
Tanto tempo fa, quando i social network ancora non avevano cannibalizzato internet, per seguire tutto quello che accadeva nel mondo del ciclismo bazzicavo alcuni forum. Era un altro mondo, appunto: una serie di persone che si scrivevano lunghi post in risposta l’uno all’altro, in discussioni organizzate per aree tematiche su siti iperspecializzati in cui era possibile incontrare - almeno virtualmente - altri appassionati disposti a perdere tempo online a parlare con sconosciuti di ciclismo.
Ricordo piuttosto nitidamente un ragazzo che correva a livello giovanile nel Nord-Est, che raccontava le sue esperienze e segnalava suoi coetanei che secondo lui avevano il potenziale per diventare grandi. Una volta ci raccontò di una gara giovanile, là dalle sue parti, a cui aveva partecipato di straforo un ragazzino sloveno sotto età che però la sua squadra giovanile stava portando in giro con i più grandi per metterlo alla prova. Il ragazzo che scriveva sul forum ci raccontò di quanto questo ragazzino sloveno fosse forte, un fenomeno, mai visto una cosa del genere. Un racconto che in poco tempo è sparito dalla mia memoria e che è ricomparso solo in questi ultimi anni per un motivo che forse avrete già immaginato: quel ragazzino era Tadej Pogacar, che all’epoca leggevamo ancora con l’accento sulla prima sillaba: Pògacar.
Chissà cosa avrebbe pensato il me stesso del tempo, se avesse saputo anche solo i successi degli ultimi anni. Il podio alla Vuelta al primo grande giro, la vittoria a sorpresa al Tour de France del 2020 conquistando la maglia gialla nell’ultima cronometro, il bis da dominatore al Tour 2021. Poi la sconfitta bruciante nel 2022 per mano di Vingegaard, la caduta alla Liegi 2023 e la crisi di Courchevel, fino al ritorno alla doppietta Giro-Tour del 2024, il titolo mondiale, la doppietta al Giro delle Fiandre, la Liegi-Bastogne-Liegi, i trionfi al Lombardia, gli assalti - falliti - alla Milano-Sanremo.
Come saprete, la storia si sta ripetendo in maniera ancora più netta al Tour de France che si sta correndo in questi giorni. Tadej Pogacar ha dato spettacolo nella prima settimana prima di piazzare la zampata del fuoriclasse nella prima tappa pirenaica con arrivo a Hautacam. Una salita giovane, con poca storia alle spalle ma molto significativa: qui Miguel Indurain sgretolò la concorrenza al Tour del 1990 mostrando al mondo di essere molto più di un semplice cronoman che si difende in salita. Bjarne Riis nel 1996 fece crollare l’impero di "Miguelon" stampando il record di scalata che ancora oggi resiste, uno dei pochi. Sempre qui, Marco Pantani sfidò per la prima volta Lance Armstrong al Tour del 2000 rimbalzando all’improvviso a metà salita e dicendo addio ai sogni di gloria. Ancora a Hautacam, Vincenzo Nibali nel 2014 mise il sigillo decisivo sul suo trionfo al Tour de France. E fu proprio qui, nel 2022, che Jonas Vingegaard - dopo aver preso la maglia gialla sulle Alpi - scrisse la parola fine sulle ambizioni di rimonta di Tadej Pogacar coronando una straordinaria prestazione della sua squadra e in particolare di Wout Van Aert.
Tre anni dopo, Tadej Pogacar ha deciso di spazzare via il passato e ribaltare completamente il racconto di questa salita. Ha voluto, con forza, distruggere ogni ricordo di quella tappa del 2022. La sua squadra ha imboccato la salita come fosse un muretto di qualche classica belga anziché un colle pirenaico; Narvaez ha dato l’ultima accelerata lasciando che alle sue spalle restassero solo Pogacar e Vingegaard prima che lo sloveno proseguisse nella sua azione staccando anche il suo più grande avversario e involandosi verso la conquista della sua ventesima vittoria di tappa al Tour de France. Un’azione sconsiderata, violenta, quasi rabbiosa, con la quale Pogacar si è avvicinato pericolosamente al record di scalata di Bjarne Riis prima di cedere qualcosa nei chilometri finali e scivolare a ventisette secondi dal tempo fatto registrare dal danese nel 1996. Una prestazione comunque mostruosa se paragonata a quella dei suoi avversari, staccati di oltre due minuti: Vingegaard è arrivato a 2’10”, alle sue spalle Florian Lipowitz a 2’23”; gli altri tutti a più di tre minuti con Remco Evenepoel settimo a 3’35”.
