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Tim Cahill non ha paura di niente
27 feb 2018
27 feb 2018
La leggenda del Millwall è tornata a casa, con l'idea di giocare i Mondiali.
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Sul rooftop di uno dei grattacieli di Sydney palleggia svogliatamente, sotto la minaccia di un cielo plumbeo, nel pieno dell’estate australe. Poi tira qualche dritto immaginario, come se di fronte avesse il fantasma di Jack Dempsey, o una bandierina del corner. Si lascia fotografare a petto nudo, indossa solo un paio di pantaloni eleganti. Ha il fisico scolpito e qualche ruga sulla fronte. Ogni frase suona neniosa, eppure imponente, come ricoperta da una patina filamentosa di autorevolezza. Quando si parla di calcio, in Australia, nessuno ha più voce in capitolo di Tim Cahill.

Dice «sento che siamo a un livello tale, come Australia, che perché no? Siamo su un grande palcoscenico, proviamo a puntare al titolo. È un’occasione unica perché alcune delle favorite di sempre - Italia, Olanda, Cile - non ci saranno. Credo che ognuno abbia la chance di battere l’altro, chissà che non possiamo davvero competere». Quando Tim Cahill rilascia questa intervista (rivolta a un pubblico probabilmente generalista, che può pensare davvero che l’Australia possa puntare al Mondiale) - è il giorno precedente a quello del sorteggio. L’Australia non ha ancora un CT, dopo le dimissioni di Ante Postecoglou appena una settimana dopo aver conquistato la qualificazione. L’urna avrebbe detto Francia, Perù e Danimarca. Il passaggio del turno è complicato ma non del tutto impossibile.

Da quando, a fine Gennaio, Bert van Marwijk è salito in cabina di comando dei Socceroos, Tim Cahill ha sentito che il suo posto in campo non sarebbe stato più al sicuro.

Senza particolare motivo apparente, solo sulla scorta di una premonizione. O di una fissazione? Dopotutto è pur sempre il secondo calciatore con più presenze in Nazionale, a sole 5 partite da Schwarzer, e il primo marcatore nella storia, con 50 reti. Un recordman, un’icona. Il primo australiano a segnare una rete nella fase finale dei Mondiali, nel 2006 contro il Giappone. Il primo a registrare una doppietta, in quella stessa partita. Il primo a segnare in tre competizioni iridate consecutive.

E anche nella storia recente, se l’Australia è riuscita a centrare la qualificazione, è grazie all’esperienza di Tim, che con la fascia da capitano al braccio ha demolito i sogni innocenti della Siria con un uno-due letale, sfoggiando peraltro un’esultanza branded, che gli è costata molte critiche.

Per quale ragione Cahill crede che van Marwijk dovrebbe osteggiarlo? Perché mettergli i bastoni tra le ruote proprio mentre sta per iscriversi al club esclusivo dei pluri-protagonisti dei Mondiali, una rosa in cui compaiono gente come Cafù, Buffon, Maradona, Pelé e Henry?

Nel corso della sua carriera Tim Cahill ha sempre dimostrato di avere una cultura del lavoro molto radicata. I successi - per quanto pochi - che ha raccolto, le soddisfazioni, la reputazione che si è costruito: ogni mattone è stato edificato più sull’applicazione che sul talento, in rispettosa osservanza della massima hemingwayana secondo la quale il genio è 1% inspiration, 99% perspiration, sudore. Il lavorio incessante, in campo e fuori, è stato lo strumento con cui ha sempre combattuto i demoni dell’insicurezza, forse anche dell’inadeguatezza. Su cui ha edificato il suo altare alla meritocrazia. Se vuoi qualcosa, guadágnatela.

Con coerenza, allora, per farsi trovare pronto per il prossimo Giugno ha mollato il Melbourne City, la squadra nella quale ha giocato le ultime due stagioni - ovviamente portandola a vincere una coppa nazionale, solo sette anni dopo la loro fondazione - e ha deciso, con una mossa molto retorica ma anche coerente con la sua onestà, di mettersi in discussione, alla prova, in un contesto più stimolante. Per farlo ha scelto di tornare in Inghilterra, ripartendo dalla Championship, da Millwall.

