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Marco Gaetani
Il caotico tramonto del Napoli di Maradona
13 mag 2024
13 mag 2024
Una stagione in cui il Napoli ha difeso ancora peggio il titolo.
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Marco Gaetani
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IMAGO / Golovanov + Kivrin
(foto) IMAGO / Golovanov + Kivrin
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Sul Golfo splendono le luci dei fuochi artificiali. Il Napoli ha appena vinto il suo secondo scudetto, la città è impazzita come da copione, la motonave Angelina Lauro al largo ospita la festa di calciatori e dirigenti. C’è anche Corrado Ferlaino, a bordo, che ha progettato il party in prima persona. È lì che, secondo la leggenda, sigilla una promessa con il giocatore che ha cambiato la sua vita e la storia del Napoli: dopo le bizze dell’estate precedente, Diego Armando Maradona dice al presidente di voler mettere la testa a posto. Rimarrà in azzurro fino alla fine del suo contratto, prevista per il 1993. Al massimo, previo accordo con l’Ingegnere, si potrebbe arrivare a una risoluzione anticipata nel 1992, per tornare all’amato Boca. Tra questo accordo verbale, non il primo di un rapporto tormentato tra i due, e il ritorno di Diego in azzurro nell’estate del 1990, ci passa un mare. Un mare mosso, reso quasi impossibile da navigare a causa di un Mondiale che lascia ferite profonde.

L’Argentina soffre all’inizio, si trova spalle al muro, poi inizia ad avanzare, protetta da una mano invisibile e da una ben conosciuta, quella di Maradona, che si palesa sulla linea di porta del San Paolo su un colpo di testa di Kuznetsov destinato a far esultare i tifosi dell’Unione Sovietica. Elimina il Brasile con una partita ai limiti della leggenda, quella della borraccia di Branco e dello slalom di Diego per Caniggia; poi pone fine alla storia calcistica della Jugoslavia passando ai rigori, quindi elimina l’Italia ancora una volta al San Paolo. Lo fa grazie alle parate di un uomo che non doveva nemmeno esserci, perché Sergio Goycochea aveva iniziato il Mondiale da vice Pumpido, caduto sul campo lasciando spazio al dodicesimo.

Una volta tornato a Roma, nel ritiro di Trigoria, Maradona è protagonista di una maxi-rissa all’interno del centro sportivo insieme al fratello Lalo e ad alcuni membri del suo clan, a tre giorni dalla finale con la Germania. Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, è una rissa figlia di una insistente richiesta, sempre respinta, di una maglia di Diego da parte di un brigadiere della Guardia di Finanza, autore di una serie di ripicche che avrebbero portato il clan Maradona a sbottare. In mezzo, anche il giallo della bandiera argentina strappata da un pennone all’interno del Fulvio Bernardini: c’è chi sostiene che a macchiarsi della profanazione sia stato addirittura il ct Bilardo nel tentativo di motivare ulteriormente i suoi e chi invece indica in un inserviente giallorosso, molto legato al suddetto brigadiere, il responsabile. Quindi, l’oltraggio supremo: i fischi all’inno nazionale da parte del pubblico dell’Olimpico prima della finale, Diego che sbotta in mondovisione e sa benissimo che, da quel momento, per l’Italia diventerà il nemico supremo. Una condizione in cui il Maradona di qualche anno prima avrebbe sguazzato: non questo, prossimo alla soglia dei trent’anni e ormai quasi del tutto fuori controllo.

Per presentarsi in forma al Mondiale si era rimesso a lucido, diventando imprescindibile per il secondo scudetto azzurro dopo un avvio di stagione da separato in casa: una rincorsa lunga quattro mesi, con dieci chili persi secondo le cronache dell’epoca (sulle pagine de «La Stampa», Massimo Gramellini ne descrive la trasformazione definendola un passaggio «Da Cicciobomba a Pallone Sgonfiato») e una condizione via via sempre più dirompente, spazzando via gli strascichi dell’interminabile estate 1989, del braccio di ferro con Ferlaino, persino delle polemiche legate al matrimonio con Claudia Villafane. Dopo la finale persa, dopo una notte in cui ha sentito l’Olimpico cantare «Chi non salta Maradona è», Diego schiuma rabbia. «Siamo stati battuti dalla “mano nera” ma statene sicuri: questi fischi mi caricheranno, tornerò dall’Argentina con la voglia di vincere su tutti i campi italiani ed europei. C’è una mafia nel calcio, spiegherò a mia figlia Dalmita che non le porto la Coppa perché hanno dato un rigore inesistente. Codesal non è stato capace di disubbidire al suo padrone. Quando torno? Chiedetelo a Ferlaino. Fischiare l’inno è da ignoranti. So che mi aspetta un anno molto duro, i napoletani sapranno difendermi».

