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Fabrizio Gabrielli

Il lungo viaggio di Tom Saintfiet in Africa

Una vita assurda, guidata da una visione coerente: regalarsi un sogno.

Mi sono imbattuto in questo video, che ha circolato un po’ sui social, di Tom Saintfiet che arringa il suo Gambia prima di una partita del girone di Coppa d’Africa. È un discorso piuttosto standard, se vogliamo, ma ha davvero tutti i crismi del concione da manuale di retorica. Ai suoi giocatori non dà indicazioni tecnico-tattiche, dice: attaccate con determinazione. Giocate in maniera intelligente. Siate compatti. Perché vivete insieme, vi aiutate l’un l’altro, vi supportate l’un l’altro. E state lottando per un sogno.

 

Forse il video mi ha colpito perché a postarlo è stato un giornalista ghanese – l’eliminazione della sua Nazionale era fresca – che voleva dimostrare cosa fosse mancato al suo, di allenatore, Milovan Rajevac. Saintfiet, come Rajevac, è bianco. È occidentale. 

 

Anche se in questa edizione della Coppa d’Africa sono in minoranza, rispetto agli allenatori locali, quella dello stregone bianco è ancora una figura viva nell’immaginario, e continua a suscitare la sensazione di un postcolonialismo da abbattere. 

 

Saintfiet, però, sembra avere qualcosa che è già stata la scintillanza di Bruno Metsu, di Hervé Renard, di Claude Le Roy: un amore profondo per il continente. La sensazione di appartenergli«Vuole cambiare la nostra mentalità, convincerci a credere in noi stessi», dice di lui Omar Colley. «Ora crediamo di poter fare le stesse cose che fa il Senegal». 

 

Nel discorso, Saintfiet dice: «magari gli avversari sono più forti di noi. Magari l’arbitro non è dalla nostra parte. Ma noi siamo più forti. Perché abbiamo un sogno per cui batterci».

 

Il Gambia è la Nazione più piccola del continente africano, se si escludono le isole. Quando Tom Saintfiet ne ha preso le redini non avevano vinto che una partita a livello internazionale dal 2013, e galleggiavano al 157o posto del Ranking FIFA. All’esordio ha pareggiato 1-1 contro l’Algeria, magari è stato un colpo di fortuna, magari no. Però ha subito fomentato un grande entusiasmo. Ha creato una rete organizzativa per far sì che i suoi giocatori si sentissero calciatori della Nazionale, soprattutto quelli che venivano dall’Europa. In Europa li è andati a scovare, spesso uno per uno. «Una questione di gestione delle persone», dice. 

 

Con quei capelli lunghi, scompigliati, la barba sfatta, la pancetta, Tom Saintfiet non ha l’aura del turista occasionale, ma neppure dell’avventuriero. Evoca più la figura del missionario, anzi ancora meglio quella del nerd onnisciente, un po’ come Trifone Girasole di Tintin.

 


Foto di PIUS UTOMI EKPEI / AFP.

 

«Non mi piace proprio la parola globetrotter. Io sono uno che ha girato il mondo per allenare, non il contrario», spiega. E per girare, ha girato molto. Una carriera così assurda, senza nessi causali, spesso, che ci si potrebbe scrivere un libro. E in effetti l’ha fatto: si chiama Trainer zonder grenzen, “Allenatore senza confini”, ha un sottotitolo che ti invita a leggerlo: “dalla mafia finlandese del calcio agli stadi di marmo del Qatar”. Certo, la copertina non aiuta a sfatare il mito dell’avventuriero: siede su una pelle di leopardo, abbracciando un mappamondo, manca solo un fucile appoggiato alla scrivania. Ma forse è una provocazione. Perché Saintfiet è anche un agent provocateur, uno che non si morde mai la lingua.