L’apprendistato al borough London SE16, dove è sbocciato come calciatore professionista, gli ha impresso a fuoco un dogma sulla pelle: il calcio è innanzitutto commitment, impegno. Con il pubblico, certo, il club, ovvio; ma anche e soprattutto con sé stessi. Dentro e fuori dal campo.

Nel discorso sulla Nazionale, invece, ha perso smalto e sicurezza, preferisce non parlarne: «toccando ferro ci andremo tutti, ma nessuno è garantito», ha detto nella conferenza stampa di presentazione che avrebbe dovuto sancire, di fatto, la certificazione degli intenti.

Al netto del sentimento della vendetta rancorosa, la scelta di Tim Cahill somiglia a quella di Rocky Balboa che si immerge nella tundra ostica prima di affrontare Ivan Drago. Entrambi, per spingere il loro fisico al massimo dell’allenamento, scelgono un contesto estremo, primitivo, e anche innecessario (Rocky poteva continuare ad allenarsi nella sua Filadelfia, Cahill giocare una partita a settimana in A-League, e la sfida a Drago ci sarebbe potuta tranquillamente essere in ogni caso, figuriamoci i Mondiali), se non per la portata epica. Per trovare la massima concentrazione si allontanano dalla loro zona di comfort, dalla tranquillità morbida di tutto ciò che chiamiamo casa e famiglia. La moglie e i suoi tre figli si sono stabiliti nel New Jersey, negli Stati Uniti. Ci rimarranno fino al calcio d’inizio dei Mondiali.

Al tempo stesso, però, Millwall e tutto ciò che ne consegue - le foto con gli ex-compagni-ora-diventati-suoi-allenatori, l’ammirazione dei giovani cresciuti nel vivaio - lo sta circondando da un’aura romantica.

Il Tim Cahill che ha appena ri-esordito con il Millwall è ovviamente un altro uomo rispetto a quello che vent’anni fa ha fatto la prima comparsa, giovanissimo, in Division One. A quei tempi, per dirne una particolarmente suggestiva, non era neppure - calcisticamente - australiano.

La palingenesi del suo piccolo mito minore è però una storia che merita di essere raccontata dall’inizio, cioè da quando i suoi genitori sono andati in banca a chiedere un prestito di 6000 dollari australiani (quasi 4000 euro) per permettere al figlio di coltivare ciò che a quell’età, ecco, come si fa a capire se è un capriccio, un sogno o la trasfigurazione di un’ambizione genitoriale?

Promesse e marinai

Tim Cahill senior, il padre, si è trasferito in Australia nei primi anni ‘70. Londinese, parlata rapida, ha lavorato per decenni a bordo di navi mercantili in giro per il mondo, soprattutto in America Latina. È là che si è innamorato del calcio. «Giocavo nelle squadre degli equipaggi, ci divertivamo un sacco. Ho giocato contro il Racing Club de Avellaneda, qualche altro club professionistico: facevamo da sparring partner durante le loro preparazioni. Ci surclassavano ogni volta, ma io rubavo con gli occhi quei trucchetti. E ho cercato di trasmetterli ai ragazzi».

In Australia ha conosciuto Sisifo, una ragazza samoana. Hanno avuto due figli maschi e una femmina. E Tim. Non è per niente facile, e meno virtuoso di quanto possa apparire, appassionarsi al calcio quando si cresce in un contesto culturale simile, nell’emisfero australe e in una famiglia con forti ascendenze samoane, anziché al rugby. Sisifo proibisce a Tim di giocare con la palla ovale perché lo trova troppo pericoloso.

Tim, insomma, è un ragazzo che prova un sentimento di passione per il soccer che in Australia rischia di suonare - e finisce per farlo davvero - straordinario. I coach delle squadre locali lo bocciano, troppo basso, troppo poco formato fisicamente. Ma Tim ha talento, un dono che non è facile riconoscere in un mondo ancora ai prodromi di un sistema calcistico organizzato. Il suo sogno è lo stesso di quello di Tim senior, che a Londra ha ancora alcuni buoni amici. Gli procurano i contatti per far sostenere a Tim un provino con il Millwall, il club del sobborgo londinese dei dockers, che milita in Division One, la terza serie inglese. È il 1996. Dopo una stagione con le riserve, Tim viene preso in prima squadra.

