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Perché SWATT Club è una svolta per il ciclismo italiano
07 lug 2025
Come ha fatto una squadra amatoriale a vincere i campionati italiani di ciclismo.
(articolo)
10 min
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Nonostante sia iniziato il Tour de France, nel ciclismo italiano non si smette di parlare della vittoria di Filippo Conca agli assoluti nazionali élite di domenica scorsa, e soprattutto della vittoria dello SWATT Club, un club amatoriale che è riuscito a mettersi dietro tutti gli altri professionisti in gara. Le lacrime di Conca subito dopo aver tagliato il traguardo, le sue parole cariche di emozione, l’esultanza di tutta la squadra attorno a lui hanno disegnato il contorno della fiaba, della vittoria di Davide contro Golia, o se volete della Caporetto di un movimento già descritto come in profonda crisi da anni. Ma dietro questo successo imprevedibile ed imprevisto c’è la storia del più influente e numeroso club ciclistico amatoriale italiano, nato nel 2013 su una seggiovia alpina come un blog per raccontare lo sport e diventato adesso nome in capslock sulla maglia tricolore.

Per capire meglio da dove sia arrivata questa vittoria e cosa sia realmente lo SWATT Club ho quindi deciso di chiedere direttamente al presidente e fondatore, Carlo Beretta. «Non ci aspettavamo niente perché comunque questo è il primo anno che abbiamo la squadra élite. È tutto nuovo. Ecco forse non avere aspettative ci rende tutto facile», ammette sincero, ma non senza prendersi i meriti di un successo storico.

«Quella di domenica non è una giornata casuale. Una botta di culo sicuramente, perché ci vuole anche quella, perché tutto è andato nel verso giusto tante piccole cose che insieme hanno portato ad una giornata come quella. C’è da dire che tutti gli altri corridori delle altre squadre sono arrivati cotti dal Giro d’Italia e dalle altre gare; alcuni magari erano demotivati, altri già focalizzati sul Tour de France, mentre noi l’abbiamo vissuto come un Mondiale».

In particolare Filippo Conca, che aveva cerchiato di rosso la data già da ottobre, quando era entrato a far parte del Team Ciclismo dello SWATT Club. Conca si era improvvisamente trovato senza contratto dopo quattro anni in formazioni professionistiche, prima Lotto Soudal e successivamente Q36.5. «Già due anni fa aveva fatto ottavo al campionato italiano e si era messo in testa questa gara, io credevo che firmasse per una top ten. Io credevo in una top ten facile - diciamo facile no - ma comunque sapevo che poteva far bene e giocarsi la corsa. Poi da qui a dire che avrebbe vinto ovviamente no, ma una serie di circostanze ci è venuta favorevole».

Conca a 26 anni è arrivato così alla vittoria più bella e iconica della sua carriera, proprio quando quest’ultima sembrava essere arrivata ad un punto d’arresto. Come lui stesso ha raccontato ai microfoni in autunno si era trovato davanti ad un bivio: abbandonare il ciclismo o mettersi nuovamente in gioco. E Conca ha scelto la passione, quella che lo ha portato ad essere uno dei talenti più interessanti della sua generazione quando era in Under 23 per poi perdersi tra problemi fisici, pressioni esagerate ed un sistema che stritola i suoi protagonisti. Quella stessa passione che accende lo SWATT Club, a partire proprio dai suoi fondatori.

«SWATT nasce come Solowattaggio su una cabinovia da me e Francesco di Candido, detto "Kaiser". Inizialmente era un blog nel quale raccontavamo cosa ci piaceva dello sport e ci sfogavamo della mentalità chiusa e repressiva che vedevamo attorno a noi». Post brevi e intensi, specialmente su ciclismo e sport invernali ma non solo, da leggere tutti d’un fiato, anaerobici e massimalisti, con quel linguaggio che ancora oggi definisce la filosofia Swatt. «Noi veniamo dalla sci alpino e vivevamo tutti i giorni quel tipo di ambiente in contatto con la realtà professionistica perché alla fine, essendo io Nazionale e allenandomi con gente che ha vinto medaglie olimpiche o prove di Coppa del mondo, è stata una palestra dove ci siamo formati come pensiero e visione. Vedevo attorno a me i problemi e le necessità che contraddistinguono la vita di un atleta di alto livello e abbiamo iniziato a capire le difficoltà che ci sono in Italia nel curare e nell’aiutare a crescere i giovani».