Sale sull’aereo da Fiumicino per Buenos Aires con ancora in mente le lacrime che non è stato capace di ricacciare indietro nemmeno davanti al presidente della Repubblica Cossiga. Il ritorno è previsto per il 21 agosto, saltando in toto il ritiro di Vipiteno così come gli altri due stranieri impegnati nel Mondiale, Careca e Alemão. I mesi estivi sono il prologo di una detonazione che si ripercuoterà su tutta la stagione del secondo Napoli scudettato: sono passati 33 anni eppure, a vedere come è imploso anche il terzo Napoli campione d’Italia, sembra di scorgere in controluce dinamiche sinistramente simili. Una società che non coglie l’esigenza del cambiamento, anche se con una strutturazione totalmente diversa, perché De Laurentiis che dopo lo scudetto decide di fare da plenipotenziario è distantissimo da Ferlaino che invece lascia che sia Luciano Moggi a occuparsi della direzione sportiva; un’illusione iniziale destinata a spegnersi in tempi brevissimi; terremoti emozionali che spazzano via una stagione.

Restano tutti, o quasi

Per strano che possa sembrare, il più bizzoso nell’estate 1990 del Napoli non è Maradona, bensì Nando De Napoli, che prima del Mondiale chiede a gran voce la rescissione di un contratto che lo lega agli azzurri fino al 1992. Sta subendo da mesi la corte serrata di Giovanni Trapattoni che non vede l’ora di affiancarlo a Lothar Matthäus nel centrocampo della sua Inter, ma Luciano Moggi, in questo, è davvero simile ad Aurelio De Laurentiis: non molla il colpo e il Napoli lo ha già dimostrato un anno prima, tenendo fermo Ottavio Bianchi, esonerato dopo la Coppa Uefa vinta nel 1989 e forte di un accordo già raggiunto con la Roma di Dino Viola. Carta straccia, per i dirigenti azzurri: Bianchi, vincolato fino al 1990 con il Napoli, non riceve alcun via libera e rimane fermo per un anno, obbligando la Roma alla virata su Gigi Radice, rarissimo caso di allenatore consapevole di avere una data di scadenza. Nel 1990, insieme a Bianchi, a Roma va anche Andrea Carnevale, che a differenza di De Napoli vede scadere il suo contratto proprio in quella estate: la sentenza Bosman è ancora lontana e i giocatori, per liberarsi, devono trovare una società che versi una cifra fissata da un parametro Fifa per sciogliere il vincolo.

Al posto di Carnevale, Moggi scommette sul capocannoniere dell’ultima Serie B, Andrea Silenzi, 23 reti con la maglia della Reggiana che rendono immediato il paragone con l’operazione effettuata dalla Juventus un anno prima, quella che aveva portato a Torino Salvatore Schillaci, il nuovo eroe degli italiani. Il profilo tecnico è diversissimo: Silenzi è una classica prima punta anni Novanta, fortissimo nel gioco aereo, per tutti è Pennellone. Sarà uno degli errori di valutazione alla base del flop azzurro. Non c’è più nemmeno Luca Fusi, gregario tra i più sottovalutati degli ultimi quarant’anni del nostro calcio, alla Sampdoria prima e al Napoli poi. Da Napoli va al Torino, quindi alla Juventus, sempre con la faccia di un uomo schivo, vent’anni più vecchio di quanto fosse realmente. Ed è cambiato anche il portiere. È una storia triste, questa, perché è la storia di Giuliano Giuliani. Il suo procuratore, Moreno Roggi, viene convocato da Moggi due giorni dopo lo scudetto: grazie di tutto, la porta è quella, può trovarsi una squadra. Per un assurdo scherzo del destino, per la terza volta nella sua vita, si troverà a raccogliere l’eredità di Claudio Garella: lo aveva fatto a Verona prima e a Napoli poi, lo farà anche a Udine, passando da essere il portiere della squadra campione d’Italia a difendere i pali dei friulani in Serie B. Non doveva finirci lui, a Napoli, ma Walter Zenga: un affare orchestrato da Moggi e saltato all’ultimo istante. Ottavio Bianchi, che aveva avuto Giuliani a Como, aveva spinto per portarlo anche a Napoli. E lo avrebbe voluto a Roma, ma Giulio sceglie il triennale a Udine con la prospettiva di tornare presto in Serie A.

