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La genesi di The Rock
17 nov 2025
Il percorso che ha trasformato Dwayne Johnson in una stella del cinema e del wrestling.
(articolo)
24 min
(copertina)
Illustrazione di Emiliano Mait
(copertina) Illustrazione di Emiliano Mait
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Questo articolo è stato prodotto in collaborazione con I Wonder Pictures per l’uscita del film "The Smashing Machine", che troverete in sala dal prossimo 19 novembre.

Peter Maivia pensava che ci dovesse essere un preciso confine tra le cose. Nel wrestling questo significava tenere accuratamente separate la realtà dalla finzione. D’altra parte, negli anni ’60 e ’70, quando divenne uno dei wrestler più in vista, il panorama era molto diverso da quello che conosciamo oggi. Fare il wrestler significava avere a che fare con una miriade di federazioni locali, spostarsi di Paese in Paese, di stato in stato, come un circo di cui si era l’unica attrattiva. Peter Maivia, come attrazione, era l’indigeno del Pacifico. Aveva preso le tradizioni ancestrali della sua terra, le Samoa americane, e le aveva impacchettate per il ring sotto forma di collane di fiori, corone piumate, coralli e quei tatuaggi tradizionali che, solo per farli, c’erano voluti tre giorni interi, almeno a quanto diceva il wrestler Billy Graham. Quei tatuaggi erano il simbolo di un’alta posizione politica nella società samoana - i Maivia, infatti, facevano parte della nobiltà familiare delle Samoa americane - ma adesso, dopo la graduale conquista da parte degli Stati Uniti all’inizio del ventesimo secolo, non erano altro che parte del costume.

Peter Maivia per combattere parte per la Nuova Zelanda, poi per l’Australia e il Giappone, e solo alla fine si accasa negli Stati Uniti, dove comunque continua a fare il ramingo tra varie città solo per il wrestling. Maivia si esibisce, lotta, entra nel mondo del cinema, fa un cammeo in 007 - Si vive solo due volte, si fa spaccare una statuetta in testa da James Bond, si sposa, stringe un patto di sangue con la famiglia degli Anoa’i, ma tutto questo è niente di fronte alla sacralità del segreto del suo mestiere: che nel wrestling non si combatte davvero e che gli incontri sono tutta una coreografia. Agli inizi degli anni ’70, quando lo va a vedere per la prima volta a San Francisco, in cui si esibiva per la NWA (New Wrestling Alliance), per la moglie quindi è uno shock: il marito è a terra, inerme, e l’avversario lo sta colpendo brutalmente senza che lui possa farci niente. La moglie non riesce a crederci: è costretta a intervenire. Si alza dal seggiolino, brandisce uno degli zoccoli di legno che indossava e prova a difendere il marito colpendo l’aggressore, mentre il pubblico si chiede cosa diamine stia succedendo. Peter Maivia allora è costretto a rompere quel patto con il suo lavoro: in samoano gli urla che va tutto bene, che quell’uomo che lo sta colpendo in realtà è suo amico, che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che è tutto finto. Poi la prende di forza e la rimette al suo posto.

Qualche anno dopo, che ci crediate o no, Ofelia Fuataga, diventata “Lia” Maivia dopo il nuovo matrimonio, è una delle prime donne della storia a gestire una promotion di wrestling, dopo aver ereditato la Polynesian Pro Wrestling dal marito. Peter Maivia era morto nel 1982 per un cancro che si era rifiutato di curare.

Di questa storia oggi rimane qualche aneddoto e una delle radici più profonde dell’influenza samoana sul wrestling degli ultimi anni. È un albero genealogico molto grande e intricato, reso ancora più grande e intricato dalla tradizione samoana di instaurare rapporti di famiglia anche con persone con cui non si hanno legami di sangue, e che WrestleTalk ha provato a districare qui. Per adesso vi basta sapere che si può tracciare una linea diretta senza mai staccare la mano dal foglio tra Peter Maivia e il pronipote Roman Reigns (ovvero Joseph Anoa’i, se ricordate il patto di sangue che ho citato poco fa). I due tra l’altro condividono quasi lo stesso nome nel ring: in circa sessant’anni si è passati da “The High Chief” a “The Tribal Chief”. Da fuori, alla fine, la storia sembra sempre un battito di ciglia.