 

Nato a Mol, a qualche chilometro da Anversa, figlio di un parrucchiere, ha interrotto la sua carriera da calciatore dopo essersi rotto – dice lui – sei volte il crociato. Gli piaceva la tattica, la visione del gioco: l’infortunio, dopotutto, non ha fatto che accelerare i tempi della sua conversione. Si è laureato in psicologia dello sport, specializzandosi sulla maniera in cui i giocatori infortunati affrontano psicologicamente il recupero. L’ultimo crociato, in realtà, sembra essere saltato mentre studiava: si è fatto somministrare un anestetico epidurale per assistere all’operazione, così da sapere cosa dire, in futuro, a chi avrebbe subito lo stesso infortunio. 

 

Una volta laureato ha fatto uno stage al Lierse, dove ha conosciuto Walter Meeuws. Che è rimasto impressionato dalla sua ambizione, sfrenata fino all’arroganza. Per questo, tre anni più tardi, quando Meeuws era alla guida dell’Al-Ittihad, in Qatar, e aveva bisogno di un assistente, ha ripensato a lui. «Era giovane, non aveva famiglia, era convinto delle sue capacità». Saintfiet ha accettato, anche perché aveva un sogno: «voglio essere l’allenatore del Real Madrid entro i miei cinquant’anni», ha detto a Meeuws. Al quale chiedeva costantemente consigli, su come vestirsi per andare in conferenza stampa, in panchina, a concedere un’intervista.

 

Aveva conosciuto il calcio del continente su Africa Football, se ne era innamorato. Era volato in Costa d’Avorio, nel 2000, per lavorare in un’accademia. Poi, guidato più che altro dalla voglia di fare esperienze da allenatore, più che di vita, aveva accettato di guidare il B71, nelle isole Far Oer.

 

L’Africa però era nel suo destino, e non avrebbe tardato a manifestarsi con una premonizione.

 

Otto anni più tardi, dopo l’esperienza in Medio Oriente e un breve ritorno a casa, Tom accetta di guidare il RoPS Rovaniemi. La dirigenza gli propone di tesserare sei giocatori dello Zambia. Lui ne scarta tre, ma non sa che sta facendo saltare un giro di soldi importante, perché quei sei zambiani sono collusi nello scandalo di calcioscommesse orchestrato da Wilson Raj Perumal.

 

«La chiave del successo è capire la cultura del Paese in cui lavori, che è l’errore che fanno in molti. In una società multiculturale non puoi ignorare le differenze». La sua visione è quella di evitare compromessi, combattere le battaglie che gli sembrano più giuste, apportare le sue conoscenze a un gruppo di atleti per farlo progredire.

 

Foto di ISSOUF SANOGO/AFP via Getty Images.

 

Nel 2008, quando Arie Schans lascia la panchina della Namibia, Saintfiet – che è una bella faccia tosta – cerca sull’elenco telefonico il numero di John Muinjo, che è il presidente della federcalcio namibiana. Lo chiama. Gli dice: «sono il prossimo allenatore della Nazionale, lavorerò gratis, per quattro mesi. Se vado bene, stipuliamo un contratto. Altrimenti potete sempre mandarmi via». Sotto la sua guida, ma dire tecnica sarebbe riduttivo, la Namibia scala 34 posizioni nel Ranking FIFA. Iniziano a chiamarlo “Il Santo”, giocando con il suo nome. Oppure: “Il Messia”.

 

Ma Saintfiet non cerca la glorificazione. Ha l’ambizione di arrivare ad allenare una Nazionale in una coppa del mondo, e nessuna volontà di bruciare le tappe. Il suo percorso è soprattutto coerente. La Nigeria lo cerca, nel 2010: viene scartato perché la federcalcio cerca un allenatore locale (che non troverà, e infatti in Sudafrica andrà Lars Lagerback). Il protezionismo, insieme ai pregiudizi, in qualche modo, sono il peggior nemico di Saintfiet.

