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Thierry Henry e l'arte del gol sul secondo palo
14 nov 2025
L'attaccante francese è come se avesse scoperto l'algoritmo del gol perfetto.
(articolo)
9 min
(copertina)
Illustrazione di Livia Albanese
(copertina) Illustrazione di Livia Albanese
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Questo articolo esce insieme alla seconda puntata della nuova stagione di Icone, il podcast di Ultimo Uomo in cui Daniele V. Morrone ed Emiliano Battazzi raccontano i calciatori fondamentali della storia del calcio. Si guarda su YouTube, si ascolta su tutte le piattaforme.

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16 novembre 2002, derby del Nord di Londra, 13esimo minuto, 0-0. C’è un lancio in area di rigore dell’Arsenal, Patrick Vieira come al solito vince il duello aereo e la palla va verso Thierry Henry, che con il corpo tiene dietro il suo avversario e si fa sfilare il pallone sopra la testa. Dopo il rimbalzo, alto, il francese lo controlla prima con la coscia e poi con il collo del piede - tutto questo correndo.

La linea difensiva del Tottenham si fa prendere dal panico, rincula verso la propria porta creando una voragine per Henry, che così tanto spazio a disposizione diventa imprendibile. Si fa praticamente tutto il campo di corsa e arriva davanti l’area, che però è ora schermata dai difensori. Siccome non può più andare dritto, fa finta di calciare col destro e si sposta la palla sul sinistro, e i due difensori abboccano. Uno dei due però riesce a rimanere in piedi, e lo segue in questo spostamento orizzontale verso sinistra. Henry allora se la sposta ancora un po’, ce l’ha sul sinistro appena dentro l’area e scaglia un rasoterra preciso sul secondo palo.

È un gol complicatissimo che Henry fa sembrare facile, quasi un evento naturale. Per festeggiare si lancia a terra scivolando con le ginocchia in faccia al settore ospiti del Tottenham, ed è questa la posa che è stata scelta per la statua a lui dedicata che si trova oggi fuori allo stadio dell’Arsenal.

Thierry Henry, all'apice della sua parabola, è stato uno di quei pochissimi calciatori che hanno dato l’idea di poter decidere da soli quando e come segnare un gol. È stato il giocatore copertina, il più rappresentativo, il simbolo della Premier League durante la sua ascesa a campionato più ricco e seguito al mondo. Ancora oggi è riconosciuto come il giocatore più forte visto nella storia del campionato inglese, quello con più aura, se con questo termine intendiamo quel mix di classe, stile e grande personalità che hanno i calciatori come lui. Soprattutto Henry è stato un attaccante al tempo stesso creativo e metodico, in grado di trovare l’algoritmo perfetto per segnare grappoli di gol nella Premier League di inizio 2000.

Se si guardano tutti i 228 gol segnati con l’Arsenal da Henry ce n’è un grande quantità che sembra ripetersi sempre uguale, con il pallone che entra in porta dolcemente, quasi accarezzando il palo più lontano rispetto al portiere. Chirurgico e sensuale allo stesso tempo, un gol alla Henry. Chiudendo gli occhi lo si può anche immaginare: conduzione o taglio a grande velocità nel mezzo spazio fino all’area avversaria e poi il tiro con l’interno/piatto del piede, che fa andare il pallone lì dove non può essere preso.

Questa tipologia di gol è legata alla carriera stessa di Henry. Il francese cresce idolatrando Marco van Basten, ma presto gli allenatori delle giovanili iniziano a schierarlo come ala, perché è troppo veloce per non essere sfruttato in quella posizione che sta emergendo agli inizi degli anni ‘90. Un allenatore brasiliano al centro tecnico di Clairefontaine lo costringe a lavorare sui suoi difetti. A 13 anni lo costringe a non dribblare più sfruttando solo la velocità. O fai sponda con un compagno, gli dice, o provi un dribbling di tecnica.