E se Pogacar avesse rallentato apposta nel finale di Hautacam per non battere Riis e non destare sospetti? Una prima teoria notevole.
Questi distacchi, uniti al raffronto cronometrico con quanto fatto da Bjarne Riis ormai ventinove anni fa, hanno fatto riaffiorare fra i giornalisti e i tifosi i dubbi su Tadej Pogacar - un ciclista troppo perfetto per essere vero, o almeno così pensa chi prende la scorciatoia logica del doping per spiegarsi questo tipo di prestazioni. Oggi il mondo dei forum è scomparso, ed è su X, ex Twitter, che si trovano le elucubrazioni più ardite a riguardo, con risultati paradossali: proprio perché mancano prove o fatti concreti, le teorie del complotto su questo tema sono tra le più fantasiose che io ricordi, almeno per quanto riguarda lo sport.
LE MIGLIORI TEORIE DEL COMPLOTTO SU TADEJ POGACAR
È un tema che in maniera sotterranea ha iniziato a seguire la carriera di Pogacar fin dai primi trionfi al Tour de France, quando per la prima volta stava mostrando al mondo la sua superiorità rispetto ai diretti avversari. In Francia, in particolare, dove storicamente mal sopportano i dominatori a tal punto da averne ghigliottinato più di qualcuno nel corso degli anni, alcuni giornalisti avanzarono una strana teoria supportata da argomentazioni logiche piuttosto fantasiose.
Prendendo le mosse dalle prestazioni di Pogacar, che stava avvicinandosi ai numeri che i suoi predecessori facevano negli anni Novanta, nell’epoca d’oro del doping ematico, alcuni giornalisti francesi si chiedevano come fosse possibile per un ciclista “pulito” avvicinarsi a quelle prestazioni sovrumane. Dubbi se vogliamo legittimi ma che non tengono conto, o che tagliano fuori di netto i miglioramenti tecnici e scientifici in ogni aspetto della preparazione sportiva e non solo: dall’alimentazione agli allenamenti, dai materiali delle biciclette fino alla forma delle ruote. Negli ultimi trent’anni il ciclismo è cambiato drasticamente in ogni suo aspetto con una rapida accelerata negli ultimi anni, quando la vecchia guardia ancora legata ai vecchi metodi ha lasciato spazio ai giovani più aperti alle innovazioni.
In Francia gira una teoria legata ai primi passi della carriera di Pogacar. È legata alla vittoria del Tour de l’Avenir, il Tour de France per gli Under 23, nel 2018, due anni dopo il ciclista francese David Gaudu. Più o meno alla stessa età, intorno ai 19 o 20 anni, Gaudu e Pogacar, quindi, erano "pari". In altre parole avevano entrambi vinto il Tour de l’Avenir, entrambi erano le giovani promesse da seguire per il futuro ed entrambi si approcciavano al professionismo con la più importante corsa a tappe giovanile nel palmarés. Com’è possibile, si chiede chi proprio non può accettare che le cose cambino, che Tadej Pogacar, pur essendo due anni più giovane e quindi più acerbo, al Tour del 2021 abbia dato ben 21 minuti e 50 secondi di distacco a David Gaudu? Da dove viene questa differenza? La risposta l'avrete già capita.
Che poi alcune di queste teorie sono arrivate sulla prima pagina di Le Monde.
Altre teorie sono più recenti ma non per questo meno interessanti. C’è chi va sul sicuro e paventa l’ipotesi di un classico doping ematico coperto dall’Unione Ciclistica Internazionale, ma è una teoria un po’ pigra che ricalca quanto già successo in passato con il caso Lance Armstrong e i suoi legami con gli allora vertici federali che avrebbero - secondo le accuse lanciate dallo stesso Armstrong nella famosa intervista da Oprah Winfrey - nascosto le positività del texano durante gli anni del suo regno al Tour de France. Per usare le parole di Federico Buffa, quantità di fantasia utilizzata: poca.
