giardino, si affaccia sul lato nord della laguna di Venezia dove, nonostante le alte reti di protezione, immancabilmente finisce almeno un pallone a partita, spazzato via da difensori ansiosi di prendersi un attimo di respiro. Non avendo le dimensioni necessarie per il calcio a 11 (il campo misura 85×40), qui si gioca in 9 contro 9, senza fuorigioco, in spazi stretti e ritmi spesso molto alti.

Al campo si entra da Calle longa de le Canossiane, le monache «che ancora vi abitano - scopro sul sito del Fai - la cui missione è l'istruzione e la carità delle fanciulle povere ed abbandonate». Le suore sono ancora oggi proprietarie del semi-abbandonato spazio adiacente al terreno di gioco, l’unico su cui si potrebbe costruire una tribuna, se non fosse che la Chiesa si tiene stretta i suoi possedimenti. Il pubblico deve quindi accontentarsi di una piccolissima tribuna alta due file e lunga nemmeno metà campo, o di accalcarsi fuori dalle reti che recintano il campo, aumentando per i calciatori quell’effetto di canicola, di gabbia. Nelle ultime due settimane, dal 15 giugno al primo luglio, si è tenuta qui la seconda edizione del Trofeo del Doge, un torneo di calcio amatoriale che mette di fronte le rappresentative dei sestieri e delle isole di Venezia.

Dopo l’edizione pilota dell’estate 2021, con sei squadre protagoniste, quest’anno il Trofeo del Doge si è allargato fin quasi agli estremi della laguna, includendo le selezioni delle isole Burano e Pellestrina, rispettivamente 3 e 5mila abitanti circa, ma entrambe con una tradizione calcistica di ottimo livello. Oltre a loro, c’erano due squadre del Lido di Venezia (Lido San Nicolò e Lido Metamauco) e quattro del Centro storico: Castello, Cannaregio, Dorsoduro-Giudecca e infine la Santa Alleanza, che riunisce sotto un unico stemma i sestieri più centrali, e quindi meno abitati, di Venezia (San Marco, San Polo e Santa Croce e l'isola di Murano). Alla fine ha vinto il Lido Metamauco, nella finale-derby contro il Lido San Nicolò, che aveva trionfato lo scorso anno: per il momento il torneo ha evidenziato la supremazia del calcio da spiaggia su quello giocato nei campi e nelle calli.

Per essere selezionato da una squadra un giocatore deve aver dimorato nell’ultimo anno nel sestiere per cui vuole giocare, oppure aver vissuto per almeno 15 anni in Laguna. In quest’ultimo caso, il giocatore può proporsi per uno dei sestieri in cui ha dimorato. Pur essendo un luogo conosciuto in tutto il mondo, molto letterario, sede di eventi internazionali come la Biennale d’Arte e d’Architettura o la Mostra del Cinema, nei suoi residenti Venezia mantiene molto la dimensione popolare e rimane una città di campanili, dove sfidarsi a calcio per la supremazia del proprio sestiere è una cosa molto seria.

Le maglie del torneo.

Proprio in questo periodo, sparsi tra le calli, sono apparsi dei cartelli con scritto 49.999, un monito per ricordare che nei prossimi mesi gli abitanti del centro storico scenderanno sotto la soglia psicologica dei 50mila abitanti: erano 150mila settant'anni fa. La progressiva sparizione prima di un'offerta lavorativa che esulasse dal turismo, poi dei servizi e degli alloggi per i residenti, ha svuotato la Venezia insulare. I problemi di un'economia basata solo sul turismo sono venuti a galla prima con l'acqua granda del 2019, poi con la pandemia, ma invertire la rotta è tanto faticoso quanto sconveniente per chi vuole mantenere lo status quo e continuare a far covare la gallina dalle uova d'oro. Nonostante questo, spesso si sottovaluta quanto sia tuttora meraviglioso vivere a Venezia. I ritmi rilassati, la possibilità di muoversi solo a piedi, la bellezza che ti travolge in qualsiasi scorcio cittadino, non solo nelle poche zone battute dal turismo di massa.

