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Roberto Scarcella
La Svizzera da dentro
02 lug 2021
02 lug 2021
Racconto intimo dei festeggiamenti del paese elvetico dopo la vittoria con la Francia.
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Roberto Scarcella
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Mbappé ha appena sbagliato il rigore decisivo. Sono a casa. Casa, da sei mesi a questa parte, è Bellinzona, Svizzera. Il vicino urla, lo aveva già fatto dopo l’1-0 e - in modo più strozzato, quasi in falsetto - dopo il gol del 3-3. Esco sul terrazzo, in questo edificio che ricorda un po’ una casa di ringhiera e un po’ un motel americano, e me lo ritrovo davanti, il vicino. Ha una birra in una mano, con l’altra mi batte il cinque. Mentre lo fa mi dice: «Oh, scusa se ho urlato».


 

E se mai me lo fossi dimenticato, ecco il vicino a ricordarmi che sono in Svizzera: dove si esulta, si urla, ma poi si chiede scusa al vicino italiano. E ripenso a Italia ’90, quando in quell’estate appiccicaticcia finita coi sudori freddi della semifinale con l’Argentina, la gente urlava e basta, senza chiedere scusa mai. Tanto a nessuno gliene fregava nulla. E ripenso a quelli che dopo la partita con la Nigeria, con la Spagna e con la Bulgaria, a Usa ’94, andavano a prendere in prestito - diciamo così - i cartonati di Roberto Baggio dell’IP per fare festa in mezzo alla strada. Dubito che qualcuno abbia chiesto scusa ai benzinai. Ma nessun benzinaio le voleva, al massimo voleva indietro il cartonato.


 

Non avevo mai sentito esultare uno svizzero, anche se - proprio nel 1994 - andai a vedere una partita dei Mondiali in mezzo a loro. Mio padre mi disse: «Andiamo dallo Svizzero». Lo chiamava così, anche se si chiamava Domenico. Era una specie di zio d’America, anche se non era uno zio e viveva a Zurigo: portava sempre il Toblerone e i coltellini svizzeri. Proprio quello che porterebbe uno svizzero dentro a una sceneggiatura pigra. A Pasqua però portava i conigli di cioccolato, ma non era Pasqua, era - ho controllato - il 26 giugno 1994.


 

Quando mio padre mi disse che andavamo a vedere la partita, io e lui, dallo Svizzero, mi immaginavo chissà che. Vedemmo quella partita in un camper, con l’antenna che ballava, noi in una piazzola, tra le zanzare, e la tv dentro il camper. Era l’ultima partita del girone e vinse la Colombia 2-0. La Svizzera si qualificò lo stesso e lo Svizzero, scherzando - ma magari nemmeno troppo - disse a mio papà che per gli ottavi di finale potevamo restare a casa nostra. Tant’è che quella sera la Svizzera non segnò e quindi io non vidi uno svizzero esultare. Era la nazionale di Pascolo, Sforza e Chapuisat, con Roy Hodgson in panchina. Agli ottavi perse 3-0 con la Spagna. Ero a casa, ma anche se fossi stato nel camper non li avrei visti esultare comunque.


 

A quei Mondiali la Svizzera era arrivata a braccetto proprio con l’Italia: loro secondi, ma senza patemi. All’ultima giornata gli bastava battere la piccola Estonia in casa per qualificarsi. Noi passammo dopo aver sconfitto il Portogallo 1-0, ma fu una sofferenza.


 





 

Ventisette anni dopo mi trovo in Svizzera senza averla capita ancora bene. Direi senza averla capita affatto. E ritornano, a braccetto, sempre loro: Italia, Portogallo e Svizzera. In giro per Bellinzona non è che li distingui, si somigliano e parlano tutti italiano. Sai che ci sono tanti portoghesi perché te lo dicono, perché qua e là girando per il Ticino ci sono tanti ristoranti portoghesi, un po’ troppi per essere un caso. E perché al supermercato, in ogni supermercato, c’è uno scaffale tutto per loro: olive, baccalà, tonno, salsa per la francesinha, piri-piri…


 

I portoghesi di Bellinzona li ho visti tutti assieme la sera della vittoria per 3-0 con l’Ungheria. Erano scesi in strada, avevano le bandiere, suonavano il clacson. Erano tanti. Tanti, in una città come Bellinzona, possono essere già una ventina. Erano molti di più.


 

A Bellinzona ci sono 44 mila abitanti, ma sembra sempre che non ci sia nessuno, a tal punto che quando sono arrivato, a gennaio, in pieno lockdown, i colleghi scherzavano e dicevano «vedrai che non noterai la differenza quando tutto tornerà normale». E, a lockdown finito, guardandosi in giro, non è che avessero poi esagerato molto. Anche gli italiani, come da tradizione, sono rumorosi dopo le vittorie della Nazionale: bandiere, clacson, abbastanza auto da far apparire i festeggiamenti un vero corteo.