Da dentro, però, ne possiamo vedere i nodi. Da uno dei rami che partono da Peter Maivia arriviamo a Rocky Johnson, che porta sangue nero a questa grande famiglia di wrestler. Sparring partner sia di Muhammed Ali che di George Foreman, camionista, Rocky Johnson - detto “Soul Man” - entra in scena sposando la figlia adottata di Peter Maivia, Ata, nata dal primo matrimonio di Lia. Tra i due però non corre buon sangue: c’è chi ne fa una questione di ego, proprio perché anche Rocky Johnson era un wrestler (aveva conosciuto Ata in un incontro in cui avrebbe dovuto combattere al suo fianco); chi di soldi, perché Maivia sapeva bene che con il wrestling si guadagnava poco e a casa non ci si stava mai; chi addirittura di rivalità sportiva, perché Rocky Johnson, membro del primo tag team completamente nero a vincere un titolo della WWF (l’antenata della WWE), era diventato campione battendo i Wild Samoans, composto da due tra gli innumerevoli nipoti di Peter Maivia. Al di là di come sia andata, oggi comunque possiamo dire che ci aveva visto lungo.

La relazione tra sua figlia Ata e Rocky Johnson infatti è un disastro e, come Dio vuole fin dalla nascita di Cristo, il padre finisce per dipingere lo sfondo della tormentata infanzia del figlio - Dwayne, Dwayne Johnson. Rocky, per farla breve, è un donnaiolo. Nel 2013 Grantland incredibilmente riuscì a intervistare una delle sue molte amanti, Luan Crable, secondo cui «aveva almeno una donna in ogni arena in cui si esibiva». Nel 2022 Sports Illustrated, effettuando dei test del DNA, è riuscita a trovare altri cinque suoi figli, nati da altrettante relazioni.

Tra Rocky e Ata, quindi, le litigate sono all’ordine del giorno e già nel 1987, quando Dwayne ha 15 anni, le cose ormai sembrano a un punto di non ritorno. Rocky era già stato arrestato con l’accusa di aver stuprato una donna di 19 anni; Ata, insieme al figlio, si era ritrovata sfrattata dalla propria casa alle Hawaii, e per questo era stata costretta a trasferirsi a Nashville, in Tennessee. La scena è stata raccontata più e più volte dallo stesso Dwayne, che la vede dal sedile di dietro, mentre i suoi genitori litigano davanti a lui: Rocky sta guidando, Ata gli urla qualcosa lì al suo fianco, e alla fine sono costretti ad accostare lungo un’autostrada molto trafficata. La litigata si gonfia, cresce, finché a un certo punto Ata non vede altro modo per prendere aria che uscire dalla macchina e imboccare l’autostrada a piedi. Il figlio quindicenne - Dwayne - la rincorre, la placca e la porta sul ciglio della strada, e di quel momento ha un ricordo nitido: «Aveva uno sguardo gelido che non avevo mai visto prima».

Non stupisce allora che seguire le orme del padre non sia proprio la prima cosa che sia venuta in mente a Dwayne, che inizialmente preferisce il football. Lo convince un professore dal cuore d’oro che vede un futuro nel ragazzo problematico. Dwayne Johnson per il liceo si era trasferito con la famiglia a Bethlehem, in Pennsylvania, e si era portato dietro i segni degli scarabocchi fatti dai propri genitori: un arresto per furto, un paio per rissa, uno addirittura per aver provato a contraffare un assegno. Jody Swick, questo il nome del professore dal cuore d’oro, si ritrova questo macello davanti in carne e ossa - carne e ossa che già sfiorano i cento chili - in sala professori. Swick gli intima di uscire, Dwayne Johnson lo minaccia per sentire cosa si prova ad avere potere su una persona. Poi però torna a casa e si pente. Il giorno dopo, quando torna a scuola, va per scusarsi ma quello ha già dimenticato tutto e, anzi, forse la sera prima l’ha passata a pensare che quei cento chili di carne e ossa gli sarebbero potuti tornare utili. Jody Swick è infatti l’allenatore di football della scuola.