Un’altra teoria che ha preso vigore in questa stagione prende le mosse dal nuovo stile in bicicletta di Tadej Pogacar. Lo sloveno si è presentato in questo 2025 con un’accelerazione meno marcata, meno impattante nello scatto secco; preferisce ora invece cambiare passo aumentando l’andatura in progressione, rimanendo in accelerazione quasi sempre seduto sul sellino in modo da protrarre più a lungo i suoi attacchi. Questo suo modo di attaccare seduto ha fatto tornare in auge la vecchia teoria sui motorini nascosti nei telai delle biciclette che si azionerebbero con una levetta posta accanto a quella del cambio nella parte anteriore destra del manubrio. Una tesi che era diventata molto popolare riguardo alle accelerazioni di Fabian Cancellara durante la sua doppietta Fiandre-Roubaix nel 2010 e poi tornata di tanto in tanto ogni volta che qualche ciclista faceva un exploit. Se ne era già parlato in relazione a Pogacar dopo le vittorie al Mondiale e al Lombardia a fine 2024, quando andò via in solitaria resistendo al ritorno di Remco Evenepoel. In quel caso i numeri registrati dai due risultavano piuttosto anomali e non idonei - secondo i detrattori dello sloveno - a giustificare il distacco creato da Pogacar sul belga. Segno che, ovviamente, Pogacar aveva il motorino nella bici.
Quest’anno ancor di più, visto il modo di accelerare di Pogacar che va via seduto senza nemmeno scomporsi più di tanto, è evidente l'uso del motorino che lo sloveno aziona in concomitanza dei suoi attacchi. Stare seduto servirebbe così da un lato a nascondere l’accelerazione innaturale della sua bicicletta e dall’altro a dare più grip alla ruota posteriore evitando derapate che potrebbero generarsi con l’attivazione del motorino e la relativa improvvisa accelerazione nella rotazione del posteriore.
Più recentemente si è ricominciato a parlare del sempreverde “doping genetico”, e cioè di pratiche che andrebbero a intervenire direttamente sul DNA degli atleti per renderli delle macchine perfette. In particolare, prendendo spunto dalle dichiarazioni di Olivier Rabin, direttore scientifico dell’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA), si sostiene che le squadre siano in grado di utilizzare il doping genetico per l’aggiunta di un gene supplementare che stimoli naturalmente la produzione di EPO o di testosterone o di varie altre proteine. Rabin ovviamente non ne parla in relazione a Pogacar o a qualche ciclista, né in relazione a indagini in corso. Ma fare due più due è sempre troppo semplice.
Non voglio tagliare troppo corto: come dicevo, questi dubbi sono anche legittimi, non solo per il passato controverso del ciclismo, ma anche perché nascono dall'istinto sano di mettere in discussione la realtà, di avere un pensiero critico. Inoltre, il ciclismo non ha del tutto chiuso la porta a pratiche discutibili. È il caso delle inalazioni di monossido di carbonio di cui si è iniziato a parlare dodici mesi fa e che ancora fanno discutere. L’Unione Ciclistica Internazionale ne ha vietato l'uso ma risulta ancora difficile capire come fare a tracciarlo con analisi o controlli tradizionali. Insomma, presumere che tutti i ciclisti corrano a pane e acqua è naïf più o meno tanto quanto immaginare che ogni ciclista che vince faccia uso di doping o che sia più dopato rispetto ai suoi avversari. È una situazione in cui camminare sul filo della ragione non è semplice, me ne rendo conto.
Un discorso che si può riassumere con le parole del comico statunitense Ron Funches.
CREDERE AL CICLISMO DOPO IL DOPING
Va detto che queste teorie del complotto sul doping vengono fuori ciclicamente a ogni vincitore del Tour de France. Ne giravano di simili quando a vincere era Jonas Vingegaard - che oggi è invece lo sconfitto e quindi per molti l’eroe senza macchia - e giravano anche per i vincitori precedenti in un circolo vizioso in cui in molti continuano a cascare. L'impressione è che sia sempre più difficile accettare la grandezza di chi riesce ad avere la meglio su questo sport disperato.
Proprio la natura del ciclismo è probabilmente una delle ragioni per cui queste teorie continuano a uscire fuori. Uno sport che si basa sul sacrificio fisico estremo, in cui abbiamo un solo vincitore che deve fisicamente staccare tutti i suoi avversari sulle grandi montagne. Nel farlo, spesso e volentieri, deve lanciarsi in quelle che consideriamo imprese o comunque sia in attacchi ripetuti con cui dimostrare al mondo la sua forza e la sua superiorità. In più, nei grandi giri, farlo in una corsa che dura tre settimane, con tutto ciò che comporta a livello fisico.
