
Quando al termine del grigio Torino-Roma che ha chiuso il campionato Urbano Cairo si è prestato al consueto rendez-vous con i giornalisti nel parcheggio dello stadio Olimpico Grande Torino, nessuno si aspettava quello che stava per succedere (sì, avete capito bene: il presidente del Torino incontra i cronisti nel parcheggio, quasi mai in sala stampa). In quell'occasione l’attacco diretto del presidente nei confronti di Paolo Vanoli ha sorpreso un po’ tutti: un monologo di circa sette minuti dai passaggi anche pesanti, quasi denigratori, nei confronti dell’allenatore che ha guidato il Torino durante la stagione appena conclusa (seguito dalle pagine altrettanto pesanti pubblicate dalla Gazzetta dello Sport, di cui Cairo è editore, nei giorni successivi).
A stupire non è tanto la sostanza della presa di posizione di Cairo - i risultati del Torino sono stati effettivamente deludenti, un'altra volta - quanto i toni. «Ha parlato di otto finali, era meglio se avesse parlato di semifinali»; «Chi manda in campo la squadra? Non è sempre colpa di Cairo»; «Troppe parole, troppe chiacchiere. Serve a poco, così si allenano i tifosi e non i giocatori».
Raramente Cairo, che ha passato da un po' la sua fase da presidente mangia allenatori, si era scagliato in maniera così netta contro un suo allenatore, anche dopo risultati peggiori di quelli ottenuti da Vanoli e anche nel caso di esoneri a stagione in corso (Mihajlovic, Mazzarri e Giampaolo gli ultimi casi). La sensazione, quindi, è che non siano stati i risultati - o non solo i risultati - a far sbottare il presidente del Torino.
La squadra granata, infatti, ha sì vissuto una stagione anonima chiusa da un filotto di prestazioni e risultati impalpabili, ma a Vanoli non mancano le attenuanti. L’estate scorsa il Torino ha perso in un sol colpo il terzetto difensivo titolare (Djidji, Buongiorno, Rodriguez), salutando poi Bellanova a stagione già iniziata («L’hanno venduto a mia insaputa», aveva commentato allora lo stesso allenatore) e perdendo a ottobre anche il capitano e leader tecnico Duvan Zapata (non sostituito, malgrado le ripetute richieste dell’allenatore, durante il mercato invernale). Oggettivamente insufficienti i rimpiazzi scelti per il reparto difensivo, già orfano anche di Perr Schuurs: da Coco a Walukiewicz, passando per Pedersen, tutti evidenti downgrade rispetto ai calciatori dei quali andavano a prendere il posto.
Vanoli, peraltro debuttante in Serie A, aveva in mano una rosa nettamente indebolita rispetto a quelle messe a disposizione di Juric nel triennio precedente: valutare la sua stagione senza tenere conto di questo sarebbe oggettivamente ingeneroso e forse lo sa anche Cairo. A voler essere ancora più realisti si potrebbe dire che, sebbene l’undicesimo posto finale non sia certo un traguardo da ricordare, il fatto che Vanoli abbia salvato la squadra sostanzialmente a febbraio, tenendola fuori dalla bagarre, è un risultato forse meno scontato di quanto possa apparire, soprattutto pensando - oltre alle citate carenze della rosa - a come si erano messe le cose tra ottobre e novembre, quando il Toro non riusciva assorbire la perdita di Zapata.
La sensazione, dicevamo, è che Vanoli abbia pagato soprattutto alcune sue dichiarazioni, ancor prima dei risultati. Il riferimento, in particolare, va alla conferenza stampa pre Lecce-Torino di metà maggio, con quel confronto tra quanto raggiunto da Atalanta e Bologna (oltre al Como) e quanto non raggiunto dallo stesso Torino. «Quando sento che il mister dice che il Bologna ha idee, l’Atalanta ha idee, il Como ha idee», ha risposto Cairo sempre nel parcheggio dello stadio, dopo la sconfitta con la Roma «Poi si corregge e dice che il Como ha speso tanti soldi. Il Bologna ha idee, ma comunque ha speso 300 milioni in dieci anni. Se uno fa il conto, di questi ultimi tredici anni da quando siamo tornati in Serie A, il Bologna è dietro di noi. Poi chapeau, hanno fatto bene in questi ultimi due anni e ho fatto i complimenti, sono contento per loro. Comunque sia, bisognerebbe cercare di vedere le cose in maniera più globale, non soltanto andare dietro alle emozioni del momento. In particolare uno come Vanoli che fa l’allenatore ed è in questo mondo da quarant’anni».
Se il confronto tra i risultati raggiunti dal Torino di Cairo e quelli ottenuti nello stesso periodo da realtà teoricamente simili (Atalanta e Bologna, ma anche Fiorentina e Napoli) meriterebbe un capitolo a parte, è chiaro il risentimento di Cairo per queste e altre dichiarazioni rilasciate da Vanoli nel corso della stagione, diventate indirettamente vento sul fuoco della contestazione della piazza, tracimata ad agosto dopo la cessione di Bellanova e culminata con le 20mila persone scese in strada a Torino lo scorso 4 maggio.