Inizia la brevissima e sfortunata carriera di Dwayne Johnson nel mondo del football. Dopo l’esperienza liceale e poi universitaria, a Miami, nel 1995 si presenta al draft della NFL ma nessuno se lo fila. Johnson non si fa abbattere: si trasferisce in Canada, dove riesce a trovare un misero contratto con i Calgary Stampeders, ma anche lì le cose non vanno come sperava. Le regole, in Canada, sono leggermente diverse rispetto agli Stati Uniti e anche lui forse non ha questo grande talento. Dopo sei mesi passati nella squadra riserve, il club decide di farlo fuori. «Il mio obiettivo era giocare nella NFL», ha detto poco tempo fa Dwayne Johnson. «Pensavo che sarebbe stato il mio biglietto d’uscita. Pensavo sarei stato capace di comprare ai miei genitori la loro prima casa. Noi non abbiamo mai vissuto in una casa: io ero un trailer park kid [letteralmente: un ragazzo da parcheggio di roulotte, ndr; avete capito il senso]. E quando tutto questo non è successo, quando sono stato tagliato dalla Canadian Football League, ho pensato: è finita, il sogno è completamente finito, adesso cosa faccio?».

Illustrazione di Emiliano Mait

La risposta che si dà a questa domanda potrebbe suonare sorprendente alla luce di quanto abbiamo detto finora: il giovane Dwayne Johnson, infatti, decide in quel momento di ripercorrere le orme del padre. Quando glielo dice, però, quello sbianca: come? Rocky Johnson sta faticosamente uscendo dall’inferno e forse non ci è ancora riuscito del tutto. Sta cercando di lottare contro l’alcolismo, la depressione, le accuse terribili che lo rincorrono e che di fatto lo hanno buttato fuori dal wrestling, e probabilmente l’idea che il figlio sia alla prima tappa di questa via crucis gli riapre la terra sotto i piedi. All’inizio si oppone. Poi, davanti all’irremovibilità del figlio, si convince. Rocky Johnson, che ormai si era ritirato già da qualche anno, inizia ad allenarlo insieme al suo collega e amico Pat Patterson, che a sua volta lo consiglia a Vince McMahon, il capo della WWF.

Dwayne Johnson esordisce nella WWF al Madison Square Garden, iniziando a farsi un nome che cerca di tenere insieme la sua complicata storia familiare. Si chiamerà Rocky Maivia. Sul ring però c’è qualcosa che non funziona. Rocky Maivia è troppo giovane, troppo pulito, soprattutto per la cosiddetta “Attitude Era” che sta sorgendo sul mondo del wrestling e che sta sfumando sempre di più i confini tra face e heel, tra buoni e cattivi. Rocky Maivia è quello che i wrestler chiamano addirittura un “white meat babyface” e poi i suoi outfit sono assurdi: è rimasto celebre quello con le lunghissime fettucce blu che gli scendono dal collo e che dovrebbe ricordare al pubblico le sue origini samoane. Persino il suo carisma, la sua presenza scenica viene messa in discussione: un vecchio blog che si chiama WrestleCrap definisce quelle di Rocky Maivia “le peggiori interviste del mondo”.

Dwayne Johnson era stato convinto a interpretare questo personaggio da Vince McMahon che gli aveva chiesto di sorridere in qualsiasi situazione. «Voglio che tutti sappiano quanto sei grato», pare gli abbia detto l’ex capo della WWF, forse accusandolo implicitamente di essere un raccomandato. «Quando senti la tua canzone: tu vai sul ring e sorridi. E dopo gli incontri, quando te ne vai, prendi e sorridi». «Anche quando vengo battuto?», chiede Rocky Maivia. «Sì», risponde McMahon, «Anche se vieni battuto». Il pubblico, alla lunga, non la prende bene: inizia a cantare prima «Rocky sucks», poi a fischiarlo e ad urlare: «Die Rocky die!». “Iniziava a sembrare falso”, spiega Dwayne Johnson nella sua autobiografia (The Rock Says…, 2000) “E sapete cosa? Lo era”.