Foto di Phil Cole / Getty Images.

«È per questo che ce l’ho sempre messa tutta per giocare ai massimi livelli più a lungo possibile. Era così difficile diventare un calciatore professionista in Australia. Esserci riuscito in Inghilterra è stata la ricompensa più grande per la fiducia dei miei».

C’è una strana coincidenza di destini in questa metonimia che è Cahill al Millwall, una squadra operaia, agli albori della carriera. Dove non arriva l’estro subentra l’abnegazione, la prepotenza atletica. «Devi avere un carattere particolare per giocare per il Millwall. Devi esporti con intensità, spirito di sacrificio e passione».

«I miei cugini, i miei fratelli: sono tutti samoani belli grossi. Io non ho quella genetica, ma nella testa, là non ho mai avuto paura. Mi sono sempre tuffato anima e corpo negli obiettivi. Al Millwall ho imparato che devi stringere i denti e tirare avanti. Mi ha aiutato a farmi da solo».

Oggi, nello spogliatoio, è il totem di generazioni di calciatori cresciuti tifando la loro squadra con in campo l’avatar più giovane di Cahill. Allora, ricorda, doveva pulire le docce, lucidare gli scarpini dei compagni. Non c’era altra scelta. «Io, Mark Bresciano, Vinny Grella, Harry Kewell, Mark Viduka. Dovevamo resistere, combattere, continuare a giocare perché non c’erano altre opzioni. Non potevamo andare ovunque. Non potevamo rimanere in Australia».

I sei anni di Everton, e poi le esperienze negli States e in Cina, lo hanno fatto maturare. Gli hanno donato consapevolezza. Nei primi giorni del ritorno a casa si è messo a disposizione dei compagni, del tecnico Neil Harris - suo ex compagno di squadra - e della società per sdebitarsi, come continua a ripetere. Con l’umiltà che lo ha sempre contraddistinto. «Grazie a Dio, e toccando ferro, è sempre lo stesso bravo ragazzo», dice di lui la madre, Sisifo, il nome di chi lo sa bene cosa significhi caricarsi sulle spalle il peso delle aspettative, rotolare per il pendio della discesa, ricominciare da capo, e così via.

Ohana

Gli anni di Millwall hanno segnato un ovvio spartiacque nella storia familiare dei Cahill. Non deve essere facile avere un figlio che lavora lontano poco meno di diciassettemila kilometri, undici ore di fuso orario. Quando il nome di Tim comincia a garantirgli una certa notorietà, i due fratelli lo raggiungono e si stabiliscono nel Regno Unito. Chris è un difensore dal fisico roccioso e i tratti più esotici di quelli di Tim: sogna di sfondare come calciatore ma non avrà la stessa fortuna del fratello. Non riuscirà a superare nessun provino e si accontenterà di una carriera modesta, in Australia, in bilico tra il semiprofessionismo e un posto fisso al centro della difesa delle Samoa Occidentali.

Sean, il maggiore, con un passato da portiere, sognava di sistemarsi a Londra e di fare il poliziotto. Nel 2008, mentre Tim gioca con l’Everton, si trova coinvolto in una rissa in cui - per difendere Chris, secondo la sua versione - prende ripetutamente a calci in faccia un uomo indifeso, a terra. Verrà condannato a sei anni di carcere. Pochi giorni più tardi, dopo aver segnato un gol contro il Portsmouth, Tim incrocia i polsi nel gesto delle manette. «Puoi schierarti solo da una parte», dirà in un’intervista. «Dalla parte della tua famiglia e della tua Nazione. Devi mostrargli rispetto a ogni livello. La gente sa come sono fatto, non mi nascondo». Ho riguardato a lungo quei frammenti. Non mi è mai parso un gesto provocatorio, per il quale fosse necessario scusarsi. Il fatto è che mentre ci concentriamo sui polsi tendiamo a sottovalutare il volto di Tim, che si raggruma in una smorfia che sembra preludere al pianto.