Quando un paio d’anni fa è arrivata la volontà di creare una squadra di ciclismo firmata SWATT per strada e gravel è stata presa la direzione più complicata, ovvero quella di non puntare sugli Under 23 ma sugli élite, proprio per dare una nuova occasione ai tanti talenti che si sono persi durante le continue strettoie che portano dalle squadre giovanili fino al professionismo. «Il blog era uno sfogo verso un sistema che tratta i ragazzi di 18, 20 anni come dei numeri, perché nessuno può essere gettato via senza che sia ancora arrivato alla maturità, al pieno delle sue potenzialità, e questa idea ce la siamo portati dietro fino ad ora», continua Beretta.

Non fatevi però ingannare, non c’è niente di caritatevole o decubertiano nello SWATT Club, anzi è un movimento definito proprio dallo spirito competitivo esagerato e dalla voglia continua di misurarsi l’uno con l’altro. Un fuoco che non si spegne certo al primo rifiuto, al primo contratto non rinnovato, ma è uno stile di vita che accomuna tutti i tesserati, da quelli che aprono come pazzi ai cosiddetti pannolati (cioè quelli che in bici mettono un abbigliamento tecnico assurdo o ispirato agli anni '90), uno dei tanti termini coniati dagli Swatt diventati ormai di uso comune nelle sottoculture ciclistiche. È proprio questo desiderio di agonismo ad aver infine creato il club élite, assottigliando sempre di più la differenza che divide gli amatori dai professionisti. Poche gare ma selezionate, preparate e corse al massimo aggredendo la strada e gli avversari, e come successo a Gorizia, scombinando i piani altrui.

Parlando, appunto, di come si prepara una gara in linea di questo livello Beretta mi interrompe perché gli sta molto a cuore precisare che lo SWATT Club nonostante le dimensioni sia una realtà estremamente seria e preparata da questo punto di vista. «Ti posso assicurare che domenica a livello di equipaggiamento e anche di sponsor eravamo forse la squadra messa meglio di tutte. Avevamo le ruote migliori del panorama, i telai Giant, i gruppi e scarpe Shimano, i caschi Lazer. Gli sponsor ci sono ma non si vedono, perché per lo SWATT Club l’estetica fa parte del modo di intendere e vivere lo sport».

«Anche il vestire la skin suite tutta bianca, sì, è una questione di stile perché l’abbiamo fatto in passato e siamo stati anche copiati per questo ma, essere vestiti in bianco sotto 39°, avere un pantaloncino bianco e una maglia bianca rispetto ad un body perlopiù nero fa la differenza abissale a livello scientifico per la temperatura corporea». Proprio qualche giorno fa, sull’ormai famoso blog Solowattaggio è comparso un post dal titolo “Con l’heat training abbiamo dominato il campionato italiano”. Spiegava appunto come è stata preparata la corsa di domenica, sfruttando a loro vantaggio tutti i marginal gains che separano normalmente gli amatori dai professionisti (su Ultimo Uomo ne avevamo parlato per esempio in relazione all'aerodinamica).

«Ti fa capire quanto nel ciclismo e nello sport moderno il livello è talmente livellato verso l’alto che se non c’è in giro il Pogacar di turno gli altri se la giocano. Cioè, se sei il 2% in più e meno come performance in quel giorno, fai la differenza». Merito soprattutto del lavoro di Mattia Gaffuri, quinto classificato al campionato italiano e autore di un lavoro fondamentale nell’ultimo giro per la vittoria di Filippo Conca, ma ancora più prezioso come cycle coach e preparatore. «Paradossalmente, io Gaffuri lo pago più per il suo servizio di preparatore che per correre in bicicletta. Infatti poi lui ha la doppia pressione per assurdo perché da lui dipende anche la preparazione di tutti gli altri ragazzi. Per dirti quando è iniziata la stagione in Grecia e già faceva caldo, lui aveva dei problemi, ad esempio sul body si vedeva tutto il sale, e lui praticamente ha speso tre mesi quattro mesi a studiare e analizzare e testare cosa fare per migliorare la prestazione quando fa molto caldo».

Infatti, prima di diventare un membro del team élite Swatt club e un due volte finalista della Zwift Academy, Mattia Gaffuri si era fatto notare insieme al suo amico e collega Luca Vergallito, detto "il Bandito", per un approccio moderno e internazionale alla preparazione psicofisica al ciclismo. I due hanno insieme anche un podcast e un servizio di coaching, chiamato Ciclismo KOMpetente, e Vergallito ha seguito la preparazione di Conca per il campionato italiano. Secondo le ultime indiscrezioni, sia Gaffuri che Conca avranno la possibilità di correre corse UCI nei prossimi mesi grazie a stage con squadre professioniste.