Nel 1997, quindi, dopo essere stato fuori per un infortunio, Rocky Maivia decide di svestire i vecchi panni e di intraprendere una nuova strada. Quando ritorna sul ring Rocky Maivia non c’è più e Dwayne Johnson, da heel, ricompare nella Nation of Domination, una stable di tutti atleti neri, ispirata ai Black Panther e alla Nation of Islam che polemizza persino con il pubblico e soprattutto con il pubblico bianco. Per Dwayne Johnson non ci sono più le fettucce e i riferimenti alla cultura samoana, sparita la white-meat babyface e anche il sorriso. Sul ring è stato compiuto un doppio parricidio, che va indietro di due generazioni. Rocky Maivia è morto, è nato The Rock.

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The Rock per il wrestling è un heel - un cattivo, semplificando - ma soprattutto un nuovo tipo di cattivo. Nel suo successo c’è dello zeitgeist, perché la Attitude Era sta facendo cadere i muri tra buoni e cattivi; ma anche qualcosa di nuovo, perché se è sempre più comune l’eroe che ha dei lati oscuri - un ruolo che nel wrestling di quei tempi è recitato da “Stone Cold” Steve Austin, ma che è sempre più comune anche in TV e al cinema - è molto più inusuale imboccare la strada opposta.

The Rock è enorme, muscoloso, ma non è mostruoso. I suoi muscoli sono gonfi ma levigati, la sua pelle non ha imperfezioni, la sua figura ha la stessa gommosità delle immagini prodotte dall’intelligenza artificiale. Il suo marchio di fabbrica è quel sopracciglio che si alza, alla Ancelotti, che sembra sempre suggerire che in fondo stia scherzando. Non a caso perfetto per i meme.

Il suo corpo, la sua mimica facciale, il suo carisma parlano almeno tanto quanto ciò che fa nel ring, se non di più: oggi è persino difficile ricordarsi che è stato lui il protagonista dell’incontro più cruento della storia della Attitude Era, uno dei più cruenti di tutta la storia del wrestling, quello contro Mankind alla Royal Rumble del 1999. The Rock colpisce, sparge sangue, a volte insulta il pubblico ma non lo si riesce a prendere davvero sul serio: l’ironia è sempre lì a creare un distacco.

Quando torna sulle scene, nel 2024, per andare faccia a faccia con il “cugino” Roman Reigns il confronto è impressionante. I due sono entrambi di origine samoana, sono quasi parenti, tecnicamente fanno lo stesso mestiere, ma è come vedere il giorno e la notte. Roman Reigns è il meme dell’uomo gigachad; ha lo sguardo torvo, la sua voce è un ruggito. The Rock, di fronte, sembra una skin di Fortnite. Ha una surreale camicia avorio con dei dipinti del Rinascimento sopra, gli occhiali da sole e sotto degli occhi che sorridono. È Mago Merlino appena tornato da Honolulu ma dopo aver passato sei mesi a ingozzarsi di testosterone e anabolizzanti. Roman Reigns sembra l’adolescente che cova rancore dentro la felpa nera, The Rock il padre che quando lo va a riprendere a scuola cerca di flirtare con la maestra.

Tutto questo, però, mantenendo la gravità del cattivo, la capacità di creare attesa, di fare silenzio. Come fa? Le due cose in lui sembrano naturalmente mescolate. Semplicemente: bad guys are more fun, come ha scritto nella sua biografia. I cattivi sono più divertenti.

