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Cosa ha voluto dirci Michael Jordan con The Last Dance
20 mag 2020
20 mag 2020
Sono passati quasi 20 anni dall’ultima volta che lo abbiamo visto in campo, eppure non si smette mai di parlare di MJ.
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Se avete visto gli ultimi quattro minuti del settimo episodio di The Last Dance, sicuramente avrete ancora negli occhi l’immagine di Michael Jordan quasi in lacrime mentre chiede una pausa dopo aver parlato dei suoi compagni e di quanto gli sia costato affrontare la pallacanestro nel modo in cui l’ha affrontata.

C’è una frase, prima ancora di quel “break” con gli occhi lucidi, che ha colpito particolarmente la mia attenzione. Quasi alla fine del suo monologo Jordan dice: «Guardate, io non ho bisogno di fare questo». Non sono perfettamente sicuro che quel “questo” sia riferito all’intero The Last Dance, al farsi intervistare, a rivivere tutta la sua carriera davanti alle telecamere, ma immagino che sia riferito a quello.

Sembra quasi che Jordan stia cercando un modo di giustificare il motivo per cui ha acconsentito solo adesso, a oltre 20 anni di distanza, a riprendere le immagini della stagione 1997-98 dei Chicago Bulls. Immagini che giacevano da quasi due decenni negli uffici di Secaucus, dove la NBA li custodiva come un segreto federale in attesa che MJ acconsentisse al loro utilizzo. Un ok che è arrivato solo nel giugno del 2016, con la casa di produzione della serie che ha rivelato come l’approvazione definitiva sia avvenuta mentre LeBron James festeggiava il titolo appena vinto rimontando da 1-3 contro i Golden State Warriors.

Fare 2+2 può risultare banale, ma è inevitabile. Dopo che gli Warriors avevano appena battuto il record di 72 vittorie dei suoi Chicago Bulls del 1996 (ritenuto pressoché intoccabile e invece sorprendentemente superato) e dopo che James aveva appena concluso un'impresa probabilmente superiore (per difficoltà, per qualità dell’avversario e perché, banalmente, rimontare da 1-3 nelle Finals non era mai stato fatto da nessuno) rispetto a quelle che MJ ha realizzato in carriera, Jordan aveva dato l’ok a utilizzare quelle immagini e a rimettersi in gioco dopo anni in cui ha parlato pochissimo di sé e ancora meno della sua carriera.

La domanda che mi sono posto dopo quel «Non ho bisogno di fare questo» e che ho continuato a farmi fino alla conclusione di The Last Dance è: perché Michael Jordan ha voluto fare uscire quelle immagini proprio adesso? Quale messaggio ha voluto mandarci? Davvero The Last Dance è arrivato solo perché la gente stava iniziando a pensare che Steph Curry o LeBron James potessero essere più forti di lui, e lui ha voluto rimettere tutti al proprio posto? Aveva paura che la gente si fosse dimenticata di lui, o che si fosse dimenticata di lui nella maniera in cui lui vuole essere ricordato?

Conoscendo quello che già conoscevamo sullo spirito competitivo di Jordan, è plausibile che sia andata in questa maniera. Da uno che letteralmente si inventava frasi che gli avversari non gli avevano mai detto pur di trovare nuove motivazioni e che se la prendeva quando perdeva al lancio delle monetine con le sue guardie del corpo, ci si può aspettare anche di peggio. La domanda però a questo punto è: l’obiettivo di The Last Dance è stato quello di raccontare i Chicago Bulls del 1997-98, come ci era stato promesso al momento del suo annuncio, o è un’opera di restaurazione dell’immagine di Michael Jordan nel momento in cui stava cominciando a perdere un po’ lo smalto di un tempo?

Eravamo partiti da qui.

La presenza soverchiante di Jordan

Se nei primi episodi la presenza dei compagni di squadra di MJ è comunque tangibile — la storia del contratto di Scottie Pippen nel secondo episodio o le pazzie di Dennis Rodman nel terzo reggono da sole senza bisogno di supporto alcuno —, dal quarto episodio in poi la serie smette di essere la storia di quella squadra e diventa quasi esclusivamente la storia di Jordan. Ogni avvenimento è mostrato attraverso il punto di vista di MJ, trasformando di fatto il documentario in un lungo memoriale. Quindi Jerry Krause non viene presentato come personaggio in sé e per sé, ma viene riletto in base a quello che Jordan pensa di lui, dando quindi un’immagine negativa del suo operato che solo parzialmente viene attenuata — forse anche per la reazione che c’è stata dopo la messa in onda dei primi episodi, soprattutto perché Krause essendo deceduto non può difendersi — dalle parole di Scottie Pippen (che lo definisce il miglior GM di sempre) e Phil Jackson (che anche in Eleven Rings ne difende l’operato) nell’ultimo episodio.