«Giocare per il mio sestiere è un’emozione», mi dice Gabriele Comin, capitano e numero 10 di Cannaregio, che proprio a Sant’Alvise ha mosso i primi passi nel calcio veneziano, giocando per l’Alvisiana tra i 6 e i 12 anni. Erano tempi molto precedenti alla posa dell’erba sintetica, perché Comin ha quasi 39 anni ed è tra i veterani qui al Trofeo del Doge. Tra Serie D, Eccellenza, Promozione e Prima Categoria ha segnato oltre 200 gol in carriera e vinto sei campionati nel veneziano (tra le sue squadre ci sono Favaro, San Donà, Muranese, Union Pro). Ancora oggi, che ha smesso di giocare da qualche anno, ha mantenuto senso del gol, visione di gioco e tecnica in conduzione, affinata sin da quando, da piccolo, giocava per strada. «Abbiamo imparato tanto in campo (inteso come piazza veneziana, ndr): dovevi essere bravo a dribblare e a non cadere, perché se cadevi ti ammazzavi», racconta, e in effetti nonostante i 39 anni e il metro e settanta scarso di altezza, è davvero difficile buttare giù il numero 10 cannaregiotto. «Soeo mi provavo e rovesciate sul cemento, e poi rivavo a casa coea schiena sbusada», lo interrompe Giacomo Cavalli, seduto lì vicino. Classe 1990, Cavalli è il numero 9 di Cannaregio e lo scorso anno proprio al Trofeo del Doge ha sfiorato un eurogol in rovesciata (aveva preso il palo, quella volta). Cavalli e Comin sono, in modi molto diversi, i due leader di Cannaregio, e mentre mi parlano stanno aspettando di giocare la sfida contro Burano (vinceranno 3-0, con un gol di Comin, ma sarà la loro unica vittoria quest'anno: il numero 10 di Cannaregio si consolerà comunque con la vittoria del premio fair-play).

Giocatori di Dorsoduro, foto di Lucrezia Ginocchi.

Al Trofeo del Doge partecipano 128 atleti. Ci sono una coppa in vetro di Murano (il design è un po’ kitsch e riprende il corno ducale, mantiene però un'aura quasi sacra), un’app per seguire live i risultati e votare i migliori in campo, delle divise da gioco molto hipster e colorate, a metà tra una sesta maglia del Napoli e un kit di una Nazionale africana. L’ambizione principale della manifestazione era e rimane quella di dimostrare come un calcio dal basso, popolare, giovanile nella Venezia d’acqua, un ecosistema che invecchia e perde mille residenti all’anno, non solo esista, ma sia anche bello.

Nella stagione del suo ritorno in Serie A dopo vent’anni, il Venezia Fc è stato spesso criticato dai veneziani non tanto per la seconda parte di stagione molto negativa, quanto soprattutto per non essere riuscito a mostrarsi molto connesso con il territorio e attento ai sentimenti del tifo locale. Il localismo un po’ nostalgico dei tifosi e l’internazionalismo di un club attentissimo agli aspetti comunicativi e al brand si sono radicalizzati in parallelo con il calo della squadra, fino a sfociare in opposte estremizzazioni. Da un lato, i tifosi del Venezia che lanciano cori di insulti contro Alex Menta, il director of analytics, individuato come il massimo responsabile del fallimento del progetto sportivo, dall’altro il club che il giorno dell’aritmetica certezza della retrocessione lancia sui social una nuova linea di costumi da bagno (170 euro il bikini e l’intero, 240 la braghetta). A Venezia e nei veneziani convivono da sempre un po’ a fatica queste due anime, quella conservatrice, ancorata a una età dell’oro un po’ idealizzata, e quella più aperta al cambiamento. Il Trofeo del Doge invece combina tradizione e innovazione, dialetto veneziano e comunicazione social moderna, veterani del calcio locale e giovani talenti, le divise piegate sulle panchine, prima del match, come negli spogliatoi di Serie A e la maglia persa in canale perché «stavo correndo col barchino per arrivare in tempo alla partita» (è successo anche questo).

Sant'Alvise dall'alto, foto di Gaia Cattelan.