Da una parte quindi il wrestler spietato, che frusta Cody Rhodes con la sua stessa cintura, che ci spalma il suo sangue sopra, che gli tira i capelli. Dall’altra l’uomo-spettacolo che si inventa canzoni sul palco, che conia parole ridicole (jabroni!), che trolla chi lo considera un montato facendo finta di rispondere al suo agente durante le interviste. Ho detto da una parte e dall’altra ma in realtà queste due cose convivono e non corrono in parallelo: insieme fanno The Rock - un uomo che nel ring fa cose terribili, che fuori dice parole irripetibili - ma che contemporaneamente riesce a strapparti una risata, che sotto sotto ispira fiducia. Il mondo è violento, ma andrà tutto bene. Poteva non finire al cinema?

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The Rock capisce che vuole recitare nel 2000, sul set de La Mummia - Il ritorno. Forse lo poteva capire anche prima di quel momento, dato che aveva già collaborato con la televisione per il Saturday Night Live e anche nel ring sembrava più interessato a inventarsi canzoni e a coniare insulti che a prendere a pugni i propri avversari. Come ha notato WrestleTalk, tra i wrestler dei main event della Attitude Era era uno di quelli con la percentuale peggiore di vittorie e il motivo è che fuori dal ring cercava di avere un buon rapporto con tutti. «Ha sempre fatto quello che gli veniva detto di fare e questo è il motivo per cui andavamo così d’accordo», ha detto Kurt Angle, che vincendo da rookie contro The Rock si trasformò in campione WWF proprio nel 2000.

The Rock viene toccato dalle divinità del cinema nel deserto del Sahara, febbricitante per un’intossicazione alimentare e con i brividi di freddo nonostante un caldo infernale. Succede quando il regista grida «Azione!» e le comparse si iniziano a muovere intorno: in quel momento, dice lui, viene «morso dall’insetto della recitazione».

Anche questa volta siamo di fronte a una storia lunga e intricata, che comincia e finisce (per ora, si intende) con due film in cui ironicamente è quasi irriconoscibile: La Mummia - Il ritorno, il cui combattimento finale è preso spesso ad esempio come uno degli utilizzi più goffi della computer grafica nella storia del cinema; e The Smashing Machine, in cui per interpretare Mark Kerr ha messo su ancora più muscoli e alcune protesi facciali («Ti dirò una cosa che credo nessuno ti abbia mai detto in vita tua: ho bisogno che diventi più grosso», gli ha detto il regista Benny Safdie). In mezzo a questo alfa e questo omega c’è un momento di svolta: la partecipazione a Fast&Furious 5 e quindi l’incontro con Vin Diesel.

I due si ritrovano all’incrocio tra due strade che sembrano destinate al fallimento. La carriera da attore di The Rock, che fino a quel momento sembrava dover rimanere intrappolato nel cliché del wrestler preso poco sul serio da Hollywood (parliamo di film d’azione dozzinali come Doom, o commedie frivole come L’acchiappadenti). E la saga di Fast&Furious, uno dei tanti, surreali progetti di Vin Diesel che però, arrivata al terzo capitolo, era stata ormai abbandonata da quasi tutto il cast e sembrava aver imboccato un vicolo cieco. Fast Five sarebbe stato l’ultimo tentativo di The Rock col mondo del cinema e poi sarebbe tornato da dov’era venuto: in effetti, aveva già deciso di tornare a WrestleMania 27 nel 2011.

I due si ritrovano così in questo deserto depressivo e, guardandosi, si scoprono quasi identici. Vin Diesel è arrivato alla stessa consapevolezza di The Rock ma partendo da un punto completamente diverso, impensabile. È partito con l’idea di diventare un rapper, ha provato a duettare con il musicista Arthur Russell e poi è stato fulminato sulla via di Damasco da un’illustrazione del celebre “coatto sintetico” creato da Tanino Liberatore: Ranxerox, di cui da quel giorno diventa l’alter ego in carne ed ossa, ma senza la carica distonica da racconto di Philip Dick e con uno sguardo da golden retriever che ti parla di buoni sentimenti.