È da questo tipo di letture che si danno dei vari personaggi della serie che si capisce quanto la mano di Jordan sia ovunque (Isiah Thomas anyone?), forse in modi neanche del tutto consapevoli da parte di Hehir. Un po’ come MJ tiranneggiava sui Bulls e ogni cosa doveva passare da lui (anche se provano a farci credere che non avesse influenza sulla dirigenza o sulla proprietà), anche The Last Dance non riesce a liberarsi dall’ombra lunga stagliata dalla figura soverchiante di Jordan e ne diventa succube, smettendo di avere uno sguardo imparziale sugli eventi e si appiattisce sulla narrazione che MJ ha creato per sé nel corso degli anni, fino quasi a diventare nauseante pur di cercare di farti entrare nella sua stessa epica.

Intendiamoci, la scelta di Hehir è comprensibile e per certi versi anche difendibile: se hai a disposizione il più grande giocatore di tutti i tempi — uno che peraltro parla poco in generale e ancora meno dei suoi giorni in campo, secondo l’idea per la quale meno ti fai vedere e più acquisti valore —, cosa fai, non lo sfrutti il più possibile? Metaforicamente, non cerchi di far passare ogni pallone dalle sue mani, facendo in modo che ogni argomento trattato nella serie debba comunque avere la sua voce a commentarlo? E le parti in cui appare MJ sono ammantate da un’aura speciale, che fosse nello spogliatoio con sigaro e mazza da baseball negli anni da giocatore oppure mentre inanella meme su meme guardando spezzoni di interviste sull’iPad e scarica vetriolo sopra i suoi vecchi avversari.

https://twitter.com/ringernba/status/1262214852849762305

Se non ci fosse stato così tanto Jordan nella serie — secondo uno studio di HoopsHype, lo “screen time” di Jordan è di 46 minuti e 30 secondi, quasi uguale a quello di tutti i compagni messi assieme — The Last Dance non avrebbe avuto il successo che ha avuto, anche se non è la serie più vista di sempre su Netflix in Italia come è stato riportato nell’ultimo periodo da alcune testate del nostro paese. Allo stesso tempo, però, la presenza di Jordan davanti e dietro le telecamere ha un prezzo, e quel prezzo è che il prodotto realizzato abbia poco o nulla dell’integrità giornalistica del documentario d’inchiesta e molto dell’abilità di Jordan nel dominare le modalità attraverso le quali la sua immagine viene offerta al pubblico.

D’altronde, come The Last Dance ci ha ulteriormente confermato, l’intera carriera di Jordan in NBA sembra essere scritta da un bravissimo sceneggiatore di Hollywood, che ha disseminato qua e là delle piccole sconfitte per rendere ancora più folgorante l’ascesa finale. Un viaggio dell’eroe così perfettamente codificato da non poter essere scalfito dalle opinioni degli altri intervistati, che si limitano ad accettare il punto di vista di MJ senza mai metterlo in dubbio. Horace Grant, uno dei compagni di MJ durante il primo three-peat ed accusato di essere la fonte di Sam Smith per il suo controverso libro The Jordan Rules, non ha preso benissimo il suo trattamento in The Last Dance, sfidando Jordan in singolar tenzone. Byron Russell e Karl Malone hanno declinato l’invito, così come anche Craig Hodges e Craig Ehlo, dimostrando che non tutti volevano partecipare in questa celebrazione di His Airness. Anche perché è stato evidente sin da subito che l’obiettivo del regista Jason Hehir non fosse certo ribaltare l’epica jordanesca, il mito fondativo dell’NBA moderna e della nostra adolescenza, ma anzi proporla ad un pubblico il più largo possibile, per il quale Jordan era solo una silhouette su una scarpa o uno dei Looney Tunes.