Un momento felice così triste (foto di Lawrence Griffiths / Getty Images).

Papalagi

Secondo le leggende samoane c’è una divinità che si chiama Tuifiti che ha un pregio raro, che a me sembra quasi più una condanna: quando cammina tra la sua gente, nessuno riesce a vederlo. Solo lo sguardo dello straniero riesce a coglierlo davvero.

Tim Cahill ha un forte legame con le isole Samoa Occidentali. Spesso dice che i geni samoani sono il vero segreto della sua longevità. Una volta, dopo aver segnato un gol in Europa League, per festeggiare ha mimato il gesto dei vogatori samoani: pochi giorni prima un tremendo tsunami aveva mietuto quasi 190 vittime.

Sul braccio sinistro ha un tatuaggio enorme che si è fatto in onore dei nonni, la componente polinesiana del suo sostrato: un groviglio di volti, memorie e rimandi che sembrano intrecciarsi come le foglie nella corona della palma, un simbolo della complessità della natura che nelle Samoa chiamano filiga, che è poi anche il secondo nome di Tim.

Per certi versi quello di Tuifiti è un dono che ha avuto anche Tim: nessuno, in Australia, sembrava essersi accorto di lui, calcisticamente parlando, finché era un ragazzino.<

I dirigenti della federcalcio samoana, invece, avevano visto in quel papalagi - che in lingua samoana significa “uomo bianco” e indica per estensione i non indigeni - una specie di prodigio. Aveva soltanto 14 anni quando lo convocarono per il massimo torneo dell’Oceania U-20.

«Mi chiesero se volevo partecipare. Avevo solo 14 anni, mi è sembrata una buona occasione per andare a trovare mia nonna nelle Samoa, che all’epoca era malata. Era una scusa come un’altra per viaggiare a loro spese: voli, sistemazione, le spese vive. Non me ne fregava niente di giocare per loro. Era un torneo di uomini, avevo 14 anni, non mi aspettavo certo di giocare».

Il suo sogno, ovviamente, era quello di fare la storia con la maglia dell’Australia. «Mio padre verificò la situazione con la federcalcio australiana. Gli dissero che la mia partecipazione non avrebbe mai e poi mai compromesso le mie ambizioni». Invece sì. E quando, in occasione dei giochi Olimpici del 2000, la FIFA bloccò la sua convocazione per i Socceroos, Tim realizzò di essersi chiuso in un cul-de-sac tremendo: prima che venisse cambiata nel 2004 il regolamento FIFA per la scelta della nazionalità era molto ferreo. Una volta samoano, tutta la vita samoano.

Nonostante la federcalcio samoana si fosse spinta addirittura a dichiarare che non si sarebbe più voluta avvalere dei suoi servizi, il suo status era congelato: che, in raffronto alle ambizioni di Tim, significava in una terra di mezzo, una specie di esilio. Mick Mc Carthy, suo ex tecnico al Millwall, lo avrebbe voluto con l’Irlanda ai Mondiali del 2002: per la stessa ragione non se ne fece nulla. Al suo posto andò Steven Reid, compagno al Millwall.

Tanto rumore per nulla?

Il fatto che in quella rosa dell’Eire ci fossero, oltre a Roy Keane, centrocampisti come Jason McAteer, Damien Duff, Matthew Holland, esponenti di spicco della classe media della Premier League dell’epoca, ci dice un fatto importante su Cahill: se veniva reputato all’altezza di far parte di una rosa del genere, di rientrare tra i migliori calciatori di una nazionale europea che si apprestava a partecipare a un Mondiale, immaginiamoci cosa potesse significare per l’Australia, che a un Mondiale, invece, mancava dal 1974.

Nonostante, nel nostro immaginario, rimanga la figura di un centrocampista roccioso, fisico, capace in seguito di trasformarsi in un incursore e all’accorrenza in una punta, fortissimo soprattutto in un fondamentale, il colpo di testa, per il livello medio del calcio australiano dei primi anni Duemila Cahill era un fuoriclasse al pari di Kewell e Viduka.