The Rock - l’agente della FBI, Luke Hobbs, dentro Fast & Furious - e Vin Diesel - Dominic Toretto - sono lo yin e lo yang della stessa idea: prendere i riferimenti estetici dei cattivi e dei reietti nella cultura contemporanea, svuotarli della loro carica conflittuale e minacciosa, e riempirli di buoni sentimenti e tonnellate di muscoli. La ricetta è un successo: Fast Five incassa oltre 600 milioni di dollari a livello globale (più di tutti i primi tre capitoli messi insieme) e l’inclusione di The Rock trasforma la saga nel franchise mastodontico che è oggi.

I due sono talmente perfetti l’uno per l’altro che inevitabilmente finiscono per detestarsi, o almeno questo è quello che provano a farci credere. Dopo aver fatto quasi 3,4 miliardi di dollari insieme con Fast&Furious 6, 7 e 8, The Rock usa i social network per prendersela direttamente con quello che teoricamente è il suo datore di lavoro. Vin Diesel, infatti, dalla fissa per Dungeons&Dragons ha tratto un insegnamento che, nei tempi dei cinematic universe, sta diventando ogni giorno più prezioso: chi ha il vero potere non sono i giocatori - cioè gli attori nel mondo del cinema - ma il master - ovvero chi ha il controllo creativo sulla storia e produttivo sul set.

“Le mie colleghe sono fantastiche e le adoro. I miei colleghi maschi, invece, sono un’altra storia”, scrive The Rock su un post che di lì a poco avrebbe cancellato “Alcuni si comportano da veri uomini e professionisti, mentre altri no. Quest’ultimi comunque sono troppo inetti per farci qualcosa”. E poi piazza lì un insulto intraducibile, che aveva già coniato sul ring: candy ass.

Una settimana dopo l’uscita di Fast&Furious 8 iniziano a uscire delle voci secondo cui The Rock si starebbe organizzando per girare uno spin-off della saga escludendo tutto il resto di quella che Vin Diesel chiamerebbe “famiglia”, cioè il cast del film. The Rock, insomma, diventa un heel nella vita reale e come un heel raduna un gruppo di suoi compagni (una stable si direbbe nel wrestling) per combattere contro il campione. La metafora sfuma nel letterale anche in questo caso perché in questa stable che compone il cast di quello che poi diventerà Hobbs & Shaw, oltre a Jason Statham e Idris Elba, c’è anche Joe Anoa’i, cioè Roman Reigns - quel Roman Reigns pronipote di Peter Maivia e quindi cugino di The Rock.

Ne nascono anni di discussioni e ripicche. I post di Tyrese Gibson che lo accusa pubblicamente di essere un egoista; le indiscrezioni sugli assurdi contratti che regolamentano l’esatto numero di pugni che si sarebbero dovuti dare l’un l’altro sul set; la decisione da parte di Vin Diesel di assumere al suo posto John Cena, con cui The Rock aveva avuto già una lunga faida sul ring. È il wrestling che ha contaminato la realtà o il contrario? In sostanza: quello che stiamo vedendo è reale o anche questo è uno spettacolo - un promo, si direbbe nel wrestling - fatta solo per promuovere i film?

Nel 2023 The Rock riappare in un cammeo alla fine di Fast X, il decimo capitolo della saga, e rientra nella grande famiglia di Vin Diesel. Se il primo è tesi e il secondo antitesi, la sintesi che ne esce è Seven Bucks: l’azienda di produzione cinematografica fondata nel 2012 (quindi un anno dopo la prima partecipazione alla saga di Fast&Furious) con cui intorno agli anni 20 del 2000 The Rock diventa l’attore più pagato al mondo. Da qui arrivano i reboot di Jumanji e di Baywatch, da qui arriverà il live-action di Oceania, uno dei film Disney di maggiore successo degli ultimi anni. Al suo interno The Rock interpreterà il ruolo del semidio polinesiano Maui, che si basa sulla personalità e sulle fattezze di suo nonno: Peter Maivia.