Nell’anno dello scudetto, a un certo punto, Giuliani aveva perso il posto: una febbriciattola che andava e veniva, un po’ di diffidenza da parte di Bigon che non lo apprezzava più di tanto, e in porta era finito il suo vice, Di Fusco, defenestrato in fretta dopo un 3-0 al Flaminio contro la Lazio. In quel momento, nessuno può immaginare che quella febbriciattola sia il primo sintomo del contagio da Hiv, maturato, con ogni probabilità, in occasione della festa per l’addio al celibato di Maradona, a Buenos Aires. Paolo Tomaselli, con sublime delicatezza, ha raccontato la storia del portiere in Giuliano Giuliani, più solo di un portiere, uscito nel 2022 per 66thand2nd. Al posto di Giuliani, comunque, non arriva uno sconosciuto, bensì Giovanni Galli, uscito ben volentieri dallo strano turnover che Arrigo Sacchi gli aveva riservato al Milan, relegandolo a portiere di coppa con Andrea Pazzagli tra i pali in campionato. Per il resto, il mercato è di puro complemento: De Napoli viene costretto a rimanere, arrivano Incocciati per allungare le rotazioni in attacco, Venturin a centrocampo. Rizzardi in difesa, quest’ultimo per rimettere in ordine il numero dei difensori visto l’addio di Bigliardi. Il secondo di Galli non è Di Fusco, bensì il giovane Taglialatela, rientrato dal prestito ad Avellino.

Maradona torna in Italia in anticipo sulla tabella di marcia: il 12 agosto è già a Napoli, fino al 20 agosto, ufficialmente, è in vacanza. Il 16 agosto viene fermato sull’Autostrada del Sole, nei pressi di Pian del Voglio: eccesso di velocità, controllo di rito, assicurazione scaduta, forse anche qualche problema con la patente. Ferrari Testarossa sequestrata: prosegue verso Imola, direzione Molino Rosso, sede della parte finale del ritiro azzurro, con un taxi. Particolare non da poco: l’auto è in realtà regolarmente assicurata, ma Diego non ha ritirato il tagliando dopo aver effettuato il pagamento. Dopo un’amichevole col Bologna alla quale non partecipa essendo appena arrivato in ritiro, si concede una notte a Milano Marittima, tirando l’alba nella discoteca Pineta Lux. Con lui, Careca, De Napoli, Ferrara, Crippa, Silenzi e Rizzardi. Bigon, a Budapest per osservare il primo avversario del Napoli in Coppa dei Campioni, l’Ujpest, non ha dato il permesso per la notte brava: Ferlaino riceve la notizia mentre è in Sardegna e la società si produce nella multa di rito. Al di là della fuga notturna, Maradona sta sorprendentemente bene a livello fisico e accelera in vista del primo appuntamento stagionale, la Supercoppa Italiana contro la Juventus. Nelle prime amichevoli è scintillante. «Volevo far sapere alla gente che Maradona non è un ex, Maradona c’è ancora», dice senza rinunciare al gusto di parlare di sé in terza persona.

