Michal Lewandowski sistema la palla per un calcio di punizione sulla propria trequarti. Non mette nessuna cura per sistemarla e la sua rincorsa è lenta e scazzata. Lewandowski gioca nel Messina ed è in Italia da quando, nel 2014, si è trasferito al Crotone dallo Stal Mielec, squadra polacca in cui ha esordito a un’età troppo giovane per un portiere. Il prato del San Filippo-Franco Scoglio è logorato per tutto il corridoio centrale, da una porta all’altra il verde si spezza in macchie marroni, rosse, nere. L’estetica classica di un campo di provincia. Lewandowski calcia la palla in avanti, molto avanti, ma soprattutto molto in alto. Questa palla sparisce dall’inquadratura sgranata; il cameraman la segue intuitivamente. Quando ricompare, rimbalza, dentro l’area di rigore. È un rinvio lunghissimo, strambo e così alto che forse in molti in campo hanno perso di vista la traiettoria. Un difensore allarga la braccia come per indicare che è tutto sotto controllo, un portiere fa un passo incauto davanti a sé, e non si accorge che il rimbalzo di un pallone così appesantito dalla gravità è molto più profondo di quanto si aspetta.
L’account twitter del Messina scrive: «Non abbiamo la grafica perché ha segnato il nostro portiere Lewandowski» aggiungendo una quantità notevole di punti esclamativi. Il fatto contiene una duplice ironia: un gol del portiere grottesco, e il fatto che a segnarlo sia stato un portiere di nome Lewandowski, che ha quindi lo stesso nome di uno dei numeri nove più prolifici di sempre. Come dicevano gli antichi: “nomen omen” per indicare l’idea che il nome è un presagio, indica un futuro, un destino. Un portiere di nome Lewandowski riuscirà a segnare anche senza volerlo solo perché quel gol è contenuto nel suo nome.
Non è certo stato il primo gol di un portiere della storia nella sua categoria specifica: non gol segnati da portieri salendo su calcio d’angolo, non gol segnati da portieri su punizione, ma gol che nascono da rinvii che diventano ingestibili come una di quelle palline che vendevano in edicola e che in gergo si chiamano “palline matte”.
Questo video è pieno di gol nati da questa clamorosa espressione del caso.
Non ce n’è nemmeno uno non casuale, ma il modo diabolico con cui i rimbalzi si infilano in porta fanno pensare a un arte che potrebbe essere persino coltivata. Come spiega questo articolo: «Quando la palla è rilanciata incontra due forze: quella di gravità, che la spinge in basso, e la resistenza dell’aria (considerata un fluido), che agisce in direzione opposta al rilancio, rallentando la sua corsa». Guardatequesto gol; siamo su un bellissimo campo inglese con gli spalti vicini e gli alberi rinsecchiti dell’inverno. Il portiere rilancia la palla altissima, e durante i metri che deve percorrere scendendo in basso acquisisce sempre maggiore velocità. Il terreno è bagnato, l’erba assente in alcuni punti, e quando tocca terra schizza verso la porta infilandosi quasi precisamente all’incrocio dei pali. È un gol sensazionale non perché il portiere ci abbia davvero tirato (perché non è così), ma perché il portiere avversario in realtà non era così fuori dalla porta. Quell’irripetibile incrocio di fattori che hanno creato quel rinvio, ha reso la traiettoria praticamente imparabile.
In questo tipo di conclusioni il calcio somiglia per certi versi al tennis, e cioè a uno sport agito da un fisica complessa. David Foster Wallacenel suo saggioTennis, tv, trigonometria raccontava di essere arrivato ai confini dell’eccellenza tennistica non grazie a un talento convenzionale, tecnico o atletico, ma per «una strana predisposizione alla matematica intuitiva». Secondo Wallace il tennis richiede pensiero geometrico: «L’abilità di calcolare non soltanto i tuoi angoli, ma gli angoli di risposta ai tuoi angoli. Il tennis sta all’artiglieria come il football sta alla fanteria». Una pallina da tennis tocca la racchetta per una frazione di tempo limitata, e per il resto viaggia in aria, rimbalza in terra, e assume velocità, direzione ed effetto condizionati non solo dal nostro colpo ma anche dalla fisica delle condizioni di gioco in quel preciso momento - tipo di superficie, pesantezza della pallina, freddo, caldo, livello d’umidità e, naturalmente, vento. È per il suo talento nel calcolare intuitivamente l’influenza del vento sui colpi che Wallace si considerava un talento. Naturalmente si tratta di auto-fiction, e il tennis somiglia poco al calcio, ma era per dire che certi rinvii dei portieri che si infilano in porta somigliano al risultato di questa sequenza intricata di calcoli intuitivi sulle variabili fisiche.
Quello di Lewandowski non è però stato l’unico gol di un portiere del weekend, e non è stato nemmeno il più bello.