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The Rock riappare sui ring della WWE all’inizio del 2024. È vero: c’era stato un primo ritorno tra il 2011 e il 2013 (quello della faida con John Cena) e qualche fugace apparizione qui e lì, ma di fatto sono passati vent’anni dal periodo in cui faceva il wrestler a tempo pieno. A pensarci oggi è stato un periodo incredibilmente breve per un personaggio che secondo molti dovrebbe essere inserito nel Monte Rushmore del wrestling, se a qualcuno mai venisse in mente di fare una cosa delirante come questa. Parliamo di sette anni scarsi: praticamente niente per diventare una leggenda.

È passata una vita, insomma: il wrestling nel frattempo è cambiato, ma The Rock si comporta da padrone di casa. Nemmeno il tempo di arrivare e ha già sfidato l’Undisputed WWE Universal Champion, suo cugino Roman Reigns, con cui di mezzo c’è anche una disputa familiare su chi sia davvero il capofamiglia di tutto il grande albero genealogico samoano del wrestling. Il problema è che Roman Reigns era già promesso sposo a Cody Rhodes, “The American Nightmare”, e il pubblico (da casa) non la prende bene. The Rock, sensibile ai fischi fin da quando lo avevano costretto a sopprimere la gimmick di Rocky Maivia, allora cambia la storia. Riconosce la potestà familiare di Roman Reigns ma in cambio gli chiede (o meglio: lo obbliga) a fare squadra per combattere insieme. Insieme i due wrestler samoani vincono ma non è finita, perché nel frattempo è spuntata fuori una nuova storia da intrecciare. È quella del ritiro di John Cena, con cui aveva avuto una faida sia fuori che dentro al ring (c’è ancora differenza?), e che lascerà il wrestling alla fine del 2025. Come forse saprete, prima di questo momento storico la WWE ne ha deciso di piazzare un altro, e cioè il turn heel di Cena, che era stato face per tutta la sua carriera. Quello che potreste esservi persi, invece, è che questa sua sorprendente transizione passa per la sottomissione a The Rock dentro al ring, dove tradisce a sorpresa Cody Rhodes per schierarsi dalla sua parte.

Ormai il muro che divide il ring da ciò che c’è fuori, però, è stato abbattuto. The Rock, infatti, non è tornato nella WWE da giocatore ma da master. In altre parole: alla fine del 2023 è riuscito a sfruttare la fusione tra la compagnia di Vince McMahon, nel frattempo uscito di scena per una serie di scandali sessuali, e la principale promotion di MMA, la UFC, entrando nel board della nuova mega-compagnia che ne nasce, la TKO. C’entra l’amicizia con il suo amministratore delegato, Ari Emanuel, e molte altre cose che non possiamo sapere: in ogni caso The Rock con questa mossa si prende circa 30 milioni di dollari di azioni di questa nuova azienda e soprattutto assume un ruolo creativo centrale dentro la WWE. Da questo punto di vista la sottomissione di John Cena che abbiamo visto nella WWE Elimination Chamber è di fatto una rappresentazione teatrale di quella che è avvenuta davvero. “The Rock ha usato la sua posizione dentro l’azienda e il suo personaggio sullo schermo per fare cose che non sarebbero permesse a nessun altro wrestler”, ha spiegato il giornalista Oli Davis di WrestleTalk. “Quella di The Rock è una posizione politica unica in cui è in controllo sia dentro che fuori dallo schermo, che poi è la ragione per cui può fare letteralmente ciò che vuole”.

Illustrazione di Emiliano Mait

“L’aver raggiunto la vetta di Hollywood ha cambiato il modo in cui si muove dietro le quinte: di fatto è diventato un politico”.

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Nel 2021 la Seven Bucks ha prodotto una serie TV con The Rock, su The Rock. È una specie di documentario di finzione su una sua immaginaria e immaginata campagna elettorale per diventare presidente degli Stati Uniti nel 2032, e al tempo stesso la ricostruzione romanzata della sua infanzia. La serie, infatti, si chiama Young Rock. Il pretesto, per uno che ha più volte fatto capire che è interessato davvero all’idea di candidarsi, è geniale: la serie mette in scena una serie di interviste realizzate durante la campagna elettorale a The Rock, che racconta la sua vita per convincere gli elettori a votarlo.