Henry racconterà come in quel momento si sia sentito perso, perché pensava che quella fosse la sua unica vera qualità: «Ero veloce... Avevo bisogno di 10 occasioni da gol per segnarne uno, ma allo stesso tempo continuavo a creare occasioni. A un certo punto mi sono detto che non avrei avuto sempre occasioni e avrei dovuto iniziare a trasformarle in gol». Per sua stessa ammissione non era un goleador nato: non aveva la freddezza sotto porta dei grandi bomber, in grado di tirare la palla in rete con forza da qualsiasi angolo, ma imparò a forza di ripeterla un tipo di conclusione più incline al suo gioco.

Come ricorda Philippe Auclair nella sua biografia di Henry, è una cosa nata fin dai tempi del Monaco per mano del preparatore dell’epoca Claude Puel: «Metteva i coni sul campo e mi faceva ripetere la stessa serie di esercizi più e più volte, finendo con quel tiro nell'angolo opposto». Guardando i gol al tempo del Monaco non si può non pensare: non segnava mai, ma i gol che faceva avevano già quell’impronta.

Ha raccontato, ora che fa l’opinionista, durante una trasmissione di SkySports: «Cammino in modo strano. La mia gamba sinistra è dritta, ma la destra è così ad angolo, l'ho studiato quando ero più giovane, è così che sto in piedi, mi sono detto: “Ok, curvare è la mia specialità. Ho studiato. Mi piaceva pensare a cosa avrei fatto. I portieri chiudono sempre il primo palo. Quindi, guardando la foto, dov'era lo spazio? Lo spazio è lì sul palo lontano e, che ci crediate o no, quando ero più giovane non ero bravo nell'uno contro uno, quindi dovevo assicurarmi di aggiungere qualcosa che mi facesse sentire sicuro davanti alla porta, perché la cosa più difficile per un attaccante è quando ha tempo, ma sapevo esattamente cosa stavo per fare».

Poi arriva l’intuizione di Arsène Wenger, che gli cambia ruolo spostandolo dalla fascia al centro dell’attacco. L’allenatore dell’Arsenal lo mette subito al lavoro con allenamenti supplementari: «Henry ha lavorato nei movimenti e nella finalizzazione, è diventato calmo di fronte alla porta. Grazie alla sua intelligenza ha capito subito cos’è importante per diventare un grande goleador». Non è stata una conversione immediata e nei primi mesi a Londra il francese rimane a secco. Ci vuole del tempo per imparare, anche e soprattutto come ricevere il pallone nella maniera giusta, prima ancora che a concludere. Tanto che Henry va a lamentarsi da Wenger perché i suoi compagni non riuscivano a passargli palloni puliti sulla corsa. Al che l’alsaziano, col solito fare tra il filosofo e il professore, gli risponde: «ma tu sei sicuro che loro ti vedono?»

Insomma Henry si deve mettere di più nei loro panni e pensare a come muoversi al momento giusto nel modo giusto in base all’azione e al compagno che deve servirlo. Questo semplice consiglio gli apre un mondo. Col tempo sblocca la capacità di farsi trovare dai compagni davanti al portiere. A quel punto tutto il lavoro nella finalizzazione sul secondo palo gli permette di non dover neanche pensare, conclude in automatico. «All'inizio forse uno su 50 andava a segno. E anche quando ho iniziato a padroneggiarlo, continuavo a tirare per 30, 35, 40 minuti dopo l'allenamento. All'Arsenal, prendevo Richard Wright, Stuart Taylor, Graham Stack o chiunque altro fosse disponibile, anche se non c'era nessuno. La quantità di lavoro dietro era pazzesca. La ripetizione crea l’abitudine. Una volta che hai preso quell'abitudine, il tuo corpo non pensa nemmeno più a quello che stai facendo, lo fai e basta, diventa naturale».