 

In Zimbabwe viene ingaggiato dalla federcalcio in aperto contrasto con il governo. Mentre è impegnato a guidare l’allenamento della squadra il presidente federale lo raggiunge per comunicargli che Mugabe sta per emettere un ordine di cattura nei suoi confronti: sta allenando senza essere in possesso di un regolare permesso di lavoro. «È stato uno dei momenti più spaventosi della mia vita», dice lui. È costretto a scappare, nella notte, in mezzo alla foresta, fino ai confini con il Botswana. Con lui c’è Lutz Pfannestiel: lo aveva voluto come allenatore dei portieri. Pfannestiel è famoso per aver giocato in 25 squadre diverse, in tutti i continenti. Ha scritto un libro, che si chiama “Inarrestabile – le mie avventure come Globetrotter” ed è finito anche in carcere, a Singapore, con un’accusa di match-fixing. Anche a lui – soprattutto a lui – era stato negato il permesso di lavoro, e sembra che il motivo scatenante affinché Saintfiet sia finito nel mirino di Mugabe, in verità, sia stata proprio la presenza nel suo staff di Pfannestiel.

 

La Nigeria torna a cercarlo nel 2012, lo mette sotto contratto. Tre mesi più tardi, però, il Ministro dello Sport gli revoca il permesso di lavoro: ci sono molti nigeriani più competenti di lui, l’argomentazione. Un anno prima, con l’Etiopia, aveva fermato le Eagles sul 2-2, precludendogli l’accesso alla Coppa d’Africa. Il grande salto, insomma, svanisce sempre quando sembra sul punto di concretizzarsi. Ma com’è che si dice: non conta la destinazione, ma il viaggio. Eppure Saintfiet ha ben chiaro dove vuole arrivare: «Ogni decisione che ho preso, ogni squadra che ho allenato, lo consideravo un utile passaggio intermedio verso i miei obiettivi: diventare un allenatore nella prima divisione belga, oppure raggiungere un campionato del mondo come allenatore di una Nazionale». 

 

Osservare dall’esterno la parabola di Tom Saintfiet ha un effetto straniante. Sembra quasi che accetti sfide guidato solo dal criterio “tanto più sono complicate, tante più opportunità di scardinare il sistema ti daranno”. Non è il Colonnello Kurtz che, mezzo impazzito, scuote la testa lamentandosi dell’orrore, l’orrore. Ma non è neppure un missionario, che cala dall’Occidente per imporre un modus operandi alieno. È più un portavoce di un’africanità intesa non come arroccamento nella propria identità, ma come mood con cui recarsi al planetario appuntamento del dare, e del ricevere.

 

Che poi provi un’insana attrazione per la pericolosità, può anche darsi. In Yemen ha accettato di andare, sostanzialmente, quando l’ambasciata belga gli ha suggerito di non farlo. «Non riuscivo a respirare dalla paura. Tutti giravano con i kalashnikov, si sentiva parlare di attacchi di droni tutti i giorni. Le bombe sono esplose appena me ne sono andato». Anche in Bangladesh la sua esperienza è stata affiancata da un senso di terrore latente. L’esperienza a Dacca è stata, nelle sue parole, «il più grande errore della mia carriera». Viveva tra hotel, stadio, sede della federazione. 

 

In Togo ha portato la disciplina. Quando Adebayor si è presentato in allenamento con quaranta minuti di ritardo, arrivando in elicottero, vestito con una «tuta di pelle e un elmetto dell’esercito tedesco in testa», ed è scappato subito dopo l’allenamento con il suo jet privato, lo ha spedito direttamente in tribuna. Da lì in poi, dice, «è stato puntuale, e la stampa togolese mi ha soprannominato Monsieur Discipline». Ha sempre affrontato, prendendole con la massima serietà, tutte le storture del continente africano. Alla vigilia della partenza per la Nigeria, quando era allenatore del Malawi ed era stato assunto per la doppia sfida, dentro o fuori, che avrebbe sancito la qualificazione ai Mondiali del 2014, ha accettato che facesse visita alla squadra un “profeta”. «Peccato che si sia rivelato un profeta di sventura, dal momento che ha “visto” che avremmo perso».