Domenica sera Samuel Soares, portiere del Benfica B, in una serena partita di Segunda Liga, invece di rinviare tira. È sulla propria trequarti, nessuno lo va a contrastare, alza la testa e vede il portiere avversario leggermente fuori. Così si dice di solito, ma a dire il vero stavolta il portiere della Trofense non era nemmeno così fuori dai pali. Parte questo rinvio che in effetti ha una fattura, una materialità diversa da un rinvio e sembra di più un tiro. Non assume però la traiettoria convenzionale di un giro ma vola verso l’alto. Non come il rinvio di prima del portiere inglese, perché è comunque un pallone teso che disegna un arco fantascientifico. È una palla veloce di per sé, non solo per la forza di gravità, e scompare dalla telecamera. Prima che possa davvero ricomparire ne sentiamo il rumore. È impressionante: il suono di un rullante, o di un guantone da boxe che colpisce forte il sacco. Il portiere, Miguel Santos, ironicamente ha un passato nel Benfica B, si accartoccia in tuffo, e ha la sfortuna di mandare la palla in porta con la schiena. Il regolamento gli assegnerà l’autogol, ma ciò che rende eccezionale questo gol di Soares è l’intenzionalità. Non si tratta di un rinvio che sgusciando fra l’imprevedibilità delle variabili fisiche del calcio entra in porta, ma di un tiro perfettamente calibrato - per quanto corrisponda a un pensiero assurdo, quello di calciare da là. Il fatto che Soares volesse segnare si nota dalla sua esultanza. Quando ai portieri capita di segnare quei “gollonzi” assumono una felicità ironica. Il gol lo ha segnato qualche forza esterna a loro di cui si sono fatti emissari transitori in quel preciso caso, si festeggia un regalo del fato. Soares invece festeggia e grida come a chi è riuscito un prodigioso gesto tecnico. Un gesto tecnico che solo la parte più pazza di lui credeva possibile. È un momento bello e poco convenzionale nel calcio. Un portiere che esulta correndo e stringendo i pugni, ma non sa bene dove correre. Non ci sono tifosi, i compagni sono anche lontani, non è vicino alla porta avversaria; è in una terra di nessuno per le esultanze, e infatti non sa bene che fare, inverte direzione di corsa come le macchinine a carica.
I gol da centrocampo non smettono di entusiasmarci, per quanto siano un gesto tecnico meno infrequente di altri (come il gol Olimpico per esempio, che richiede una fisica ancora più al limite della perfezione). Sempre negli scorsi giorni Lukas Podolski è stato autore di uno dei più bei gol da centrocampo di sempre. Ha raccolto questa palla inutile poco dietro il centrocampo, defilato sulla fascia e gli ci è voluto un attimo per accorgersi che il portiere era molto fuori dai pali. Ha tirato teso e veloce e il portiere ha cercato di fermarla con una mano correndo all’indietro come si prova ad afferrare un frisbee.
Il gol di Soares però possiede qualcosa di diverso, di veramente fuori dalla norma anche per chi come me e voi guarda quintali di gol da quando è piccolo. La sensazione, guardandolo bene, è che quella traiettoria sia imparabile. La palla è tesa, veloce e allo tempo alta e di fatto non entra mai nella disponibilità del portiere. Certo, se al posto del povero Miguel Santos ci fosse stato un portiere enorme e ridicolmente reattivo - tipo Donnarumma o Courtois - è difficile che quella palla sarebbe entrata, ma non è assurdo pensare che un gol del genere lo avrebbero preso tanti portieri professionisti - tranne quelli con un intuito tale da voltarsi e aspettare che la palla gli ritorni tra le braccia dopo aver colpito la traversa. È un tipo di traiettoria diversa per molte cose, ma anche simile per come si è fatta imprendibile a quella celebre punizione di Dimitri Payet contro il Crystal Palace.
Guardando e riguardando il gol di Soares, però, ci si accorge che qualcosa non quadra. La palla nella sua corsa sembra assumere velocità. In effetti quello che il video non restituisce è il fatto che ci fosse molto vento quella sera in campo. Soares dopo la partita ha detto: «Ho visto che il loro portiere era un poi avanti e, avendo il vento a favore, ho deciso di rischiare. È andata bene, è un qualcosa che resterà impresso nella memoria di tanti». Come Foster Wallace sui campi da tennis ventosi dell’Illinois, Soares ha fatto intuitivamente una serie di calcoli complessi: il peso del pallone, la forza da imprimergli. l’altezza da raggiungere per arcuare la curva del tiro e infine l’influenza del vento su tutto questo. Per eseguire questi calcoli ci ha messo giusto un paio di secondi, e non ci sarebbe stato niente da dire se un gesto tecnico tanto perfetto non fosse arrivato da un portiere. Ma sono i casi estremi a mostrarci ciò che di solito tendiamo a dare per scontato. Il tiro di Soares rende esplicito l’assurdo genio fisico che i calciatori professionisti esprimono su un campo da calcio, esercitando un’intelligenza complessa e inconsapevole.