Ben prima che All or nothing ci portasse negli spogliatoi di Guardiola e Mourinho, avvicinando un po’ il pubblico allo strano mondo del calcio, in Italia ci eravamo affezionati ai ragazzi della Primavera della Fiorentina grazie alla serie-reality Calciatori - Giovani Speranze, trasmessa tra il 2012 e il 2013 su Mtv. In quella squadra c’erano Federico Bernardeschi, Cedric Gondo, Luca Lezzerini e Alan Empereur, e c’era anche Alberto De Poli, che oggi gioca nel Treviso, in Eccellenza, ma soprattutto al Trofeo del Doge è il capitano e leader tecnico e spirituale del Lido San Nicolò, che in due anni ha raggiunto due volte la finale.

Nonostante dopo le giovanili della Fiorentina non sia arrivata l’occasione per entrare nel calcio dei professionisti, Alberto non ha perso l’entusiasmo, anzi: «Queste partite le sento tanto, non so se sono strano io, ma prima a casa ero un po’ teso», mi racconta dopo la partita vinta 3-0 contro Cannaregio, l’ultima del girone, chiuso a punteggio pieno dal Lido San Nicolò. «Poi, sai, vengo qui e tutti dicono: È il più forte, quindi si aspettano sempre tanto da me, non è facile». Di sicuro lui lo fa sembrare facile, perché va a una velocità, di gambe e di pensiero, spesso impareggiabile per gli avversari. In un calcio in cui è fondamentale leggere il gioco e gli spazi un attimo prima, ed essere rapidi nel fare la giocata, De Poli fa quasi sempre la differenza. «Com’è passare da giocare con Jovetic a giocare con me?», gli chiede, passando, Carlo Rigo, uno dei quattro organizzatori del torneo e centrocampista del Lido San Nicolò. Carletto, come lo chiamano tutti qui, gioca qualche metro indietro rispetto a De Poli, e durante la partita lo si sente spesso chiamare il suo capitano: Albero, Albero, gli grida, con un soprannome che è perfetta metafora del ruolo di Alberto nella squadra della sua isola.

Nella semifinale contro Castello, Alberto aveva un problema a un piede: ha stretto i denti e giocato una decina di minuti nel secondo tempo, senza riuscire a incidere come al solito. I suoi compagni però hanno dimostrato di non essere De Poli dipendenti, come scriverebbero i giornali, e hanno vinto 3-1 una partita tirata e intensa, in cui proprio Rigo ha coronato una prova di incredibile sostanza in mezzo al campo con il suo unico gol del torneo, un bellissimo sinistro al volo. «Fortuna che vivo nell'unico universo in cui non calcio in laguna questa palla», ha scritto sui social, condividendo il video del gol (le semifinali e le finali sono state trasmesse in diretta su Twitch, e forse Carletto ha aspettato proprio quello per pescare il jolly).

«Era da anni che immaginavo di organizzare un torneo dei sestieri simile a quello di basket (che si gioca dal 2005, ogni estate, al Lido, ndr) - mi racconta Carlo, che ha 26 anni -. Mancava in laguna una manifestazione calcistica di rilievo: i tornei estivi si facevano solo in terraferma. Ero invidioso dello spirito del basket, del terzo tempo tutti insieme al bar, mentre a Venezia ci sono cinque squadre di calcio in prima categoria in cui le società si pestano i piedi l'una con l'altra, si fanno i dispetti e creano distanza tra i ragazzi dei vari club. Per questo, l'anno in cui a causa del Covid sono stati bloccati i campionati dall'Eccellenza in giù (la stagione 2020/2021, ndr) ho colto l'occasione, perché tutti i ragazzi delle squadre di provincia erano fermi, e avevano gran voglia di giocare».