 

Ma gli svizzeri? Dove sono i tifosi svizzeri in Svizzera? Quelli riconoscibili, con la bandiera in mano, la faccia dipinta, con un coro pronto a partire. Eccoli. Tutti sbucati all’improvviso pochi secondi dopo la parata di Sommer su Mbappé. Hanno una bandiera a testa, come se con la proverbiale precisione gliel’avesse consegnata un qualche solerte addetto cantonale: «Questa è per quando battiamo la Francia. Mi raccomando».


 

Forse sono solo bandiere accumulate negli anni e usate per qualche festa extra-calcistica. Oppure no: bandiere fermate dal fare il loro dovere sempre sul più bello, con l’urlo strozzato in gola ogni volta che la Nati, come la chiamano gli svizzeri-tedeschi (ma anche i ticinesi) perdeva regolarmente quando iniziavano i turni a eliminazione diretta. Perché sì, la Svizzera ci arriva spesso a giocarsi la fase finale delle competizioni internazionali, e spesso passa anche i gironi. Poi finisce lì. Questa volta no, questa volta c’è da tirare fuori la bandiera, per di più dopo aver battuto i campioni del mondo, che è la Francia, non una squadra qualsiasi.


 

Urlano dalle strade, urlano dal palazzo di fronte, un palazzo che - prima del rigore di Mbappé - credevo disabitato e lasciato con le luci accese dall’ultimo che aveva chiuso la porta. Escono tutti, i più temerari - pochi - si abbracciano, nonostante il Covid, gli altri battono il pugno uno contro l’altro. I bambini corrono, hanno bandiere più piccole. La tavola in fondo al mio edificio, nell’angolo del giardino comune, si mette a intonare cori. Due italiani, padre e figlio, li guardano e dicono: «Meglio loro che i francesi. E poi dai, se la sono meritata».


 

Il vicino urlatore ricompare con due amici, su di giri. Urlano anche loro, poi chiedono scusa, anche loro. Non c’è bisogno, dico. Mi battono il pugno, felici. Uno si è tolto la maglietta, come quel tifoso là sugli spalti di Bucarest, ormai iconico, che un momento, sul 3-2, sembrava uno a cui avevano appena rubato il portafoglio, e un momento dopo, sul 3-3 sembrava Hulk appesantito dalla dieta svizzera.


 

Andrea, il vicino di casa, ha rischiato di non vederla. Lavora in ospedale ed era rimasto fregato negli incastri dei turni. L’avevo incrociato al mattino sullo stesso terrazzo: stava portando in casa una casa di birra portoghese: «Non so nemmeno se riuscirò a vederla, ma nel caso la birra c’è». Non se ne fa una ragione di essere di turno la sera di una partita così, senza ancora sapere che sarebbe diventata così. Quando gli dico, per consolarlo, «beh se ti dicessero che tu lavori, ma vincete, magari ti passerebbe meglio». «Eh no, se vinciamo con la Francia voglio vederla». Aveva ragione lui: bisognava vederla.


 

Prende le chiavi dell’auto e mi invita ad andare a festeggiare con loro: stupidamente declino. Richiama gli amici che erano già a festeggiare in strada. Andrea scende nel garage interrato, poi risale. Non ricorda dov’è l’auto; «Andiamo a piedi».


 





 

A rendere i festeggiamenti più scenografici e più brevi arriva un temporale estivo. Lampi e tuoni a intervallare i clacson, poi una pioggia battente quasi catartica. Mentre la gente rincasa, si abbraccia e ripete più o meno sempre la stessa frase: «Abbiamo fatto la storia». In tv passano le immagini delle varie piazze, strapiene: Basilea, Berna, Zurigo, Losanna, dove sembrano più scatenati. E dove si parla francese. Ogni tanto, tra il centesimo replay del gol di Gavranovic (nato e cresciuto in Ticino) e dell’errore di Mbappé passa una pubblicità con Sommer, il portiere-eroe. C’è sempre lui, negli spot, dall’inizio dell’Europeo: buono per vendere automobili, suggerire offerte dei supermercati, e ora anche parare rigori decisivi.


 

I giornalisti e gli ospiti che si alternano sullo schermo hanno l’aria a tratti inebetita a tratti euforica, il sorriso stampato in faccia di chi ha visto Babbo Natale, a giugno, dentro a un campo di calcio. Non sapevo come potesse essere l’esultanza di uno svizzero dopo una partita dentro o fuori, non lo sapevano nemmeno loro.


 

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