Il primo settembre 1990, gli italiani assistono sgomenti all’ultima grande notte di Diego a queste latitudini. La Juventus è indicata come la regina del mercato, ha consegnato a Gigi Maifredi Baggio e Hässler, Julio Cesar e Di Canio, ma non l’agognato Dunga. Roby indossa per la prima volta la 10 bianconera dopo un Mondiale che lo ha visto prendersi la scena e una cessione che ha lasciato Firenze in brandelli, si piazza alle spalle di Schillaci e Casiraghi. Dopo 8’, il Napoli è già avanti, con Silenzi che insacca a porta vuota dopo che Careca è stato abbattuto davanti a Tacconi. La difesa bianconera non sembra avere armi contro il gioco del Napoli, il 2-0 arriva con quella che sembra un’esercitazione da allenamento, Careca-Silenzi-Careca, altro tocco comodo senza ostacoli. L’unico sussulto juventino è una punizione di Baggio, che al San Paolo si è sempre trovato particolarmenteproprio agio. Anche il terzo gol e il quarto gol, in chiusura di primo tempo, arrivano senza che Tacconi sia tra i pali per opporre resistenza: Maradona imbuca per Crippa che stringe da sinistra, salta il portiere e insacca, quindi è Silenzi a sfruttare un’uscita folle del portiere per trovare la porta sguarnita da oltre venti metri. Il 5-1 è un pallonetto di Careca con Tacconi ancora una volta a metà del guado. Moggi se la ride. Diego alza la Supercoppa davanti a Careca che indossa la maglia della Juventus. Il Napoli si crede invincibile.

Maradona parla all’intervallo e a fine partita. Nulla lascia pensare che questa notte rappresenti soltanto un’illusione.

L’inizio di campionato è un incubo. Un pareggio a Lecce, una sconfitta in casa con il Cagliari neopromosso in cui si mette in mostra un uomo che, da lì a poco meno di un anno, avrà il gravoso compito di rimettere insieme i cocci azzurri, Claudio Ranieri. Maradona non c’è nel giorno dell’1-2 contro i sardi, frenato dal mal di schiena. Riappare per la Coppa dei Campioni e sulle pagelle del giorno dopo c’è chi si sbilancia dandogli dieci in pagella, nel giorno in cui il sangue di San Gennaro si scioglie nell’ampolla della Cattedrale. Diego segna due volte dopo il vantaggio di Baroni, prima in mezza girata dopo uno stop di petto, quindi rubando palla al portiere ungherese con un guizzo luciferino. «Non sbaglieremo più un colpo, a Parma giocherò anche in sedia a rotelle», dice a fine partita. Ma al Tardini Taffarel non sporca nemmeno i guanti e i ducali, neopromossi come il Cagliari, vincono 1-0 con gol di Osio. Il calendario sembra disegnato da una mano amica perché alla quarta c’è un’altra neopromossa, il Pisa, partita benissimo con due vittorie e un pareggio. La prima sconfitta della formazione allenata da Mircea Lucescu arriva al San Paolo, gol di Careca al 92’ su assist di Diego per il definitivo 2-1, con il brasiliano che spazza via le voci che lo vorrebbero sedotto da un’offerta giapponese: ci andrà davvero, in Giappone, ma solo nel 1993.

Il mal di schiena di Maradona diventa una leggenda metropolitana, un’ombra nera sulla stagione di una squadra che sembra aggrapparsi al suo numero 10 per non affondare. Gli azzurri passano in Coppa dei Campioni ma dal sabato successivo non ci sono notizie di Maradona, che non parte per Genova. La versione ufficiale è che sia rimasto a letto per il dolore. Di colpo, durante la sosta per le nazionali, esce la notizia di una fuga verso Buenos Aires, accordata dalla società che fino a qualche giorno prima diceva di non avere notizie. «Diego ha ottenuto il consenso da parte nostra», dice Moggi. Promette di tornare presto, per essere in campo per la sfida contro il Milan del 21 ottobre. Intanto è in rotta, da mesi, con il suo storico manager, Guillermo Coppola.

Da clamoroso precursore, a Buenos Aires si fa riprendere prima di giocare una partita di padel. Quindi si fa intervistare e dice che un club giapponese gli ha offerto 30 milioni di dollari. Dal ritiro azzurro, Ferrara si dichiara sereno: «Diego ci ha promesso di farci vincere la Coppa dei Campioni, sarà senz’altro presente il 24 ottobre contro lo Spartak Mosca». Rientra in tempo per preparare la sfida con il Milan ma non per presentarsi in tribunale, dove lo attende la causa legata al riconoscimento della paternità del figlio avuto da Cristiana Sinagra, che approda in aula dopo quattro anni di battaglia legale. I miracoli di Galli tengono a galla il Napoli contro il Milan, il big match finisce 1-1, Maradona è un ectoplasma ma trova comunque il gol del momentaneo vantaggio su calcio di rigore. Gli azzurri pareggiano con lo Spartak nell’andata degli ottavi di finale di Coppa dei Campioni e battono la Fiorentina con un gol di Ferrara. È un Napoli male in arnese che cerca di non arrendersi, distante quattro punti dalla Sampdoria capolista. «La squadra in grado di uccidere il campionato non è ancora uscita. Niente è deciso, possiamo vincere tutti, anche noi», è il ruggito di Maradona.