«Sono ambizioso. Non ho paura di fallire, non fraintendetemi. È la realtà. Sono partito dal nulla. È stata la mentalità che mi ha guidato sulla retta via». Nessuno si è mai chiesto cosa sarebbe potuto diventare Tim Cahill. Semplicemente perché è diventato esattamente quello che ci si aspettava diventasse.

C’è tempo, in un minuto, per decisioni e revisioni che un minuto capovolgerà

È una massima di Ezra Pound, ma si adatta bene allo sconvolgimento che ha subito la vita calcistica di Tim Cahill a cavallo di una settimana. Giornate dopo le quali niente sarebbe stato più lo stesso.

«Ricordo che ero in lacrime, me la prendevo con mio padre, con i dirigenti, avevo paura che non avrei mai potuto avere la mia chance. Però stavo facendo rumore in Inghilterra, quel tipo di rumore giusto, eravamo in semifinale di FA Cup, stavamo per essere promossi in Premier League, la gente se ne rendeva conto»: lo racconta così, oggi, Cahill, lo scenario carico di energia statica prima di esplodere, rivoluzionarsi.

La FIFA, nel Gennaio del 2004, rende esecutiva una modifica al regolamento di idoneità nazionale grazie alla quale si può scegliere di giocare per una Nazionale maggiore diversa da quella giovanile in cui si è esordito, a patto che ciò avvenga entro il compimento del 21° anno di età. In virtù di questo cambiamento Tim Cahill può scegliere chi rappresentare tra Inghilterra, Irlanda, Australia o Samoa. Il 30 Marzo l’Australia affronta in amichevole il Sudafrica. Si gioca a Londra, al Loftus Road, lo stadio del Queen’s Park Rangers e Tim esordisce finalmente con la maglia dei "Socceroos".

Cinque giorni più tardi il Millwall si gioca forse la partita più importante della sua storia: all’Old Trafford di Manchester lo attende il Sunderland e la possibilità unica, in caso di vittoria, di raggiungere la prima finale di FA Cup dal giorno della loro fondazione.

«Quella semifinale era la nostra finale, in realtà», dice oggi. Al venticinquesimo del primo tempo, su un lancio lungo del portiere, Tim non riesce a triangolare con il centravanti per infilarsi in area. La palla scivola sull’out sinistro, dove un compagno la recupera e punta la porta. Sulla respinta del portiere Tim arriva a rimorchio, mettendo a segno il gol che permetterà al Millwall di guadagnarsi la finale di Wembley (contro il Manchester United, che vincerà 3-0) e un posto matematico in Coppa UEFA.

La scena di Tim Cahill che a petto nudo corre verso la tribuna è entrata a far parte del gotha immaginifico di tutti i tifosi del Millwall. Tim senior, nella stanza in cui normalmente rilascia le interviste, ha una foto di quel pomeriggio: ha un’espressione di felicità e stupore, ma anche di estrema soddisfazione. Tim si è appena rinfilato la maglietta. Il padre dice «non aveva idea di dove fossimo, eppure è venuto dritto da noi». C’era tutta la famiglia, giunta dall’Australia per godersi l’esordio con la Nazionale. Sono stati investiti dall’onda lunga di un maremoto emozionale.

Quella sera racconta di essersi dovuto rifugiare in un hotel di South London, dove si è registrato con un nome falso, per fuggire dall’entusiasmo dei tifosi. In quel momento non immagina ancora che quella sarebbe stata la penultima partita del suo primo passaggio al Millwall.

A quattordici anni di distanza spiega di aver contattato Neil Harris, ex compagno e ora tecnico dei Leoni, e di avergli detto «sai, sto pensando di tornare in Inghilterra per mettermi alla prova». Anche se Harris aggiunge di avergli sentito dire, dritto al punto, «perché voglio andare ai Mondiali». «Man mano che invecchi pensi di poter rallentare e prendertela comoda, ma in realtà non è così: al contrario tutto è stato accelerato, gli ultimi due anni sono stati incredibili. Essersi qualificati per la Coppa del Mondo è un enorme onore», spiega con umiltà. Prima che la fiamma torni a ravvivarsi. «Ma esserne parte: quello sì che sarebbe eccezionale».

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