Non era la prima volta che Carletto si lanciava in un progetto per animare le giornate dei giovani in laguna. Prima del Trofeo del Doge, c'erano state le feste del Redentore ai Murazzi, sulla spiaggia, l'attivismo in Venice Calls e poi Arsenàl, un gioco da tavolo ambientato a Venezia e creato da Carlo con due amici. «Mi piace l'idea di giocare con la città, con le sue forme, con la sua particolarità. Se qualcosa non c'è, mi ci metto e la faccio». Per il torneo è stato lo stesso: «Un giorno abbiamo organizzato una partitella a Sant'Alvise con dei ragazzi di varie squadre, a cui ho parlato della mia idea. All'1 di notte Elia Ziliotto (il portiere di Cannaregio, ndr) mi ha scritto che l'idea gli piaceva tantissimo: Mi ghe so, mi ha detto - ricorda Carletto -. Fino a quel momento non avevo molta confidenza con lui, che in campo ha un caratteraccio, parla troppo: insomma, non pensavo che ci avrei avuto a che fare». E invece i due si sono uniti, sono diventati amici e in due mesi hanno messo su l'edizione zero del torneo, insieme con Giovanni La Sorella, che fa il difensore nel Lido San Nicolò e il bagnino in spiaggia, e Filippo Reggio, attaccante di Castello che ha giocato a calcio anche negli Stati Uniti ma deve ancora esordire al Trofeo per via di un brutto infortunio. «La prima cosa che abbiamo fatto è stata chiamare un grafico e fargli creare gli stemmi dei sestieri, perché volevamo subito mostrare che stavamo creando un contenitore credibile. La nostra idea era di mettere le basi per un torneo che diventasse un appuntamento fisso, non guardavamo ai prossimi due o tre anni, ma a un orizzonte di cinque, dieci anni».

Sant'Alvise da fuori, foto di Camilla Leonardi.

Alle 20 le campane di Sant’Alvise coprono il fischio con cui l’arbitro dà inizio alla prima partita della serata. Ci sono due match ogni sera, in successione, per otto sere divise su tre settimane. Si gioca in 9 contro 9, come detto, e le partite durano 25 minuti per tempo (30 le semifinali e la finale). I cambi sono volanti, ma a gioco fermo, e ogni squadra ha a disposizione 16 giocatori. Alle 20.05 Stefano Polesel, l’allenatore di Burano, ha già perso la voce. Brizzolato, 47 anni, maglia dei Drughi bianconeri addosso, nato e cresciuto tra le case colorate dell’isola, con i suoi modi plateali da venetian Antonio Conte e le sue urla (spesso blasfeme) mi sembra la classica macchietta da calcio di paese. «Vara che sto qua quando zogava gera el più forte de tutti», mi dice invece a bassa voce un giocatore di un’altra squadra, mentre lo osserviamo sgolarsi ed entrare in campo disperato per l’ennesima uscita sbagliata dei suoi. In effetti Polesel ha avuto una discreta carriera da giocatore, come scopro da una pagina Wikipedia che sembra una cronaca sportiva un po’ barocca degli anni ‘70: «Dotato di giocate funamboliche, il talentuoso giocatore dalla fine tecnica ebbe un limite nella sua estrosità tanto da essere sin dalle giovanili uno spirito ribelle - si legge nella biografia -. Ceduto prima al Parma e poi al Verona, tornò sempre nella sua Venezia, preferendo essere titolare nella realtà dilettantistica veneziana piuttosto che utilizzare come trampolino di lancio un importante settore giovanile». La sua scelta di preferire il calcio locale alla ribalta nazionale ha un’aura quasi leggendaria: «L’aveva preso la Roma, ma lui dopo due giorni ha detto Me manca el barchin, ed è tornato a Venezia», mi raccontano a bordocampo, e voglio credere che sia proprio così. Alcuni miei amici conoscono un'altra versione del mito, secondo cui Polesel poteva andare in Nazionale, ma ha deciso di rimanere in laguna per andare a pescar caparossoi (come nel veneziano chiamiamo le vongole veraci). Da allenatore della rappresentativa di Burano, all’esordio nella competizione, non ha raccolto invece grandi soddisfazioni: tre sconfitte, quattordici gol subiti, una partita abbandonata a metà per andare a bersi una birra al baretto del centro sportivo: «No xe calcio sta roba qua, me go roto i cojoni».

Il derby del Lido in finale, foto di Camilla Leonardi.