L’implosione

Diego festeggia i suoi trent’anni in un ristorante sulla collina di Posillipo, con lui la moglie, le figlie, pochi amici. Quindi fa esplodere un’altra bomba. Il 5 novembre la squadra è attesa in aeroporto per la partenza per Mosca. Maradona, però, non c’è. A Capodichino l’attesa monta, Moggi non sa che fare. Mette Ferrara, De Napoli e Crippa su un taxi: l’ordine è di andare a prendere Maradona a casa. Diego nemmeno li fa entrare in stanza. Per lui parla Fernando Signorini, il suo preparatore atletico, insieme al nuovo procuratore Franchi: «Non ha voglia di andare a Mosca». Bigon è senza parole: «Ho il fegato sfatto ma la testa funziona: ho deciso di non diventare pazzo». Da Capodichino partono in quindici. Il Processo del Lunedì di quella sera è all’insegna dei fuochi d’artificio, Aldo Biscardi gongola quando sente Osvaldo Bevilacqua dire che «Maradona è uno psicolabile», salvo poi alzare il dito e dissociarsi dall’affermazione dello scrittore.

Alle 16.50 di martedì 6 novembre, Diego appare a Capodichino in jeans e maglione, con un montone sulle spalle. Lo attende un Cessna della Panair noleggiato per l’occasione, che deve portarlo a Mosca in tutta fretta dietro pagamento di 30 milioni di lire: «Non ho parlato con Moggi, non vado a giocare a Mosca, Moggi non vuole». A distanza di decenni, la notte moscovita ha assunto i contorni della leggenda. Diego arriva all’Hotel Savoy in piena notte e chiede di visitare la Piazza Rossa. Impossibile, è la risposta, la piazza è transennata per la manifestazione del giorno dopo che celebra l’anniversario della rivoluzione d’ottobre. Impossibile? Per Maradona? Entra nella Piazza Rossa deserta in piena notte, con la sicurezza che allenta i cordoni per fare omaggio al campione.

Ma ormai il gruppo è sfasciato. «Partimmo per Mosca da soli, verso un gelo che nella realtà dei fatti aveva già avvolto il nostro cuore. […] Eravamo in Russia quando decise di affittare un aereo privato per raggiungerci. Divenne leggenda anche e soprattutto la stranissima pelliccia con cui si presentò in albergo, quando erano più o meno le due di notte e noi stavamo già dormendo. […] La mattina ce lo ritrovammo davanti agli occhi, dopo esserceli stropicciati bene per essere sicuri di non dormire ancora. Nel suo volto, adesso solo apparentemente sicuro e superbo, si nascondeva un messaggio inequivocabile: “Soltanto quando sono con voi, riesco a stare lontano dalla droga e dai miei problemi”. […] Avremmo avuto voglia di abbracciarlo e tornare a sorridere insieme; tra tutti i rappresentanti della società, però, c’era una grandissima e comprensibile tensione», ha scritto nella sua autobiografia Ciro Ferrara. Maradona siede in panchina con la maglia numero 16, entra a 25 minuti dalla fine. La sfida si protrae fino ai rigori, l’unico a sbagliare è Baroni, proprio l’uomo che aveva segnato il gol-scudetto. Il Napoli saluta quello che era diventato il grande obiettivo stagionale. Bigon non si nasconde: «Dopo le scuse di Diego, la società mi ha lasciato la scelta relativa al suo impiego. Ho pensato che la panchina all’inizio fosse una punizione giusta». Quando la squadra torna ad allenarsi a Soccavo c’è anche Ferlaino ma non Maradona, che non si presenta: l’entourage dice che si allena da solo, nella sua palestra personale. L’Ingegnere prova a usare la leva dei soldi, il contratto dell’argentino è stato già parzialmente saldato fino al 1993 ma è pieno di clausole, la quota per lo sfruttamento d’immagine da parte del Napoli è altissima e gli azzurri non escono certo bene dalla vicenda moscovita. «Nel calcio chi sbaglia deve pagare», dice Ferlaino, mentre Moggi è furioso: «Non chiedetemi perché non si è presentato all’allenamento, a questo punto non ci interessa saperlo».