Allargare i confini

Senza spingersi alla definizione che gli ha dato il Guardian (“a dressed-up puff piece”, un’agiografia vestita per bene) e senza addentrarsi in un discorso troppo lungo sul fatto che un prodotto del genere abbia inevitabilmente un confine molto labile con il branded content, The Last Dance è costruito innanzitutto per essere fruito dal maggior numero di persone possibile. Questo significa che di basket si parla relativamente poco e di rivelazioni che non fossero note agli appassionati ce ne sono praticamente zero, ma in questo modo riesce ad allargare i confini degli argomenti trattati e ad “arrivare” in maniera comprensibile anche a un pubblico di non appassionati — il che è forse la cosa che fa meglio in assoluto, visto quante persone che non sanno niente di basket sono riuscite ad appassionarsi alle vicende di quella squadra.

Molto c’entra anche il modo in cui è stata costruita la serie. La storia comincia dai Chicago Bulls del 1998 ma viene subito allargata all’intera epopea di quella squadra attraverso l’uso dei flashback (che magari non rendono fluida la narrazione, ma permettono di capire come si è arrivati a certi eventi e l’importanza anche simbolica che aveva assunto quell’ultima stagione) per poi diventare una storia di sport nel senso più ampio possibile — con le vittorie, le sconfitte, ma anche i rapporti interpersonali tra i membri dello spogliatoio e della dirigenza. I continui rimandi al mondo delle sneakers, dello spettacolo e della musica — grazie a una colonna sonora di altissimo livello — permettono poi di espandersi fino a toccare il concetto di cambiamento culturale espresso nell’ultimo episodio da Barack Obama (un altro che senza l’intercessione di Jordan probabilmente non sarebbe stato raggiungibile per le interviste).

Insomma, The Last Dance non è un prodotto per impallinati e nemmeno vuole esserlo, ma non c’è niente di male a riguardo. Viene da chiedersi quanto abbia contribuito al successo della serie la pandemia attualmente in corso, visto da mesi ormai il mondo intero è chiuso in casa senza sport live da vedere o prodotti culturali freschi su cui concentrare le proprie attenzioni. Sarebbe interessante fare una capatina nell’universo alternativo in cui non esiste il COVID-19 per osservare se la messa in onda inizialmente prevista per la serie — ovverosia a giugno in concomitanza con le Finali NBA — avrebbe aumentato l’interesse attorno alle partite oppure se sarebbe passata in secondo piano. Oppure, in uno scenario ancora più stuzzicante, se le gesta e i meme di Michael Jordan avrebbero finito per oscurare persino una serie finale — ipotizziamo — con LeBron James contro Giannis Antetokounmpo in campo, e che conclusioni ne avrebbe tratto la NBA. Purtroppo non lo sapremo mai, ma sarebbe stato interessante scoprirlo.

La legacy di Michael Jordan

Ci sarebbero molti altri discorsi da poter affrontare su una serie che — è bene sottolinearlo — rappresenta indipendentemente da tutto un nuovo punto di riferimento per la narrazione sportiva, non fosse altro che per le dimensioni mastodontiche (dieci episodi da 50 minuti quando anche i documentari 30 for 30 si fermavano attorno alle due ore) e l’argomento trattato (probabilmente la squadra più famosa di tutti i tempi, indipendentemente dallo sport).

Quello che continua a ronzarmi in testa da giorni è però la figura di sportivo che Jordan ha voluto lasciarci con questa serie, il tipo di narrazione che ha stabilito per la sua legacy. Una parte significativa delle persone che hanno visto The Last Dance non hanno vissuto in diretta le sue partite degli anni ’90 e, con ogni probabilità, nemmeno ha mai sentito lo stimolo di andarsele a rivedere, anche se tutti al mondo sanno più o meno chi è Michael Jordan. MJ ha offerto loro uno sguardo dietro all’immagine dello sportivo invincibile degli anni ’90, ma allo stesso tempo ha deciso scientemente che cosa farci vedere e come farcelo vedere. Anche le parti teoricamente più spigolose della sua carriera — la testimonianza nel processo a Slim Bouler, i debiti nei confronti di Richard Esquinas, il mancato supporto al candidato afro-americano Harvey Gantt in North Carolina — non vengono trattate nel merito di quanto successo, ma utilizzate per alimentare la sua narrativa dell’agonista feroce e ossessionato capace di superare ogni ostacolo pur di arrivare alla vittoria. Quegli episodi di fatto servono alla sua narrazione nella stessa maniera dei Detroit Pistons o dei New York Knicks, e per certi versi rendono ancora più grande la sua aura.

Quello che mi chiedo io è se sia un’immagine giusta da tramandare ai posteri, come se tutti — se si impegnano ossessivamente su qualcosa e la rendono l’unica cosa che conta, stile Whiplash — possano convincersi di essere i Michael Jordan del proprio campo o, ancor di più, che quello sia l’unico modo in cui uno può vincere o che sia giustificabile un comportamento da bullo se si raggiunge la grandezza. Jordan con i suoi successi, i suoi record, il suo sei-su-sei-alle-Finals-con-sei-titoli-di-MVP e il suo modo di affrontare la competizione come se vincere sia — letteralmente — l’unica cosa che conta ha finito per creare, o quantomeno alimentare, una narrazione estremamente “machista” attorno allo sport. Una narrazione per cui cui chi vince ha sempre ragione — e giustifica dietro il successo tutti i suoi comportamenti, anche i peggiori — e chi arriva secondo non è semplicemente uno che non ha vinto, ma è “il primo dei perdenti”.

Non solo: nel mondo post-Michael Jordan non basta vincere, ma bisogna vincere come faceva Michael Jordan, ovvero con un atteggiamento spietato, prendendosi i tiri decisivi e accentrando su di sé le attenzioni del mondo. E chi si unisce a un’altra squadra (ogni riferimento a LeBron James e Kevin Durant è puramente voluto), chi perde all’appuntamento decisivo (Kobe Bryant ne ha perse due su sette, James sei su nove), chi vince senza essere riconosciuto come il migliore (Steph Curry non ha mai vinto l’MVP delle Finals), chi non ostenta il suo carisma e non vuole essere personaggio (Tim Duncan, Kawhi Leonard) o chi domina per un po’ ma non ha la costanza mentale di farlo tutti gli anni (Shaq?) allora è mancante di qualcosa, e quindi guai a metterlo sullo stesso piano di “His Airness”.

https://twitter.com/ESPNLosAngeles/status/1262235978090987520

Dopo la messa in onda degli ultimi due episodi, ESPN ha commissionato un sondaggio in cui su 17 domande poste, 17 volte MJ è stato trovato superiore a LeBron James.

Jordan ha creato un termine di paragone per certi versi impossibile persino per se stesso, tanto è vero che nel 1993 è arrivato a lasciare la pallacanestro — oltre che come conseguenza per la morte del padre James — anche perché non riusciva più a mantenere le aspettative che erano state create attorno al suo culto. Le stesse attenzioni spasmodiche che, di fatto, gli hanno impedito di avere una vita normale. Che MJ vivesse un’esistenza separata rispetto a quella dei suoi stessi compagni di squadra — anche a livello economico: Jordan nel suo ultimo anno ai Bulls guadagnava 33.1 milioni di dollari, 5 milioni più di tutti i compagni messi assieme — è ribadito più volte nel corso della serie, il che rendeva ancora più difficile sopportare la sua tirannia e il suo essere così tremendamente vendicativo.

Anche quel modo di rapportarsi nei confronti dei suoi compagni viene però in qualche modo “giustificato” da MJ stesso nel finale del settimo episodio e in generale dalla narrazione della serie, perché insomma alla fine Jordan ha vinto sei titoli in otto anni e quindi chi vince ha sempre ragione, anche se si comporta da stronzo ed è odiato dai suoi compagni. Ma quanto è davvero sostenibile per un’altra persona una leadership del genere? E quanto è un messaggio giusto da passare alle nuove generazioni? Quando Jordan dice «Volevo vincere e volevo che loro vincessero insieme a me» mostra un tipo di leadership che si pone a un livello superiore rispetto a chi lo circonda. Fintanto che era in campo a poter risolvere la questione da solo, questo tipo di atteggiamento ha funzionato; ma non appena ha provato a fare la stessa cosa a Washington o da dirigente a Charlotte, i risultati hanno variato tra il pessimo e il disastroso (tanto da non meritarsi neanche una menzione nella serie).

Tanti altri campioni hanno avuto momenti di tirannia più o meno velata nei confronti dei propri compagni, ma anche qui nessuno si avvicina a dove Jordan ha messo l’asticella, portando la sua intensità molto vicino, per non dire oltre, a livelli tossici e insostenibili. Tanto che anche lui, alla fine del settimo episodio, sembra arrivare alla realizzazione che comportarsi così male nei confronti degli altri e vivere tutto così ossessivamente gli sarà anche valso la gloria eterna a livello sportivo, ma gli è anche costato tanto a livello di rapporti personali durante quelli che indubbiamente sono stati gli anni più belli della sua vita.

E se l’atleta Michael Jordan ha indubbiamente vinto più di tutti, alla fine di The Last Dance possiamo dire lo stesso anche dell’uomo Michael Jordan?

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