 

Ha accettato le storture, ma mai tollerato le mancanze di rispetto. Nei suoi confronti, che poi significa nei confronti dei suoi ragazzi. Quando è stato presentato come allenatore di Trinidad & Tobago, il presidente della federazione in conferenza stampa ha detto: «Se non vince contro Messico e Panama può pure cercarsi un altro lavoro». Si è licenziato trentacinque giorni più tardi, dopo aver sperimentato i peggiori strumenti di vessazione e impedimento che una federazione può usare contro il suo allenatore, a partire dai veti sulle convocazioni. Tom Saintfiet, insomma, è quel tipo di persona che quando è in un posto sembra quasi voglia essere altrove.  E spesso ci sta, altrove. 

 

Soprattutto nelle ultime esperienze, spesso è in giro per il mondo a cercare di reclutare giocatori per le sue nazionali, dopo averne studiato gli alberi genealogici, le potenziali eleggibilità. Peraltro pagandosi da solo i viaggi di scouting.

 

Chi lo ha conosciuto assicura che Saintfiet, prima di tutto, sia una brava persona. Gentile, e sempre pronto ad abbandonarsi allo stupore. «C’erano 45mila persona allo stadio, che ne poteva contenere solo 25mila» racconta del suo esordio con l’Algeria, alla guida del Gambia. «C’erano spettatori ovunque: si calavano dai lampioni, si arrampicavano sui tabelloni, ovunque. Abbiamo aspettato un’ora, prima di cominciare. Come fai a non innamorarti?».

 

Nel Gambia ha rivisto il suo Belgio. Un paese minuscolo, ma con un potenziale enorme, che opportunamente allenato, organizzato, sfruttato, può spingersi oltre ogni limite. «Io mi sento un allenatore africano. Sento di far parte di quella vague di giovani allenatori, come Hervé Renard, con una visione nuova di questo sport, nuovi approcci».

 

 

Non è un amante del gioco spettacolare, Saintfiet. E i suoi giocatori lo appoggiano. Colley, al The Guardian, ha detto «prima giocavamo col tiki-taka, cercavamo il bel calcio, e alla fine perdevamo 2-0, o 3-0». Schiera il suo Gambia con un 5-4-1 piuttosto conservatore, old school, puntando tutto sul contrattacco. «Non puntiamo al possesso, ma la nostra tattica è sempre molto coerente», fa eco Musa Barrow.

 

Meeuws sostiene che il difensivismo di Saintfiet, in qualche modo, sia eloquente del suo far parte di un’élite. «Gli allenatori con una personalità schietta e spesso appariscente scelgono sempre un sistema basato su un’organizzazione difensiva rigorosa. Pensa a Mourinho. Al contrario, il Guardiola con la mentalità offensiva era un uomo molto sobrio».

 

Il punto forte di Saintfiet, in fin dei conti, è la sua capacità motivazionale. E i suoi giocatori lo hanno capito. In competizioni dal respiro così breve, e così intense, la retorica che è capace di insufflare la trance agonistica, che sa innescare l’emotività, è sempre un valore aggiunto. In un’intervista rilasciata quando era allenatore di Trinidad & Tobago, forse, è racchiuso tout court il suo pensiero, la sua visione, la chiave interpretativa del suo operato.

 

Dice: «io non posso influire sulla componente fisica dei miei giocatori: non li alleno che per qualche giorno nel giro di mesi interi. E non posso influire neppure sul lato tecnico. La mia influenza è – e deve essere – psicologica: sono atleti che stanno giocando per la loro Nazionale, dovrebbero essere onorati di essere stati selezionati. Sono 11, su centinaia di migliaia. E solo loro possono stare in piedi, a centrocampo, a sentire l’inno. Io cerco persone motivate, decise. Per me il calcio delle Nazionali è la moderna versione della guerra: io voglio solo giocatori pronti a battersi, a lottare per la propria Nazione». Domani, c’è da credere, farà un discorso che verterà su questi punti. 

 

Davanti ci sarà il Camerun, obiettivamente più forte, più dotato tecnicamente. I padroni di casa. Ma Tom Saintfiet sarà lì, senza paura, senza vergogna, a ricordare ai suoi giocatori che sono lì per un sogno. Lui incluso.

 

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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.