Le parti concordano un’assenza a Bari, Maradona si lancia in un discorso che sembra anticipare lo storico monologo di Allen Iverson, quello del «we’re talkin’ about practice». «Dicono che senza allenamenti non posso giocare. […] I tifosi devono essere stanchi quando sentono che senza allenamenti non posso giocare. Bigon e Ferlaino hanno parlato della necessità degli allenamenti: vuol dire che devo convincermi anch’io. Credo che il grande Maradona non lo rivedrete più. Vedrete un Maradona allenato». All’orizzonte c’è la sfida con la Sampdoria di Vialli e Mancini, che si è messa in testa di prendersi quel triangolino tricolore appiccicato debolmente sulle maglie azzurre. Maradona torna in gruppo, poi salta l’allenamento del venerdì. La sera, però, appare a Telemontecarlo: «Spero di tornare a giocare nel Napoli, una squadra che io ho costruito e che mi hanno tolto». Con lui c’è la figlia Dalma, che a quel punto chiede al papà: «Tolta?». Maradona riprende la parola: «Sì, Ferlaino e Bigon me l’hanno tolta. Tutto perché il tuo papà non è andato a Mosca con i compagni. Con la Sampdoria non so se giocherò. Quando parlai con Bigon, quel sabato, lui mi disse: “Ci rivedremo dopo la Samp”. Con un Careca a mille, il Napoli potrà vincere».

Il Napoli è allo stesso tempo prigioniero e carceriere dell’uomo che ha riscritto la sua storia. Ma quell’uomo non c’è più, ne è rimasto il contorno, l’ologramma, una sagoma svuotata incapace di riprendere in mano il corso della sua stessa vita. I compagni sono ancora in balia del suo debordante carisma, eppure ormai, di Diego, pesa più l’assenza che la presenza. È un lutto che anticipa di svariati decenni quello che poi travolgerà il mondo intero al momento della scomparsa. A Napoli tutti sanno, non c’è nessuno che non sappia. Un velo di ipocrisia mista a omertà punta a proteggere la figura sempre più debole del campione consumato dal vizio. Per tutti, quel Napoli-Sampdoria 1-4 rappresenta il passaggio di consegne. In realtà è soltanto la resa degli azzurri, perché i blucerchiati avranno bisogno di mesi per consolidare il trionfo. Lo faranno anche sull’onda di due gol meravigliosi, il terzo e il quarto del pomeriggio del San Paolo, uno di Vialli e uno di Mancini. Si erano illusi, gli azzurri, con il gol di Incocciati, poi spazzato via dalla furia dei gemelli del gol. Il paradosso è che il Napoli non gioca nemmeno male, ma non gliene va dritta una. «Il Napoli può risorgere nella prossima stagione ma non va ricostruito sulle spalle di Maradona», dice l’argentino, tramortito, indifeso, arreso. «Sono vecchio e non mi voglio più arrabbiare: ciò che conta è la famiglia», si sfoga, pur avendo solo trent’anni. Ma se ne sente ottanta, divorato da una vita che da sola potrebbe contenerne sei o sette. Ferlaino inizia a scendere a patti con la realtà, il piano è concedere a Maradona una stagione in prestito al Boca per poi mettersi al tavolo con i club giapponesi pronti a fare ponti d’oro all’argentino nell’estate del 1992.