Il giorno della finale c'era tantissima gente a Sant'Alvise, soprattutto ragazze e ragazzi giovani, che saranno sempre meno in laguna, ma sanno farsi sentire. L'ultimo atto del Trofeo del Doge 2022 era quello più atteso, il derby tra i due Lido, le due squadre che si sono dimostrate superiori lungo tutto il torneo, sbaragliando la concorrenza delle altre isole e di tutto il centro storico, arrivato solo fino alle semifinali con Castello e Dorsoduro/Giudecca. Il Lido Metamauco, la parte dell'isola che va dall'unico semaforo (!) fino agli Alberoni, comprendendo le Terre Perse, Malamocco e altre zone meno centrali ma molto affascinanti, ha riscattato la sconfitta subita l'anno precedente in semifinale contro il Lido San Nicolò. Il borgo di Malamocco, citato per la prima volta nell'840 con il nome di Madamaucum (da cui Metamauco), è uno dei più antichi insediamenti lagunari e tra l'ottavo e il nono secolo è stato capitale del Ducato di Venezia, prima che il governo venisse trasferito a San Marco: portare a Malamocco il Trofeo del Doge è quindi un po' un ritorno alle origini della Serenissima.

In finale, Lido Metamauco ha giocato una partita quasi perfetta, vincendo 4-0 grazie a un'attenta difesa posizionale guidata dal capitano Emanuele Ginocchi e alle rapide verticalizzazioni sui due attaccanti, Marco Baetta Boldrin e Mattia Scalabrin, che ha segnato due gol in finale e ha portato a casa anche il titolo di miglior giocatore del torneo, votato dal pubblico con l'app del Trofeo del Doge. In tutto, l'abbronzatissimo numero 10 di Metamauco ha segnato 6 gol, uno in meno di Alvise Barbato, giovane attaccante di Castello detto el Kun per lo stile di gioco simile ad Agüero. Con 7 gol Barbato ha vinto il premio di miglior marcatore, un piatto di ceramica: «Ti te magni na pissa stasera su chel piatto», gli chiedono i suoi compagni di Castello, terzi classificati dopo il 5-0 nella finalina. Lui risponde invece che si farà preparare una carbonara dalla mamma.

Con De Poli non ancora al meglio, e forse un filo di presunzione, motivata dalla vittoria dell'anno precedente e dal percorso netto di quest'anno, i ragazzi del Lido San Nicolò si sono dovuti accontentare del secondo posto. Nemmeno il blackout dei riflettori, arrivato al settimo del secondo tempo, sul 2-0, e durato una quindicina di minuti (pare per lo schianto di un piccione sul quadro elettrico), ha spento il Lido Metamauco. Anzi, il buio totale calato su Sant'Alvise, unico intoppo di un'organizzazione impeccabile, ha aggiunto pathos alla già tesa finale, e anche un po' di folklore, tra i tanti «schei indrio» che si sono sollevati dal pubblico.

Foto di Lucrezia Ginocchi.

È finita con i ragazzi del Lido Metamauco immersi nel prosecco e nel fumo bianco e azzurro dei fumogeni, sovrastato solo dai fuochi d'artificio accesi al momento di sollevare la coppa di vetro. Per un anno il trofeo rimarrà a casa del capitano di Metamauco, prima di essere rimesso in palio l'anno prossimo. «Faremo di tutto per arrivare a giocare le finali al Penzo», mi ha detto Carletto Rigo, non nascondendo l'ambizione di portare il Trofeo del Doge nello stadio del Venezia. Non solo, però: «Il sogno sarebbe farlo itinerante, un torneo lungo un mese in cui si gioca a Burano, a Pellestrina, anche in campi non regolari, da canicola vera e propria. So che non sarebbe comodo logisticamente muoversi nella laguna, ma magari con uno sponsor grosso per gli spostamenti possiamo farcela». Il Trofeo del Doge vuole insomma continuare ad allargarsi, ad aumentare il pubblico sugli spalti (che a Sant'Alvise vanno costruiti) e l'attenzione anche dei giocatori importanti. La scorsa estate il gol decisivo per la promozione in Serie A del Venezia era stato segnato da Riccardo Bocalon, nato e cresciuto in laguna e quindi eleggibile per il torneo. Ora gioca a Trento, in Serie C, ma da queste parti lo chiamano ancora Il Doge. Vi dice qualcosa questo soprannome?

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