È difficile da accettare che un essere umano riesca ad arrivare vivo alla fine di una competizione del genere, figuriamoci a dominarla come fa Pogacar, che fa rimpicciolire tutte le imprese dimenticate che fanno gli sconfitti.
Prima dell'incredulità, molte volte, c'è anche la semplice antipatia che nasce nei confronti di chi vince sempre. Il pubblico francese, per esempio, ce l’ha innata: fra Anquetil e Poulidor hanno tifato sempre per Pou-pou, non hanno mai sopportato Merckx, non ha mai digerito Indurain, odiava profondamente Armstrong e dopo di lui anche Chris Froome. Lo stesso Nibali fu oggetto di accuse di doping nel 2014, quando rivedendo oggi le sue prestazioni c’è da sorridere al solo pensarlo.
Pogacar sta antipatico anche per come vince: stroncando sul nascere la concorrenza con attacchi da lontano ai quali i suoi avversari non hanno ancora trovato un rimedio. Così facendo ha reso le corse a cui partecipa tutte più o meno uguali nello svolgimento: si parte, si aspetta che attacchi Pogacar e poi si insegue quasi sempre inutilmente. Un canovaccio troppo monotono per alcuni: le teorie del complotto in questo senso possono essere anche un modo per volare con la fantasia di fronte a una realtà che sembra non avere più nulla da dirci. Eppure proprio questo è paradossale: Pogacar sta ridefinendo i limiti di questo sport in un modo che forse non si era mai visto prima, in un'epoca in cui pensavamo non fosse più possibile. È questo allora il problema? Pensare che nel presente l'eccezionale non abbia più spazio?
È chiaro che il ciclismo ha una storia particolare, che non aiuta a dissipare i dubbi. Dal doping ematico degli anni Novanta all’Operazione Aderlass passando per Armstrong, l’Operacion Puerto, il CERA e i più spinosi casi di clenbuterolo e salbutamolo, la nostra pelle si è fatta più spessa, più dura, meno disposta a immergersi in quel che vediamo. Per noi italiani, poi, quanto successo a Marco Pantani è ancora oggi una ferita aperta che forse è destinata a non rimarginarsi mai, a restare per sempre nella nostra cultura sportiva, nel nostro modo di intendere e di vedere il ciclismo.
Anche in chi allora non c’era, l’idea che il campione che tutti amiamo possa cadere in modo così rumoroso striscia nell’inconscio come un trauma mai risolto e che ci tormenta. I casi doping di quegli anni, con i risultati “sul campo” riscritti a posteriori, ci lasciano sempre il dubbio: ha senso emozionarsi per qualcosa che forse, in futuro, verrà cancellata da una sentenza, da un controllo fallito o chissà cos’altro? Ha senso innamorarsi di qualcuno che potrebbe tradirci da un momento all’altro, se già non lo sta facendo oggi?
Quando il 5 giugno 1999 arriva la notizia della sospensione di Marco Pantani a causa dei valori di ematocrito fuori dalla norma, Gianni Mura scrive su La Repubblica: "Un po’ vigliaccamente ma con tutto il cuore c’eravamo messi in tanti sulla canna di quella bicicletta da bambino pelato. E adesso non possiamo chiedergli conto dei nostri sogni, anzi credo che adesso sia proprio il momento giusto per ringraziarlo di certe sue imprese che abbiamo fatto nostre, dall’Alpe d’Huez al Galibier, e lì il sangue era a posto".
Queste parole penso siano valide in ogni contesto, anche al di fuori di Pantani. Anche perché la storia del ciclismo è legata indissolubilmente a quella del doping, dalla bomba di Coppi alle anfetamine di Merckx, dalle pilloline di Bartali all’EPO: è un dato di fatto, non il male assoluto né però un qualcosa da negare o insabbiare come se non fosse un fattore importante da tenere in considerazione. Fa parte del contesto, ma non per questo ci fa riconsiderare completamente i grandi atleti del passato. Non lo facciamo con Fausto Coppi, né con Gino Bartali che ha spesso raccontato senza troppi giri di parole di fare uso di sostanze che oggi sono proibite.
Insomma, non sto dicendo che queste teorie siano necessariamente false, magari un giorno si scoprirà davvero che Pogacar era dopato, che questa realtà era fatta di cartone. Mi chiedo però se questo proliferare di teorie non nasconda in realtà una nostra incapacità a emozionarci di fronte ai grandi campioni del presente; e quindi anche ad essere fregati, se vogliamo. Alla fine, che male c'è?