Mentre la squadra arranca a Firenze ma passa in Coppa Italia, Maradona è a casa, ufficialmente ad allenarsi in garage, ufficiosamente a fare chissà cosa. Il re ormai è nudo, sui giornali c’è chi parla fuori dai denti della dipendenza di Diego dalla cocaina. Lui nega: «Adesso dicono anche che faccio uso di droga, mi gettano addosso facili accuse per nascondere i problemi che hanno tanti giornalisti. Mi toglierò di mezzo, dopo tanti anni me ne andrò alla ricerca di un calcio più tranquillo oppure lascerò il calcio. Mi metterò in disparte, consentendo a Ferlaino di prendere uno straniero più forte, così il Napoli tornerà a battersi per lo scudetto. Ammesso che sia colpa mia se non ci riesce ora». Sono le frasi di un uomo che sa anche essere un meraviglioso manipolatore. Funzionerebbero, se non fosse che non gli crede più nessuno. Spunta nuovamente la pista Marsiglia, perché Bernard Tapie non si è mai dimenticato di lui. Ormai passa più tempo in tv che in campo, anche perché Telemontecarlo gli ha versato 300 milioni di lire per un appuntamento settimanale. Dichiara di aver ricevuto un’offerta miliardaria da un club italiano: «Ma la gente di Napoli può stare tranquilla, non andrò in altre squadre italiane». Vedere Maradona a Soccavo diventa un’utopia, la società continua a far partire deferimenti e prova a portare in tribunale la società che cura gli interessi d’immagine del campione. Moggi tira in ballo la Figc e l’Assocalciatori, perché l’argentino rifiuta di farsi visitare dai medici del club ogni volta che diserta le sessioni di allenamento.

Il Napoli è vittima del contratto depositato in Lega, la cui cifra ufficiale è di 300mila dollari: tutto il resto verte sui diritti d’immagine, ma le multe sono tarate sulla cifra del contratto e il club non può rientrare che del 40% dell’importo mensile. Briciole. Quando si presenta, viene rispedito a casa: non è in condizione. Dopo Telemontecarlo, anche «Il Roma» può avvalersi della collaborazione di Diego, che firma un articolo in cui ingiuria Bigon. Venerdì 14 dicembre è regolarmente a Soccavo, ma porta con sé Dalma e Giannina e gioca con loro due sul prato. Poi entra in campo e sotto gli occhi dei giornalisti inizia a svirgolare di destro tutti i palloni che tocca. Prende del fango da terra, se lo passa sul volto e sbuffa: «Che fatica!». Bigon e i giocatori assistono sgomenti a quella che ha tutti i contorni dell’esibizione di un pagliaccio triste. Cinque giorni dopo è atteso in tribunale per il test del dna che deve certificare la paternità del figlio nato da Cristiana Sinagra (diserterà, provocando la rinuncia al mandato di difesa dei suoi legali), il giorno successivo si deve discutere la causa intentata da Ferlaino alla Diarma, la società che ne cura l’immagine, quindi ci sarà la chiusura dell’inchiesta per evasione fiscale. È una slavina.

La fine

Il 1991 inizia con ritorsioni a mezzo televisivo: «Sono andato ad allenarmi, spero di giocare contro la Juve, spero che Moggi, Ferlaino e Bigon mi facciano giocare. Bigon non sa che nella squadra ho molti amici. Moggi? Pensavo fosse una persona da rispettare». Diserta l’ennesimo allenamento adducendo fastidi al tendine d’Achille e apre il suo garage alle troupe di Telemontecarlo, che lo riprendono mentre si allena blandamente. Gonfio, fuori forma, il viso incorniciato da una barba incolta, Maradona a Torino contro la Juventus, che secondo radio-mercato sarebbe pronta all’azzardo di prenderlo, si presenta nella sua versione peggiore. «C’è nulla di più triste della normalizzazione di un genio?», si chiede Curzio Maltese. Il girone d’andata si chiude con la sconfitta di Bologna, firmata da Egidio Notaristefano. Il Napoli campione d’Italia gira a 15 punti in 17 partite, ne ha soltanto uno di margine sulla zona retrocessione. Ferlaino celebra i suoi ventidue anni di presidenza augurandosi la permanenza di Maradona e dimostrando di essere totalmente fuori dal mondo, Maradona gli risponde dalle pagine de Il Roma dicendo che a fine anno lascerà il calcio perché «tutti se la prendono con me, dal presidente a Bigon, dai giornalisti del Nord al giudice sportivo. Saluto e me ne vado». Ma poi si lascia andare a uno slancio paradossale: «Se il Napoli finirà in Serie B, allora resterò». A inizio febbraio, dopo l’ennesimo forfait, il Napoli chiede la sospensione di Maradona al Collegio arbitrale.