«Non sono le persone a fare lo SWATT Club, ma lo SWATT Club a fare le persone, come dire, cioè Conca c'è adesso, Gaffuri c'è adesso, ma tra magari 10 anni, sperando siamo ancora vivi come SWATT, ci saranno altri corridori, altre persone», continua Beretta. «Siamo un movimento culturale, un punto di ritrovo, un ideale sportivo». È evidente come lo SWATT Club abbia riempito un vuoto nel panorama ciclistico italiano, modernizzando un approccio che per decenni era rimasto al “si è sempre fatto così” sia nella componente performativa, sia in quella narrativa. Se da una parte infatti ci sono le nuove teorie di nutrizione e preparazione, fatte di sacchetti di Haribo, carboload e uscite sotto il sole, dall’altra ci sono i completi da gara minimali, la terminologia da iniziati, l’uso adrenalinico dei social. Una ventata di novità in un mondo dove la tradizione è la regola, tanto dirompente e sfacciata da metterli in contrapposizione su tutto quello che è status quo. D’altronde l’agonismo si basa sulla competizione, la competizione sull’avversario. È la regola millenaria dello sport ad ogni livello, almeno di quello moderno da quando si è imposto il professionismo.

A prima vista Solowattaggio già dal nome propone una visione dello sport in cui contano le prestazioni - appunto i watt, l’unità di misura che valuta la potenza - e che è diventata sempre più importante negli sport endurance contemporanei, cioè quelli basati su uno sforzo fisico significativo e prolungato, di cui il ciclismo a tutti gli effetti fa parte. Così viene appunto interpretata dai detrattori dello SWATT, che rimproverano loro un atteggiamento eccessivamente esaltato, escludente, testosteronico, fatto solo per chi è sempre tirato al massimo. «Non riesco a dirti bene cosa sia davvero lo SWATT Club, devi vivere giornate come quella di domenica o il prossimo Crit a Lainate per capire (il 16 luglio). Alla fine quello che conta davvero per noi sono le esperienze che riusciamo a creare insieme», mi dice ancora Beretta. L'attenzione, in ogni caso, sembra posta sui dettagli che potrebbero portare alla vittoria, più che sulla vittoria stessa. «Quello che rimane sono le persone con cui hai attraversato le difficoltà, le sofferenze, con cui hai creato un gruppo. La vittoria è solo una conseguenza alla fine».

Non è quindi un caso se i cinque ragazzi scesi in strada con il body bianco, papale per alcuni, porno per altri, alla fine si sono abbracciati come una squadra di calcio. Sono la punta dell’iceberg di un gruppo, di una tribù che ha saputo evidentemente intercettare una necessità. «Quello che vogliono i ragazzi che si avvicinano a noi, che magari non sono neanche appassionati di ciclismo da sempre, è qualcosa a cui appartenere, cioè cercano un gruppo dove sentirsi parte di qualcosa di più grande. Quello che conta davvero è la passione che si mette in ogni cosa, far appassionare la gente di nuovo allo sport, viverlo al massimo ad ogni livello».

E qui arriva una diversa lettura del nome Solowattaggio, come a dire tra noi e i professionisti l’unica differenza è solo la potenza, la forza muscolare, la prestanza fisica non certo la passione, l’ossessione e l’amore per lo sport. «Guarda una delle cose più belle me l’ha detta uno dei miei ragazzi dopo la prima tappa del Giro della Grecia durante il debriefing: non mi divertivo da anni così tanto in bici». Lo SWATT Club ha saputo restituire valore e credibilità a quel termine che nello sport ultimamente era usato soprattutto in senso dispregiativo. «Noi siamo amatori nel senso che amiamo davvero lo sport che facciamo», mi dice sempre Beretta «Alla fine non è il titolo che dice chi sei, ma quello che fai su strada, quello che fai nella vita, quindi per noi essere amatori è un vanto e non un insulto».

La vittoria di Filippo Conca non cambierà il ciclismo italiano, come ha detto qualcuno, né come sostiene qualcun altro, rappresenta il punto più basso per questo sport. È la dimostrazione empirica che c’è un movimento forte e coerente, unito dalla passione e dall’amore per la bicicletta che non si accontenta più della solita narrazione reazionaria scritta come una versione di greco antico, non vuole più indossare quelle maglie con più sticker della porta di un bar sport, non si adegua alle consuetudini di un sistema che non valorizza e tutela i propri interpreti più promettenti. «Domenica non abbiamo fatto la rivoluzione, ma stiamo cominciando a cambiare la mentalità delle persone», conclude Beretta. Ora possiamo tornare al Tour de France.

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