Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Lorenzo Iervolino
Trentacinque secondi ancora
09 mag 2017
09 mag 2017
Un estratto dall'omonimo libro di Lorenzo Iervolino, edito da 66thand2nd, sull'iconico gesto di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968.
(di)
Lorenzo Iervolino
(foto)
Dark mode
(ON)

Adesso apro gli occhi e le vedo.
Appena finisce l’inno, apro gli occhi e le vedo.
Non ci sono metal detector in questo stadio.
Lì fuori qualcuno può essere armato.
Oppure lo sono tutti, e faranno a gara a chi colpisce il centro. Ora, su questo podio, sono il bersaglio perfetto.
Ho passato un anno intero tra le minacce, tra telefonate
e lettere minatorie. Gente che urlava dalla macchina davanti
alle nostre finestre, tiravano bottiglie contro l’ingresso sul patio
e non gli importava se dentro c’ero io, o solo una donna di vent’anni con un bambino appena nato. «Sporco negro!» gridavano.
«Non arriverai a Città del Messico!». Invece eccomi qui,
da uomo nero, rappresentante della gente oppressa d’America
e portavoce del Progetto olimpico per i diritti umani.
Sono rimasto vivo fino al traguardo.
Sono rimasto vivo per salire su questo podio, perché solo così
un negro può dire la sua.
Se corre veloce, può dire la sua.
E ora tengo in alto il pugno, tengo in alto il mio orgoglio,
finché resisto.
Appena finisce l’inno, apro gli occhi e le vedo.
Adesso apro gli occhi e le vedo.
Tutte le pistole del mondo, puntate su di me.

 

Per primo Tommie Smith. Poi, dopo un’impercettibile esitazione, anche John Carlos. Appena parte l’inno americano reclinano la testa in avanti e sollevano un braccio con il pugno chiuso, disegnando due sagome maestose. O forse è una sola immagine che riflette sé stessa, sdoppiandosi. Il gesto fa azzittire istantaneamente ogni brusio, congela gli applausi. Addensa tutte le vibrazioni dello stadio in un silenzio urticante. Ma dura il tempo di un respiro, o poco più. Poi la rabbia della massa irrompe come l’acqua dalle crepe di una diga. Insulti in lingue diverse volano ciechi e sbilenchi come stormi di pipistrelli assetati. Tommie si rifugia dietro gli occhi chiusi, le palpebre contratte. Immobile, pensa a suo padre. Al piccolo Kevin. Al proiettile che dagli spalti, ne è convinto, qualcuno sta per sparargli addosso. John invece tiene gli occhi leggermente aperti e da quello spiraglio di visuale cerca di capire se, per qualche motivo oscuro, a essere impazzite non siano solo le sue orecchie. Perché è certo che una buona metà dello stadio, attorno a lui, e in particolare alle sue spalle, abbia iniziato a cantare l’inno americano. E che, ancora più precisamente, invece di parole stia sputando su di loro un invisibile sciame di dardi avvelenati. «Siamo allenati per reagire allo sparo» aveva detto a Tommie, nel tunnel dello stadio, con gli occhi di chi sta per uscire da una trincea in un’alba spettrale. «Se sentiamo il colpo, Tom, buttiamoci a terra: uno dei due si salverà». Due corpi e una statuaria muta resistenza. Passano così centoventi interminabili secondi.

 

Scesi dai gradoni bianchi i fischi sono ormai assordanti. Tommie Smith ha un ramoscello d’ulivo racchiuso in una piccola teca che tiene nella mano sinistra. Nella destra, quella avvolta dal guanto, una scarpa da ginnastica Puma blu. Ai piedi calzini neri sottili che frusciano sull’erba del campo di gara. Sul suo volto è dipinta l’incredulità deforme del sopravvissuto. Dietro di lui, John Carlos distende i primi passi allontanandosi dal podio e continua a tenere il pugno stretto. La pelle del guanto, incollato al palmo sinistro, gli sta facendo sudare le dita. Vuole essere in grado di difendersi, proprio come pochi istanti prima, quando il suo braccio sollevato dal terzo gradino era leggermente ricurvo: un’arma carica.

 

Attraversano l’arena in fila indiana, pronti a essere sbranati. Dèi dell’Olimpo improvvisamente condannati al patibolo. In mezzo a loro, Peter Norman, arrivato inaspettatamente secondo, tiene bene in vista – come fosse una stella d’argento al valore – il simbolo della sua solidarietà alla protesta: una spilletta appuntata sulla divisa verde e gialla.

 

C’erano voluti trentacinque secondi per arrivare fino al podio, Tommie li aveva contati quando erano stati chiamati per la premiazione e avevano camminato silenziosi, lui e John, con i calzini neri di nylon in mostra e un lampo di terrore in fondo agli occhi, che invece non poteva vedere nessuno. E ora che il podio è alle loro spalle, lontano come il relitto di un incubo febbrile, Tommie fatica a non tremare. Il conto alla rovescia corre veloce: gli stessi trentacinque secondi, come implodendo, sempre più vicini allo zero. Qualcuno sta per premere il grilletto, pensa. Ma lo troverà a testa alta. «Siamo qui a testa alta» si dice mentre solleva di nuovo il pugno, stavolta sotto il mento dell’aristocrazia olimpica che li osserva dalla tribuna d’onore.

 

John, più indietro, lo imita nuovamente, ripetendo quell’oltraggioso gesto in diretta mondiale.

 

Calpestano gli ultimi metri di prato e attraversano la pista tagliandola per orizzontale, così come un atleta non fa mai. John sente nella testa un suono opprimente, un martello nelle mani di un pazzo: «Boy-boy-boy-boy-boy». È la parola che gli hanno impresso addosso dall’inizio dell’Olimpiade. Sente: «Boy-boy-boy-boy-boy» e pensa che non smetterà mai. Tommie setaccia la gradinata con occhi enormi, rigati da capillari pulsanti. Non c’è?, si chiede. Non c’è il mio killer, qui? Abbassano il braccio, il tunnel è ormai a pochi passi. Il tumulto dagli spalti assomiglia all’ululato di un branco famelico. Assieme a Peter Norman ci passano attraverso, sfilano dritti come in una giungla di uomini sotto assedio, il cui campo minato è il cielo. Una cosa però è certa: nessuno spara.

 

Si ritrovano nel sottopassaggio, scivolando in un’allucinazione. John Carlos grida qualcosa d’incomprensibile, uno squarcio vocale nell’aria intubata. Dio, ti ringrazio, dice Tommie Smith, con un filo di voce.

 

«Dio ti ringrazio».

 

Sono le 20.49 del 16 ottobre 1968. Ora gli resta una sola cosa da fare. «Uscire vivi da Città del Messico».

 

© 66thand2nd 2017

 



 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura