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Il teorema del Baffo
30 nov 2015
30 nov 2015
La carriera di Mike D'Antoni. Ovvero: come rivoluzionare il gioco ed essere considerati dei perfetti perdenti.
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Nello sport, come nella vita, il confine tra audacia e spocchia è tracciato dall’ampiezza del successo. Se il contesto in cui avete deciso di misurarvi è quello della NBA, successo significa una cosa sola: vincere. E se la cifra stilistica della vostra esistenza è la sfida aperta a qualsiasi dettame o tradizione apparentemente immutabile, le critiche saranno spietate a ogni inciampo. Precorrere i tempi, scontrandosi con l’inadeguatezza del presente, è il destino di ogni visionario. E Michael Andrew D’Antoni da Mullens, West Virginia, visionario lo è stato di certo.

Avanti e indietro sull’oceano

Al momento del suo approdo nella lega, D’Antoni ha alle spalle una leggendaria carriera da giocatore dell’Olimpia. Sempre Milano, appese le scarpette rosse al chiodo, è la prima, inevitabile tappa di un percorso che lo porterà lontano, previa deviazione verso il nord-est biancoverde, inteso come Treviso. Quando il "Baffo" siede per la prima volta sulla panchina dei Denver Nuggets, dopo un anno di apprendistato trascorso ricoprendo un ruolo manageriale, è l’inizio della stagione 1998-99. Non è un’annata memorabile, dalle parti del Colorado: la squadra è un cantiere aperto e la regular season si conclude con un eloquente 28% di vittorie, molto lontano dalla zona playoff. D’Antoni perde il posto e accetta un ruolo da scout per i San Antonio Spurs. L’anno seguente diventa assistente di Mike Dunleavy ai Blazers, guadagnandosi stima e apprezzamenti. Nonostante questo, non arrivano offerte concrete e il "Baffo" torna nella marca trevigiana, dove lo accolgono a braccia aperte. Con la Benetton riconquista lo scudetto e arriva alle Final Four di Eurolega.

A Treviso lo terrebbero a qualsiasi costo, ma il richiamo dell’America è troppo forte. La leggenda narra di una cena veneziana con vista sulla laguna e di un Bryan Colangelo attento a sciorinare tutta la sua arte oratoria. Il "Baffo" decide quindi di attraversare nuovamente l’oceano. Destinazione Phoenix, ruolo: assistente di Frank Johnson. I due, D’Antoni e Johnson, non sono estranei: si sono marcati a vicenda, amandosi il giusto, in un paio di roventi Milano-Varese di fine anni ‘80. Proprio a fianco dell’ex rivale in campo, il "Baffo" finirà per trovare un trampolino di lancio ideale.

Arizona Dreamin’

La prima stagione da vice di D’Antoni ai Suns, chiusa con un positivo record di 44-38, si conclude con l’eliminazione al primo turno dei playoff per mano di San Antonio. L’incrocio con Popovich è il primo di una lunga serie che segnerà la carriera del "Baffo". Il secondo anno comincia decisamente meno bene e, dopo un avvio che vede i Suns racimolare 8 vittorie nelle prime 21 gare disputate, Johnson viene giubilato. La guida della squadra è affidata a D’Antoni e subito arrivano i primi segnali di rinnovamento.

A fare le spese della nouvelle vague, in casa Phoenix, è Stephon Marbury. Il controverso talento di Brooklyn viene spedito nella città d’origine insieme a Penny Hardaway, all’interno di una trade che sa di epurazione. Non c’è margine per raddrizzare un’annata storta e il tabellone ad aprile segna 29-53. D’Antoni però si è conquistato la fiducia della famiglia Colangelo e Bryan, che rivestirà il ruolo di GM anche dopo la cessione della franchigia al magnate Robert Sarver, sfrutta lo spazio salariale guadagnato nella trade con i Knicks per esaudire la prima, unica richiesta del "Baffo": datemi il canadese.

Il processo di d’antonizzazione

Per il "Baffo", Steve Nash rappresenta quello che Cruijff è stato per Rinus Michels nell’Ajax del calcio totale: il tedoforo deputato a portare la fiaccola della rivoluzione. Perché ogni idea o intuizione può essere valida in astratto, ma poi occorre portarla a sintesi, concretizzarla. E questa è tutta un’altra storia. Il rapporto tra i due appare simbiotico fin dall’inizio: D’Antoni detesta, genuinamente detesta doverlo togliere dal campo. Lo farebbe giocare fino alla consunzione, un po’ come faceva Peterson a Milano con lui. Sono gli assistenti a riportarlo a più miti consigli.

Il canadese chiude comunque la regular season a 35 minuti abbondanti di media, e nei playoff il minutaggio aumenterà ancora. È lui la stella polare della squadra e al suo fianco il resto del quintetto fa registrare i massimi in carriera. I Suns diventano la squadra più divertente della lega, risvegliando nel pubblico entusiasmi un po’ sopiti dalle ultime, monocordi annate contrassegnate dal ritmo basso e dalla preponderante mentalità difensiva dei primi anni 2000. Nel decalogo del "Baffo", invece, esiste un solo precetto: correre. E se non funziona, correre ancora più veloci, con quintetti ancora più bassi, per prendersi ancora più tiri (meglio se da tre, ancor meglio se dagli angoli). La stagione regolare è uno show senza sosta: il nuovo stile di gioco proposto da D’Antoni incanta gli appassionati e comincia a incrinare le certezze della concorrenza.

Soprattutto perché i risultati sono strabilianti almeno quanto il gioco: i Suns passano dalle 29 vittorie dell’anno precedente alle 62 che valgono il primo, clamoroso posto nella griglia della Western Conference. Nash vince il premio di MVP, D’Antoni si aggiudica il titolo di miglior allenatore e Colangelo quello per il dirigente dell’anno. Nel breve volgere di una stagione, Shawn Marion e Amar’e Stoudamire divengono i pilastri della squadra con il miglior record della lega. Alla vigilia dei playoff il vento soffia forte nelle vele dei Suns.

Il primo turno è poco più di una formalità. A eccezione di una gara-2 combattuta, la serie con Memphis non esiste. Nella semifinale di conference si materializza l’incrocio con Dallas: la serie è combattuta, il vantaggio del fattore campo va e viene e, in un finale di quelli epici, Nash guida i suoi alla quarta e decisiva vittoria. Dopo un tempo supplementare, lo score del canadese dice 39 punti e 12 assist, il tabellone 130-126 per i ragazzi di D’Antoni. L’ultimo ostacolo nel percorso verso le Finals è rappresentato dal monolite nero-argento. Quella con gli Spurs sembra una combinazione quasi ovvia, e forse è meno casuale di quanto possa apparire. In fondo, negli ultimi 15 anni, chiunque sia arrivato a giocarsi il titolo partendo da ovest è dovuto passare dall’Alamo. I Suns ci provano in ogni modo: le singole partite vengono decise da scarti ridotti, ma al fischio finale il pendolo pende sempre verso il Texas. L’unica vittoria di Nash e compagni arriva nella gara della disperazione, sotto 0-3, e non basta a fermare gli Spurs, lanciati verso la conquista del terzo anello.

A Phoenix la delusione è palpabile. Tutti, scettici compresi, avevano cominciato a crederci. Ma c’è anche ottimismo, perché la squadra è giovane e con ampi margini di miglioramento. La rivoluzione è appena iniziata.

L’atmosfera all’interno di quei Phoenix Suns.

Provaci ancora, Mike!

La prima, strepitosa stagione consente a D’Antoni di allargare la propria sfera d’influenza all’interno della franchigia. Intanto assume il fratello maggiore Dan, che da trent’anni esatti guida i Braves della Socastee High School, ma il meglio di sé il "Baffo" lo da quando si tratta di mettere mano alla squadra. Il sodalizio con Colangelo è robusto, anche se nel frattempo la proprietà dei Suns è passata di mano a Robert Sarver, e i risultati ottenuti nella stagione precedente concedono a coach e GM ampia libertà d’azione, prerogativa di cui i due approfittano con spregiudicatezza: D’Antoni avvalla la cessione di Joe Johnson, talento cristallino che avanza esorbitanti pretese contrattuali. In cambio, da Atlanta, arriva Boris Diaw. Reduce da due stagioni ai margini delle rotazioni, è considerato da molti un talento interessante, ma che ha il difetto di non poter essere inquadrato in un ruolo preciso.

È proprio quello che cerca D’Antoni: un altro interprete per la sua idea di pallacanestro. L’accoglienza per il franco-senegalese è piuttosto fredda: Alvan Adams, leggenda in maglia Suns e all’epoca arena manager per la franchigia, accoglie la notizia della trade chiedendo: «Chi cazzo è il russo?». Diaw ci metterà poco a convertire gli scettici, finendo addirittura per aggiudicarsi il premio di giocatore più migliorato della stagione.

La stampa specializzata e quella locale non reagiscono come il vecchio Adams, ma faticano comunque a celare i dubbi in merito alle scelte del duo D’Antoni/Colangelo. La rivoluzione in atto non è solo tecnica, ma anche di stile. In avvio di training camp D’Antoni accetta che al seguito della squadra per l’intera stagione ci sia il giornalista di Sports Illustrated Jack McCallum. L’idea è quella di scrivere un libro sui Suns e per farlo McCallum chiede libero accesso ovunque: allenamenti, trasferte, riunioni dello staff tecnico, spogliatoio. È una richiesta senza precedenti nella lega ma, contro ogni previsione, D’Antoni dice sì, senza indugi. Ne uscirà Seven seconds or less, fedele testimonianza di una stagione a suo modo unica.

Non tutto fila liscio, anzi. A pochi giorni dall’avvio del training camp, il ginocchio sinistro di Stoudemire fa crack. Tempi di recupero: impronosticabili. All’inizio si vocifera di quattro, forse cinque mesi; "Stat" finirà per giocare tre partite in tutto l’anno. D’Antoni e il suo staff non lasciano trasparire lo scoramento e, onde evitare di trasformare l’infortunio in un alibi per il resto della squadra, inaugurano il mantra: “Andremo ai playoff”.

Se dal punto di vista motivazionale questo può bastare, da quello tecnico urge individuare un espediente per sopperire all’assenza del miglior lungo della squadra. Sul piano pratico, l’assenza del centro significa rinunciare ai 26 punti garantiti a ogni allacciata di scarpe l’anno precedente, all’atletismo e alla fisicità di "Stat" nel pitturato. La soluzione il "Baffo" l’ha in tasca: correremo più veloci e tireremo più da tre.

Detto, fatto. La squadra, che nella sua conformazione abituale prevede Diaw al posto di "Stat", vince comunque la Pacific Division e si piazza seconda nella Western con un record di 54-28. È forse l’anno in cui il Prototipo Cestistico D’Antoniano raggiunge livelli di ortodossia impensabili fino a poco prima. Il rispetto dei ruoli specifici è un concetto superfluo: i lunghi sostano dietro l’arco tanto quanto le guardie, ai piccoli è richiesto di andare forte a rimbalzo e a tutti è concesso, anzi richiesto, di tirare non appena liberi. I protagonisti registrano minutaggi monstre e la rotazione è stabilmente a sette uomini. Nash, sublime direttore di un’orchestra che esegue una melodia tanto affascinante quanto inedita, vince il secondo premio consecutivo di MVP.

A guastare il clima arrivano le turbolenze societarie. È l’inizio di febbraio quando Colangelo, in rotta con Sarver e attirato da una sontuosa offerta di Toronto, parte per il Canada. Il ruolo di GM viene provvisoriamente affidato al "Baffo". Nel frattempo le rotazioni, ridotte all’osso—un po’ per necessità e un po’ per convinzione tecnica—logorano l’integrità fisica della squadra. Non bastasse, nei primi due turni di playoff si va alla settima.

Sono serie epiche, caratterizzate da polemiche ambientali e arbitrali. In particolare la prima, nella quale i ragazzi di D’Antoni a un certo punto si trovano sotto 3-1 contro i Lakers. Nella prima elimination game, Raja Bell, mastino deputato alla marcatura di Bryant, accumula storie tese con il diretto avversario e viene espulso per un fallaccio sul "Black Mamba". Risultato: squalifica per la partita successiva. I Suns si trovano quindi ad affrontare gara-6 in trasferta, col rischio concreto di venire eliminati e senza il miglior difensore perimetrale. Il burrone è di quelli ripidi, difficile non farsi prendere dal panico.

Il clima durante l’ultimo allenamento prima della palla a due allo Staples Center non è dei più distesi. E qui si verifica un episodio, riportato nel libro di McCallum, che probabilmente dice molto più di mille elucubrazioni circa il temperamento del "Baffo". In campo si provano gli accoppiamenti difensivi, Barbosa gioca con la casacca dei titolari. Bell è nel secondo quintetto: quando arriva il momento di simulare uno schema d’attacco dei Lakers, D’Antoni lo guarda dritto negli occhi e ordina: «Raja, tu fai Kobe». Pochi secondi dopo, rivolto al giornalista seduto a bordocampo, rivela sornione: «Non potevo resistere». I Suns vincono la partita, avviando così la clamorosa rimonta.

Coi cugini minori, i Clippers di Dunleavy, non va molto diversamente. Un alternarsi di vittorie e sconfitte, tutte molto tirate, fino alla liberazione di gara-7. L’ostacolo successivo è rappresentato dai Mavs, riedizione della sfida andata in scena dodici mesi prima. Dallas ha il fattore campo, il primo episodio della serie si conclude in volata e sono i Suns ad avere la meglio, zittendo i 21mila accorsi all’American Airlines Center.

Dopo uno scambio di colpi, però, sono i Mavs a restituire il favore, vincendo in trasferta la decisiva gara-6 e volando in Finale. Durante tutta la serie i ragazzi del "Baffo" sembrano esausti, consumati da un’annata tanto esaltante quanto faticosa. Per prevalere, Phoenix deve correre più veloce degli altri, altrimenti non ha speranza, non a questo livello di competizione. Nel post-eliminazione si respira comunque un clima di ostentata fiducia nei propri mezzi. Il futuro sembra sorridere ai Suns, l’idea è: riportiamo "Stat" in squadra e non possiamo che vincere. La realtà si rivelerà ben più complicata.

En passant, anche i 50 punti di Nowitzki in gara-5 non hanno aiutato.

L’occasione di una vita

Eyes on the prize. Occhi puntati sull’obiettivo. È il titolo della media guide che presenta la nuova stagione dei Suns. In ogni foto c’è un primissimo piano, la sagoma dorata del Larry O’Brien Trophy riflessa nelle pupille di Nash e compagni. Non c’è margine di fraintendimento, con il ritorno di "Stat" e la squadra al completo il traguardo è uno solo: laurearsi campioni.

La stagione regolare sembra confermare le attese: Phoenix la chiude con 61 vittorie, il gioco scorre fluido e spettacolare, i Suns sono una macchina da pallacanestro. Tra dicembre e gennaio stabiliscono per due volte il record di vittorie consecutive nella storia della franchigia. Nash non riesce a vincere il terzo titolo consecutivo di MVP, dovendo cedere il passo all’amico di sempre Nowitzki, ma in compenso Barbosa si aggiudica il premio come miglior sesto uomo.

Un record di tutto rispetto non è però sufficiente per conquistare il primo posto a Ovest, privilegio dei Mavs, reduci da una stratosferica regular season da 67 vittorie. Al primo turno ci sono ancora i Lakers, ma la serie è molto meno equilibrata rispetto a un anno prima: i Suns si concedono una pausa in gara-3, chiudendo i conti nelle restanti due partite. Al passo successivo li attendono, ovviamente, gli Spurs.

Gli animi, tra i contendenti, non sono dei più distesi. La serie è molto fisica, quasi ai limiti dello splatter: gomiti alti, nasi sanguinanti, contusioni e punti di sutura. È un clima che avvantaggia gli uomini di Popovich, capaci di sbancare lo US Airways Center in gara-1. Phoenix recupera in gara-2, ma cede la prima sul campo avversario. Poi arriva gara-4, ovvero una di quelle vittorie che finiscono per rivelarsi più catastrofiche della peggiore sconfitta.

I Suns stanno dando una grande prova di maturità e, a 32 secondi dal termine, conducono 100-97, palla in mano a Nash. Il punto del due pari appare davvero vicinissimo e la frustrazione in casa Spurs è palpabile, quando Horry decide di sfogarla andando a fermare il canadese con maniere non proprio da gentiluomo. Nash viene scagliato verso il tavolo degli assistenti e sul campo si scatena il putiferio. La gazzarra che segue non incide sul risultato della partita, ma segna il resto della serie.

Anni dopo Horry commenterà quell’episodio dicendo solo: «Shit happens».

Diaw e "Stat", che in quel frangente si trovavano in panchina, sono i primi a intervenire lasciando l’area a loro concessa. Così facendo commettono un’infrazione al regolamento per cui la lega prevede margine di tolleranza pari a zero. Le immagini non lasciano scampo ai due Suns e puntuale arriva la squalifica per entrambi. Le polemiche infuriano, ma Stern è irremovibile. Dall’altra parte, Horry viene fermato per due turni e di fatto estromesso dalla serie.

Per molti esegeti del "Baffo", la successiva gara-5 è il momento cult della sua epopea ai Suns. Phoenix gioca la 92.esima partita in sette mesi utilizzando una rotazione a sei uomini e, sospinta dall’urlo rabbioso dei propri tifosi, rimane saldamente al comando della contesa. A 36 secondi dalla fine, però, Bruce Bowen infila la tripla che regala ai texani il primo vantaggio.

Gli Spurs gestiscono bene il finale di partita, portando a casa per 88-85 il punto che deciderà la serie. Pur con i due reprobi nuovamente a disposizione, i Suns non avranno la forza di ribaltare il risultato. Bell è stato in campo per 47 minuti, Nash e Marion per 46—e le energie, quando è il momento di scendere in campo all’AT & T Center, sono quelle che sono. I tres amigos in nero-argento combinano per 87 dei 114 punti complessivi segnati da San Antonio, otto in più dei Suns. Per Duncan e soci sarà il lasciapassare verso l’ennesimo titolo, per Phoenix la sconfitta più cocente dell’era D’Antoni. Una di quelle destinate a pesare sul futuro della squadra. Anche la posizione del "Baffo" vacilla, con il suo contratto in scadenza l'anno successivo.

Fine della cavalcata nel deserto

Nella cattedrale eretta sulla sabbia del Sonoran, le travi portanti mostrano le prime crepe. A inizio giugno Steve Kerr, curriculum da vincente con la maglia di Chicago e San Antonio, viene assunto come GM. Kerr è in tutto e per tutto un uomo di Sarver, avendo ricoperto un ruolo importante nel cartello di advisor che hanno gestito l’acquisto della franchigia da parte del magnate californiano. Il segnale è chiaro: la proprietà reclama voce in capitolo sulle scelte tecniche.

I Suns sembrano avviati a un'altra solida regular season. Tuttavia Kerr teme che senza operare alcun cambio la stagione sia destinata a finire come le precedenti. Poco prima della pausa per l’All-Star Game, il GM decide che è giunto il momento. Marion, pilastro della squadra e giocatore feticcio del "Baffo", prende il volo verso la Florida insieme al compagno Marcus Banks. In cambio, allo Sky Harbor International, atterra Shaquille O’Neal. Non certo al picco della sua carriera e da anni perso nella lotta per il controllo del proprio peso, Shaq rappresenta quanto di più lontano dalla filosofia di gioco d’antoniana. Davanti alle obiezioni, i sostenitori della trade replicano che “è Shaq, sa come si vincono i titoli”.

Per D’Antoni è un poderoso déjà-vu: il ricordo dell’infruttuoso innesto di Darryl Dawkins nel tessuto della sua prima Olimpia "corri e tira" è ancora vivido. Ma questa è la NBA, le regole del gioco sono spietate e lui, come ogni altro allenatore, deve adattarsi. L’entusiasmo per il cambio in corsa è misurato (anche se pubblicamente lo scambio viene avallato), tuttavia il giorno dopo la trade lo staff tecnico è già al lavoro. Si cerca un nuovo assetto per adattare la squadra senza stravolgerne l’identità, così faticosamente costruita nel corso degli anni. L’ingombro fisico, tecnico ed emotivo di Shaq non aiuta, il suo corpaccione logorato da anni di PatRileyismo a Miami ancora meno.

La stagione procede comunque senza scossoni e si chiude con un record di 55-27 che regala il quinto posto nella griglia dei playoff della Western. Ovviamente al primo turno non possono che esserci loro, gli avversari di sempre, gli Spurs. Si va in Texas e sono molti a confidare che il totem Shaq possa bastare per spezzare la maledizione nero-argento. Gara-1 però dice un’altra cosa: i Suns giocano bene, sono sempre avanti, ma vengono raggiunti allo scadere da una bomba di Finley.

Stavolta Phoenix tiene duro e sembra sul punto di farcela quando, con tre secondi rimasti sul cronometro del primo supplementare, Tim Duncan si ritrova libero dietro la linea dei tre punti. Il caraibico, non certo uno specialista del tiro dall’arco, ha persino il tempo di esitare, prima di prendersi e segnare quella che passerà alla storia come la sua prima e unica tripla della stagione, la quarta delle cinque della sua intera carriera ai playoff.

Nel secondo supplementare ci penserà Ginobili a spostare gli equilibri, regalando ai padroni di casa la vittoria. Per Phoenix è una sberla tremenda, la beffa di un destino che sembra davvero segnato. Il resto della serie scivola via senza mai essere in discussione. Sotto 0-3, i Suns riescono a vincere gara-4 in trasferta, ma è un fuoco fatuo. Nella partita successiva Popovich rispolvera l' "hack-a-Shaq", luciferina arma tattica sperimentata a inizio anni 2000. Il centro dei Suns chiude con 9 su 20 dalla lunetta, dimostrandosi impotente di fronte alla superiorità dei texani. San Antonio porta a casa un’altra vittoria, anche se questa volta non sarà propedeutica alla conquista del titolo.

Per D’Antoni è la terza sconfitta contro Popovich, la quarta contando quella maturata come assistente. Qualche giorno dopo l’eliminazione, all’interno dei consueti colloqui di fine stagione, Kerr gli concede l’autorizzazione formale a trattare con altre squadre. Il "Baffo", forse per costrizione, magari attirato da nuove, complicate sfide, volgerà lo sguardo altrove.

Le due avventure successive si riveleranno fallimentari. D’Antoni non saprà ricreare le condizioni necessarie per realizzare la sua idea di pallacanestro. I risultati saranno deludenti, laddove non addirittura disastrosi. Una condotta eterodossa del rapporto con stampa e tifosi, in due realtà dove l’esposizione mediatica ricopre un ruolo più che mai decisivo, farà il resto.

L’esperienza a New York si concluderà con l’esonero nel marzo 2012, dopo tre stagioni e mezzo passate a inseguire il sogno LeBron prima e a tentare di gestire, tatticamente parlando, l’incubo Carmelo Anthony poi. A L.A. non finirà tanto diversamente, nonostante il subentro in corsa regali al "Baffo" l’occasione di ricongiungersi col suo discepolo Nash. A quel punto, però, la parabola del canadese sarà in fase calante e i continui problemi fisici lo costringeranno a saltare la maggior parte delle partite. D’Antoni e Nash, per l’ennesimo, curioso tiro mancino della sorte, si troveranno ad attraversare insieme il crepuscolo di una carriera per cui entrambi avevano senza dubbio immaginato un finale differente.

Un tarlo di famiglia

Nonostante i due passaggi a vuoto con Knicks e Lakers, la carriera da coach NBA di D’Antoni si chiude, per il momento, con il 52% di vittorie. Un dato che non ha risparmiato al "Baffo" le innumerevoli feroci critiche, spesso preconcette. Tra le più frequenti c’è l’accusa di essere un bastian contrario, uno la cui missione, più che vincere, è dimostrare la validità del sistema di gioco adottato, a prescindere dal materiale tecnico e umano a disposizione.

Forse c’è del vero in questa affermazione e per tentare di capire la peculiarità della filosofia d’antoniana occorre scavare ancora più a fondo. È necessario far scorrere all’indietro le lancette dell’orologio e tornare alla metà degli anni ‘50, quando sulla panchina della Mullens High School c’è un altro D’Antoni, Luigi Giuseppe detto Lewis. Classe 1914, terzogenito di Andrea D’Antoni, nato a Nocera Umbra e sbarcato mezzo secolo prima a Ellis Island. Lewis è nato in West Virginia, terra di minatori, e cresce con un pallone sempre tra le mani, diventando prima giocatore e poi allenatore della squadra di casa. Nel 1955 vince il titolo statale e quello di allenatore dell’anno, esattamente cinquant’anni prima che il suo secondo figlio porti a casa quello di miglior coach della NBA.

Mullens gioca una pallacanestro davvero inconsueta per l’epoca, corre veloce e va in contropiede appena ne ha la possibilità. «Il concetto era arrivare nel quarto di campo avversario prima che lo facesse la difesa», dichiarerà mezzo secolo più tardi il 90enne Lewis. È davvero difficile non intravedere in quel sistema così fuori dai tempi il seme che poi germoglierà tra le mani del figlio Mike, coadiuvato dal fratello in un inesorabile cerchio domestico.

È ipotizzabile quindi che il "Baffo", una volta assunto il ruolo d’allenatore, abbia semplicemente fatto suo un concetto di pallacanestro trasmesso geneticamente. Correre e tirare, quasi un tarlo di famiglia. Ammesso che sia questo il vero nocciolo della filosofia di D’Antoni. Perché andando oltre le mere cifre e gli stereotipi, emerge un approccio che forse la caratterizza più dei celeberrimi “7 seconds or less” e ne spiega, almeno in parte, i fallimenti a New York e Los Angeles. Alla base della concezione del "Baffo" non c’è tanto il contropiede, il quintetto piccolo o il tiro da tre, quanto la fiducia totale nei suoi uomini.

Gli allenamenti sono intensi, ma brevi, l’obiettivo è evitare di annoiare i suoi. «Cerco di applicare quello che pensavo avesse senso quando ero un giocatore», ha sempre ammesso D’Antoni con tutto il candore tipico del personaggio. L’allenatore deve conoscere ogni dettaglio dell’avversario, preparare minuziosamente le partite e al contempo lasciare che i giocatori scendano sul parquet con la testa sgombra da troppe indicazioni.

Il "Baffo" ha riscosso i suoi migliori successi laddove si è trovato di fronte campioni in grado di capitalizzare su questo credito illimitato. Che si chiamassero Nash o Pittis, Djordjevic o Marion, conta relativamente. Il contraltare è che dove D’Antoni non ha trovato questa sintonia, dove non ha riscontrato nei protagonisti in campo quell’attaccamento al gioco per lui irrinunciabile, non è riuscito a stabilire una connessione. E se D’Antoni ha dimostrato di avere un difetto, è proprio questo: l’incapacità di sopportare e stimolare i giocatori che non danno tutto. L’amore viscerale per il gioco gli ha consentito di costruire una visione di pallacanestro così innovativa, ma ha anche rappresentato il suo limite insuperato.

In una rivoluzione, come in un romanzo, la parte più difficile da inventare è il finale

Lo scriveva Alexis de Tocqueville, personaggio per coordinate spazio-temporali piuttosto lontano dal Baffo, quasi due secoli fa. Eppure sembra una considerazione del tutto applicabile alla parabola di D’Antoni. Il finale, ovvero vincere, non è ancora riuscito a scriverlo. Nel frattempo, però, sono successe alcune cose.

Nel 2005, durante le sette gare che assegnano il titolo, si va sopra i cento punti solo una volta, e di poco. Quella tra Detroit e San Antonio è una battaglia fisica e tattica, esteticamente rivedibile. Il grande pubblico, quello che ingrossa le tasche della lega, gradisce il giusto. Dieci anni più tardi il titolo lo vince Golden State e, per un curioso scherzo del destino, in panca c’è Steve Kerr. Appena salito sul pino dei Warriors, Kerr—che ha vinto 5 titoli con il triangolo di Tex Winter a Chicago e l’attacco a metà campo degli Spurs—decide di ingaggiare come assistente Alvin Gentry, storico sodale del "Baffo" ai Suns. La scelta parla chiaro su quale sistema offensivo Kerr, uomo di rara concretezza, reputi il più efficace nella pallacanestro contemporanea.

Di fatto i Warriors praticano una sorta di versione 3.0 del corri e tira d’antoniano. Barbosa, al suo arrivo in California, confessa candidamente di riconoscere ogni set offensivo perché molto simile a quanto utilizzato ai tempi di Phoenix. Golden State dà vita a una delle annate più spettacolari di sempre, nei numeri e nella qualità del gioco proposto.

Il trionfo nelle Finals, con Draymond Green da centro e due ali come Andre Iguodala e Harrison Barnes, è un sogno bagnato per il "Baffo" e i suoi seguaci. E anche negli anni precedenti a Miami con Bosh e Battier si era visto qualcosa del genere, oppure a San Antonio con Boris Diaw a far girare la testa a tutti quanti. Già, proprio loro, gli acerrimi nemici di una vita, portatori di verbo cestistico antitetico a quello del "Baffo", che vincono il titolo NBA grazie anche a uno degli esperimenti più riusciti di D’Antoni. Anche Popovich col tempo ha dovuto modificare il codice genetico della propria squadra, adattandolo all’evoluzione del gioco pur di tornare a vincere.

Se dieci anni prima un leitmotiv comune a tutta l’NBA recitava che “non si può vincere con quel tipo di pallacanestro”, ora l’argomentazione viene usata in modo diametralmente opposto. Sono le squadre con una strutturazione classica (ieri Indiana, oggi Memphis e Chicago) a cui viene affibbiata la stessa pregiudizievole. E l’inversione è ancora più evidente nei numeri, che non mentono mai. Secondo Basketball-Reference, nel 2004-05 Phoenix viaggiava a 98,62 possessi a partita, cinque in più della media della lega (93,57). Giocassero oggi, quei Suns, si classificherebbero sesti nella medesima categoria, ben distanti dai primi della pista, nonché campioni, Golden State Warriors.

E quanto al tiro da tre, i Suns della stagione 2004-05 avevano una media di 24.7 tentativi a partita, quasi nove in più della media della lega (15.8). Oggi, con la stessa media, sarebbero tredicesimi, appena sopra la media della lega (22,4) e ben lontani dagli Houston Rockets (32,7) e, ancora una volta da Golden State (27,2).

Risulta quasi automatico tradurre queste eloquenti statistiche in una sorta di rivincita d’antoniana. Sono in molti a pensarlo, anche tra gli addetti ai lavori. Interpellato sul punto, il "Baffo", dal suo buen retiro di Greenbrier, si è limitato a dichiarare sardonicamente di apprezzare molto lo stile di gioco di Golden State.

Nonostante le voci di ritorno in panchina, la stagione appena iniziata è però la seconda consecutiva senza di lui. Eppure c’è molto di D’Antoni nella pallacanestro proposta dalle migliori squadre della lega, e moltissimo negli attuali campioni. A confermarlo è arrivato l’ingaggio di Nash come consulente per lo sviluppo dei giocatori. Dopo l’abbandono di Gentry, volato a New Orleans, Kerr e il suo staff non hanno avuto dubbi.

Vedere Nash dispiegare la propria scienza cestistica a favore di Curry e Thompson appare come la logica chiusura del cerchio. Forse il finale della rivoluzione è proprio questo.

Oppure no, oppure il "Baffo" prima o poi tornerà. Al momento è impossibile ipotizzare dove, quello che sappiamo con certezza è che quando lancerà la palla ai suoi giocatori, il motto sarà sempre lo stesso: corri e tira. Solo che stavolta non dovrà convincere nessuno o dilungarsi in lunghe spiegazioni, perché adesso si gioca come dice lui.

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