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Andrea Aimar
Il diritto allo sport
27 ago 2018
27 ago 2018
Quella dei Survivor è una grande storia di sport come diritto universale.
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Andrea Aimar
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Roberto Arena ci stava provando da qualche mese a creare una squadra di calcio, stimolato da Rosa Caglioti della fondazione bancaria Compagnia di Sanpaolo, aveva contattato le strutture di accoglienza dei senza fissa dimora. La cosa però non funzionava perché la maggior parte erano persone anziane e molti di loro avevano alle spalle percorsi di tossicodipendenza. Ma quando vede arrivare Arlande, Pierre, Patrick e Kalid, Roberto capisce che le cose stavano cambiando. Era il 9 settembre 2009.

 

«La seconda volta eravamo in 6, poi 8, a breve siamo diventati una quarantina di persone», inizia così il racconto di Roberto Arena mentre, nel suo appartamento di Torino, sorseggiamo del pastis in una sera umida di inizio primavera «Ci allenavamo solamente il mercoledì mattina. Ti rendevi conto di quando passavano la notte in dormitorio o avevano un posto fisso dove stare: erano belli, puliti, ordinati. Quando dormivano fuori arrivavano che erano degli stracci. Mi ricordo le loro borse, quando le aprivano c’era dentro tutta la loro casa: un pettine, un pezzo di sapone, una maglietta».

 

Roberto Arena fa l'impiegato in una società di multiservizi e ha una passione genuina per il calcio. Nel 2009 è stato team manager della Canavese, in Serie C, così sin da subito coinvolge nel progetto il massaggiatore di quella squadra: Michele Specchia. Roberto tifa Torino e ha maturato negli anni dei contatti con l'ambiente “granata” anche grazie alla sua esperienza di direttore generale del Torino Calcio femminile. Dopo il primo mese di allenamenti telefona ad Antonino Asta, ex giocatore e all'epoca allenatore della Primavera del Toro. Nel frattempo il presidente del Cit Turin, Angelo Frau, mette a disposizione dei ragazzi il campo della società che si trova davanti al tribunale di Torino. È lì che un mercoledì di metà ottobre si presenta Antonino Asta: «Non è mai più andato via, per un anno intero li ha allenati», ricorda Roberto.

 

Al tempo il tema dell’immigrazione non era forte quanto lo è adesso ma in realtà gli sbarchi sulle nostre coste erano già nelle cronache da tempo. In un primo tempo, nella squadra sono rappresentati 29 paesi, tutti africani. Arlande, uno dei quattro ragazzi iniziali, arriva dalla Repubblica Centrafricana ed è il capitano della prima partita. È un'amichevole, manca quasi tutto: gli prestano maglie, calzoncini e scarpe. Piove a diritto. Perdono 13 a 2.

 



Il 3 è una linea di tram che taglia Torino a metà. Lo prendo in direzione Vallette, scendo poco dopo la zona del Parco Dora. Devo trovare in via Verolengo una “sartocicleria” (metà sartoria e metà ciclo officina) gestita da Mohamed e Mustafà. Quando arrivo nei paraggi non servono cartelli a indirizzarmi: 6 o 7 ragazzi africani stanno scaricando delle bici da un furgone, nel mentre litigano e si prendono in giro senza sosta. Il caos è tale che quando mi presento lì davanti, per qualche minuto nessuno si accorge di me. Solo quando il furgone riparte mi avvicino a uno di loro chiedendo di Mohamed, uno dei centrocampisti della squadra dal 2013. Mustafà, il “sarto”, anche lui nell'undici titolare, oggi non c'è.

 





 

Mohamed Farouku ha 25 anni ma quando è arrivato in Italia dal Ghana era appena maggiorenne. Non sembra avere molta voglia di parlare, mentre gli faccio delle domande guarda spesso dentro la ciclofficina come per controllare qualcosa. Sbrigativamente mi racconta del viaggio in barca, dell'arrivo a Lampedusa e del trasferimento presso l'accoglienza della Croce Rossa a Settimo Torinese. Si accende solo nel momento in cui mi racconta della squadra, di quando al suo primo anno si sono aggiudicati il Balon Mundial, un torneo di calcio tra le comunità immigrate che si svolge a Torino ogni anno.

 

Gli chiedo come va la ciclofficina: «In inverno qua le persone vanno poco in bici, adesso con il sole andrà meglio». Il suo lavoro, dopo qualche mese di esperienza in un negozio di bici a Porta Palazzo, è legato a filo doppio alle partite. Sono Roberto e gli altri della squadra ad averlo stimolato e aiutato a mettersi in proprio, hanno messo loro una parte dei soldi insieme alla Compagnia di Sanpaolo.

 

Quando Farouku nel 2013 è entrato nel gruppo il progetto aveva già fatto il proverbiale salto di qualità. Dopo il primo anno si comincia a fare sul serio, la squadra viene iscritta al campionato regionale UISP, ci si allena due volte a settimana più la partita del sabato.

 

«Abbiamo iniziato ad allenarci la sera. D’inverno, finito l’allenamento, me ne tornavo a casa al caldo. E iniziavo a pensare dove fossero i ragazzi, non riuscivo più a dormire. Ho cominciato a raccattare coperte ovunque e facevamo i giri. Li trovavamo a fianco ai portoni, sotto i portici, alla stazione di Porta Nuova, al Lingotto, a Porta Susa». È sempre Roberto Arena a raccontare: «Già lo sapevamo, ma è lì che siamo diventati consapevoli fino in fondo. Non potevamo solo occuparci di farli giocare, di pensare a loro unicamente dentro a un campo di calcio».