Vanoli ha spesso parlato di ambizioni, in netta antitesi con un presidente che per sua stessa ammissione preferisce «lavorare a fari spenti» spiegando che «è meglio non sbandierare gli obiettivi» (non certo il miglior modo per spingere al suo massimo un ambiente e chi ci lavora). Vanoli, chissà quanto consapevolmente, ha usato le sue conferenze stampa per richiamare alcuni valori cari alla storia del Torino e alla sua retorica, infilandosi in quell'enorme crepa che si è venuta a creare negli anni tra una tifoseria aggrappata in maniera viscerale alla sua identità e un presidente accusato dalla tifoseria stessa di non coltivare e non valorizzare tutto ciò che riguarda il DNA granata.
In questo modo, il tecnico è diventato egli stesso uno dei simboli di una contestazione sempre più accesa, quasi un emblema della contrapposizione tra la piazza e la sua proprietà (che poi, in questo caso, è rappresentata da un uomo solo). Urbano Cairo, probabilmente, poteva sopportare la contestazione continua allo stadio e anche le decine di migliaia di persone scese in strada per urlargli di andarsene, ma non poteva accettare che ad alimentare questo malcontento fossero (anche) le parole di un allenatore sotto contratto con il suo club. Da qui (o anche da qui), lo sfogo post Torino-Roma, arrivato dopo settimane in cui Cairo, dopo alcuni mesi di sostanziale silenzio, aveva ripreso a rivendicare la bontà del suo ventennio in granata in ogni occasione pubblica, quasi a sfidare le lamentele della piazza e riaffermando la sua posizione di potere.
A dire la verità il rapporto tra Cairo e Vanoli è sembrato partire male fin dalle sue premesse. Si potrebbe perfino ipotizzare che fin dall’inizio il presidente del Torino non fosse pienamente convinto di affidare all’ex Venezia la panchina liberata da Juric, e si spiegherebbe così la trattativa lunga e complicata che aveva portato al suo ingaggio, con uno stallo di settimane legato al pagamento della clausola rescissoria presente nel contratto che legava il tecnico alla società lagunare.
E poi le parole di Cairo durante la presentazione dell’allenatore alla stampa, a luglio 2024: «Non lo conoscevo in prima battuta. Vagnati mi ha proposto di incontrarlo, l'ho fatto volentieri e ho visto in lui grande voglia di fare e di affermarsi». Quasi un unicum nella storia recente di Urbano Cairo, presidente vecchio stampo abituato a prendere in prima persona le decisioni importanti. «Io ho comprato», «Io ho voluto», «Io ho deciso»: quando Cairo parla del Torino le frasi iniziano molto spesso in questo modo. Per rendersi conto di quanto anomale fossero le parole utilizzate durante la presentazione di Vanoli, basti pensare a quelle usate tre anni prima accogliendo Juric: «Lo conosco da tempo, lo volevo già un anno fa». Una bella differenza, anche a livello meramente comunicativo.
Forse anche per questo per Cairo è stato più facile prendersela con Vanoli. Forse non era una sua scelta, e quindi congedarlo in quella maniera non comportava un'assunzione di responsabilità che sarebbe stata inevitabile, invece, nel caso in cui l’allenatore in questione fosse stato voluto da lui in prima persona. Forse anche per questo Cairo, nei tre anni precedenti, aveva sopportato in silenzio le esternazioni di Juric, ben più appuntite di quelle di Vanoli (va anche detto che Juric aveva portato in dote le sempre gradite plusvalenze che Vanoli, non solo per sue responsabilità, non ha saputo garantire).
La separazione tra i due, all’inizio, era stata anche fisica, molto banalmente: tra agosto e settembre, nel momento più alto della gestione di Vanoli (concomitante con una delle fasi più aspre della contestazione), Cairo aveva smesso di presenziare allo stadio per le partite casalinghe, anche questa, per lui, una evidente anomalia rispetto alle abitudini. In quelle settimane la curva Maratona alternava cori contro il presidente ad altri a favore dell’allenatore, a segnare chiaramente - qualora ce ne fosse bisogno - da che parte stesse la piazza.
Urbano Cairo era poi tornato allo stadio in autunno, riavvicinandosi alla squadra anche negli allenamenti, puntualmente a favore di telecamere e macchine fotografiche. Nel frattempo, però, ciò che Paolo Vanoli aveva iniziato a rappresentare per una buona parte della tifoseria era diventato qualcosa di troppo scomodo per proseguire un rapporto mai veramente decollato. Così come i risultati del campo erano stati ragione solo marginale dell’affetto che Vanoli ha saputo conquistarsi tra i tifosi del Torino, allo stesso modo sono stati probabilmente secondari nel causare la fine della sua esperienza in granata. Cairo non l’ha mai pienamente apprezzato: la flessione degli ultimi due mesi è stata probabilmente un semplice pretesto per passare oltre.