In uno dei primi episodi c’è una scena in cui tutti i grandi wrestler della generazione di Rocky Johnson sono nel salotto di Lia Maivia, alle Hawaii. C’è l’iraniano “The Iron Sheik”, che prima di diventare un wrestler era stato la guardia del corpo personale dello scià di Persia, e i “Wild Samoans”. C’è persino André The Giant. Sono tutti insieme intorno al tavolo e sembrano, ovviamente, una grande famiglia, mentre il piccolo Dwayne Johnson si disegna insieme a loro su un foglio, come se quella famiglia fosse davvero la sua. Tutti questi grandi wrestler del passato parlano di wrestling, delle promotion concorrenti, finché Dwayne Johnson non li interrompe dicendo quasi soprappensiero: «Ma tanto è tutto finto, no?». Scende il silenzio. «Non si dice la parola con la F», dice qualcuno, mentre André The Giant si alza, i suoi passi che fanno il rumore dei giganti nei film, prende il bambino, lo alza fino al soffitto e gli dice: «A te questo sembra finto?».

Nella serie questa ossessione dei vecchi wrestler nel tenere distinti realtà e finzione, o meglio per l’importanza che la finzione sia sufficientemente convincente da emanare almeno una vibrazione della realtà (forse in primo luogo per se stessi), viene chiamata codice e la si fa passare per qualcosa di molto grave e importante, come la legge d’onore delle famiglie mafiose.

Quando si guardano gli spettacoli del tempo, però, questa gravità non si percepisce e, anzi, sembra esserci una leggerezza che oggi ci sembra aliena e che ha qualcosa di infantile. Lo stesso Rocky Johnson tra una mossa e l’altra dei suoi incontri ballava - una cosa che era perfettamente a metà tra la danza pugilistica di Muhammed Ali e lo swing - e mentre era a terra facendo finta di soffrire come un cane si girava verso il The Rock bambino e gli faceva l’occhiolino per fargli capire che era tutto apposto. “Non era come adesso”, racconta The Rock nella sua autobiografia “Allora mio padre prima di salire sul ring mi prendeva la mano, baciava mia madre, salutava il pubblico. A fare qualcosa del genere oggi si verrebbe fischiati fino alla morte. Sarebbe interpretato come un segno di debolezza”.

Negli anni ’60 e ’70 il wrestling si vedeva ancora prevalentemente dal vivo, e occupava solo piccoli trafiletti dei giornali. Vedere un energumeno come André The Giant sollevare un uomo adulto sopra la testa era davvero uno spettacolo, e immagino lo sia anche adesso. Il codice dei wrestler più che l’adesione con i propri personaggi riguardava l’autenticità dei combattimenti - più spettacolari sarebbero stati più sarebbero sembrati veri. Quando nel wrestling ci entra The Rock, alla fine degli anni ’90, c’è di fatto un’unica federazione dominante, il wrestling ha un’eco nazionale e un potere mediatico crescente. La televisione appiattisce la prospettiva che si può avere dal vivo e internet permette di seguire i propri idoli fin dentro le loro case. Il pubblico che vede lo spettacolo dal vivo è una frazione minuscola di quello che rimane dietro lo schermo. Il codice dei vecchi wrestler è ormai carta straccia. L’equazione si è invertita: più i combattimenti sarebbero stati veri e più sarebbero sembrati spettacolari.

Il problema di Rocky Maivia, lo dice lo stesso The Rock, non è il suo talento nel ring, la tecnica lottatoria, lo spettacolo che riesce a offrire durante il combattimento. Il problema è che il personaggio non lo rappresenta, che lo costringe a recitare una parte, che in sostanza non può essere se stesso. Il suo successo, non a caso, coincide con il momento in cui il suo ring name e il suo nome di battesimo sono diventati perfettamente intercambiabili. Se dico The Rock o dico Dwayne Johnson, oggi, è uguale. Sto dicendo la stessa cosa.

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