Riappare di colpo per un’altra pace farlocca: segna due rigori nel 4-2 al Parma, ultima doppietta della sua avventura italiana. Dice che vuole salvare il Napoli, che Gianfranco Zola sarà il suo erede. Ma subito dopo spuntano intercettazioni telefoniche tra camorristi che parlano apertamente delle richieste di donne e cocaina da parte del campione. «Ho già detto ai miei legali che durante i prossimi tre mesi mi aspetto di tutto: quello che guadagneremo in querele lo daremo in beneficenza ai bimbi poveri di Napoli». Viene convocato dal procuratore aggiunto di Napoli, al quale nega tutto sulla droga ma ammette: «Una volta mi sono fatto mandare due ragazze, erano pure brutte». A Pisa il pubblico nerazzurro lo invita a «farsi una pera» mentre va in scena la versione calcistica di un Gronchi rosa: il Napoli è in campo con la maglia rossa e Maradona, senza Careca, indossa il numero 9, perché il 10 finisce sulle spalle di Zola. Sono giorni talmente confusi che in soccorso di Maradona arriva Vittorio Sgarbi: «Nella bellezza del campione c’è anche il capriccio. Qui il rischio è che si crei un secondo caso Tortora».

Diego urla al complotto, a una punizione per aver eliminato l’Italia al Mondiale. Intanto prova a chiedere la rescissione del contratto, ma la decisione del Collegio arbitrale della Lega sorride al Napoli che incassa anche sei milioni di ammenda. E allora Diego prende e parte: torna a Buenos Aires. «Da quattro mesi, il Napoli non versa lo stipendio a Diego, che deve prendere oltre un milione di dollari», dice il manager Franchi, preannunciando anche la decisione di iscrivere Dalma all’asilo in Argentina. Poi torna, stende la Sampdoria nell’andata della semifinale di Coppa Italia. La fine è dietro l’angolo, sempre contro la Samp, stavolta in campionato, arriva il mesto ultimo gol italiano, un rigore inutile nel 4-1 per i doriani. Il 25 marzo deve tornare in procura per l’ipotesi di reato di traffico di stupefacenti, tirato in ballo da una ex guardia giurata per un pacchetto misterioso proveniente dall’Argentina e consegnato al campione, consegna che venne ripagata con 25 milioni di lire. La bomba conclusiva esplode il 28 marzo: i test delle urine della partita del 17 marzo contro il Bari evidenziano la presenza di sostanze proibite. Proprio il 17 marzo, Luciano Moggi aveva annunciato la sua decisione di lasciare il Napoli, sostituito da Giorgio Perinetti. Nel 2003, in un’intervista a Il Mattino, Ferlaino avrebbe rivelato in che modo Maradona aveva, per anni, evitato di finire nella rete dell’antidoping: «Quando era a rischio portava con sé una pompetta con l’urina di un compagno: la versava nel flaconcino e il gioco era fatto».

La Federcalcio non si sbilancia, il Napoli si limita a un comunicato stringato: «Tutta la vicenda Maradona è estremamente complessa. Riteniamo perciò doveroso mantenere un atteggiamento di assoluto riserbo. Questo nell’interesse del Napoli e dei suoi tesserati». All’una di notte del primo aprile sale sull’ultimo volo disponibile da Fiumicino per Buenos Aires, venendo meno ai consigli dell’avvocato Siniscalchi, e torna in Argentina. Lascia all’Ansa un messaggio: «Non ho tradito i principi che ispirano una leale e corretta attività agonistica. Se adesso mi allontano è perché non riesco a comprendere la ragione di tutto quanto accade così all’improvviso, quasi come per un oscuro disegno. […] Sicuro che presto ogni nube sarà diradata, saluto la maglia azzurra e lo scudetto tricolore del Calcio Napoli, i compagni e i napoletani con i quali ho trascorso anni indimenticabili». È una fine triste, squallida, inevitabile. Il loop autodistruttivo di Maradona a Napoli termina così, con una fuga nella notte, l’attesa di controanalisi il cui responso non lascia dubbi. Lo stop fino al 30 giugno 1992 (la squalifica poteva raggiungere anche i due anni) arriva per la presenza nelle urine di tracce di cocaina. Inutile la difesa, orientata su un difetto di conservazione e trasporto delle provette. In tutto questo marasma, una cosa giusta la dice il suo prepara

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