Henry è stato un attaccante atipico per l’Inghilterra in quegli anni, dato che passava più tempo sulla fascia sinistra a ricamare il gioco che non a fare a spallate nell'area di rigore. «Ricordo che all'inizio, quando sono arrivato all'Arsenal, la gente diceva: ‘Non è mai in area, come fa a segnare?’», racconta Henry. «Ma io non ero un giocatore d'area di rigore. Non ero bravo di testa. Riuscivo a tenere palla, ma non ero un giocatore d'area di rigore, quindi perché dovevo stare in una posizione in cui si vedeva il mio punto debole? Dovevo portarti sul mio campo».

Un'intera generazione di difensori centrali abituati a marcare nella propria area erano costretti a seguirlo con riluttanza fuori da essa, dove venivano poi bruciati dalla velocità o dal dribbling di Henry. Anche per i terzini Henry era un incubo. Se lo vedevano passare accanto mentre tagliava in area di rigore e non sapevano se dovevano seguirlo o se qualcuno si sarebbe occupato di lui. Poi c’erano i portieri che semplicemente non erano pronti a parare un pallone diventato rapidamente più leggero e veloce, calciato secco e preciso sul palo opposto a quello coperto dall’uscita, da un giocatore che arrivava in area con tre falcate.

Il suo gioco ha anticipato il cambio di paradigma degli attaccanti. In pochissimi anni si è passati a dover difendere contro centravanti che segnavano con tiri potenti o con colpi di testa su cross dalle fasce, all’affrontare un attaccante che invece della scure colpiva con il fioretto. Una stoccata rapidissima e precisa che non si può fermare. Henry amava calciare in controtempo, che fosse in anticipo, o meglio un attimo dopo o prima rispetto a quanto previsto dal portiere. Ha dichiarato a FourFourTwo: «Quando i portieri escono velocemente verso di me, sperano che io non li faccia fermare, perché se interrompi il loro slancio, il loro tuffo non sarà così lungo come se avessero slancio. Ogni volta che un portiere mi viene incontro, lo guardo per farlo fermare. Una volta che li ho bloccati, si rendono improvvisamente conto che siamo solo io e loro, e nel momento in cui lo capiscono, la palla è già lontana». I portieri sembravano sempre quasi goffi sui tiri di Henry, anche quando sapevano dove avrebbe tirato.

Anche dopo il suo passaggio al Barcellona, e il ritorno a un più convenzionale ruolo da ala, è così che segna il suo gol più celebre, nel 2-6 con cui i catalani battono il Real Madrid. Henry riceve palla da Abidal sul centro sinistra, la appoggia d’esterno a Messi al centro della trequarti, corre in profondità alle spalle di Ramos e quando gli arriva il passaggio di ritorno non deve neanche stopparla, conta i passi mentre guarda bene anche Casillas e poi sull’uscita del portiere la calcia di prima, ovviamente sul secondo palo.

Nei due mesi che passa in prestito all’Arsenal durante l’off season della MLS nell’inverno della stagione 2011/12, Henry è fuori forma. Una serie di infortuni lo limita e finisce per giocare appena una manciata di partite ufficiali. Il secondo esordio, però, è iconico: entra con il boato dello stadio, si allarga sulla sinistra e fiutando l’occasione taglia in area di rigore, dove raccoglie un passaggio filtrante di Alex Song. Apre il corpo e con calma calcia di piatto il pallone nell'angolo sul secondo palo. Anche fuori forma, anche arrivando in una squadra che non è più la sua, l’algoritmo vincente è sempre lo stesso.

Henry ricorda questo come uno dei gol più belli della sua carriera: «È stato il primo gol della mia carriera che ho segnato da tifoso! Non avrei dovuto tornare all'Arsenal e invece ci sono tornato. Non avrei dovuto giocare, e invece ho giocato. Non avrei dovuto segnare, e invece ho segnato. È stata un'emozione incredibile. La tecnica, il punteggio, niente era più importante quel giorno di quello che ho provato in quel preciso momento». Anche a Henry è capitato di segnare un gol che è un tributo ai gol alla Henry.

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