 

Iniziano a immaginare borse lavoro, possibilità di inserimento, strutture di accoglienza, un'impresa sociale. Incontrano l'interesse di istituzioni sociali come l'ospedale Cottolengo che offre loro uno spazio in via Bossi a Torino dove poter sistemare alcuni dei ragazzi.

 

«Nella nostra squadra in questi 9 anni saranno passate circa 250 persone», mi dice Roberto, «Di queste a più di 60 siamo riusciti a trovare un lavoro e una casa».

 

Come Arlande Fortune Ndembou, il capitano della prima amichevole, che era scappato dalla guerra civile della Repubblica Centrafricana nel 2007. Ora lavora alla reception dell'Hotel Villa Glicini di San Secondo di Pinerolo e ha appena avuto un altro figlio. O come Patrick Neukeu, anche lui nel quartetto degli inizi, che oggi fa il mediatore culturale per una cooperativa sociale. Poi c'è Giscard Ondo Zok, 31 anni, scappato dalle rivolte in Gabon nel 2011. Oggi fa il panettiere.

 

Sarà anche per tante di queste storie che nel 2010, quando per iscriversi al campionato bisognava trovare un nome alla squadra, nello spogliatoio non ci hanno pensato molto a chiamarsi Survivor, sopravvissuti.

 



Per telefono Baye mi dà appuntamento intorno alle 20 di sera. Lo aspetto alla fermata del bus poco dopo l'incrocio tra via Bologna e corso Novara, è quella la strada che percorre tornando dal supermercato dove lavora. Lo vedo arrivare velocissimo con la sua bici, mi faccio riconoscere e ci sediamo a parlare seduti su un marciapiede lì vicino.

 

Baye Gorty Dionge oggi ha 30 anni, è arrivato in Italia dalla Francia nel 2009 dove aveva ottenuto un visto turistico. Se ne era andato via dal Senegal, doveva viveva con i suoi fratelli, dopo la morte dei propri genitori. A Torino aveva una sorella che voleva raggiungere. Dopo pochi mesi il visto è scaduto, così dall'inizio del 2009 è rimasto senza documenti. «Non potevo stare con la famiglia di mia sorella, così vivevo con i miei connazionali e mi guadagnavo qualcosa vendendo le cover dei cellulari, le collane e gli occhiali da sole a Porta Palazzo. Anche se ero clandestino, e non capivo bene la lingua, non mi nascondevo. Andavo sempre da Giancarlo (un locale dei Murazzi, ndr), quando lo hanno chiuso volevo fare sciopero», mi racconta Baye.

 





 

Nel 2013, giocando il Balon Mundial con la comunità senegalese, conosce i Survivor: «Poco dopo ho iniziato ad allenarmi con loro. La squadra è stata molto importante. Mi serviva da sfogo, andavo al campo e riuscivo a dimenticare per un po' le preoccupazioni. Poi lì ho conosciuto Federico, è lui che ha risolto il mio grande problema».

 

Federico Freni è un avvocato di 38 anni che lavora nello studio di famiglia insieme al padre Andrea. Ha conosciuto Roberto Arena in una trasmissione dedicata al Toro in una televisione locale. Lì, apprendendo la storia dei Survivor, ha pensato di offrire un aiuto legale ai ragazzi. Baye è stato il primo caso: «All'epoca non sapevo molto di immigrazione ma mi sono appassionato. Insieme a mio padre ci sembrava assurdo che un ragazzo così bene integrato non potesse avere i documenti», mi dice al telefono Federico. Fino a quel momento il consiglio che tutti davano a Baye era di sposarsi un'italiana per avere la cittadinanza: «Io non mi sentivo di sposarmi per quel motivo. Io se mi sposo è perché voglio farlo, perché voglio una famiglia».

 

Allo studio Freni decidono di giocare la carta della protezione umanitaria. Fanno prima richiesta alla commissione territoriale, poi al Tribunale. Ricevono diversi dinieghi, poi l'ultimo ricorso alla Corte d'Appello di Torino che invece va a buon fine. Il 6 giugno del 2017, dopo 9 anni senza documenti, Baye ha il permesso di soggiorno: «Pochi giorni fa ho cambiato il frigo, ma su quello di prima avevo scritto sopra, grande, '6 giugno 2017'. La mia data di liberazione».

 



Come Federico e suo padre, sono tante le persone che in questi anni hanno messo a disposizione le proprie competenze per i Survivor. C'è Antonio Cristiano, dentista di 35 anni, che cura gratuitamente i ragazzi; il centro di medicina sportiva che garantisce le visite; il negozio, Tallone Sport, che vende a credito senza fare troppe domande.

 

Anche nel mondo del calcio non mancano coloro che danno una mano. In questi anni sono passati a dare il loro sostegno, anche solo una sera, protagonisti del mondo professionistico come Ezio Rossi e Antonio Conte. Chi si è fermato molto di più di una sera è Christian Stellini, il secondo di Conte nel primo anno alla Juve. Coinvolto nello scandalo del calcioscommesse del 2011, Stellini ha iniziato ad allenare i ragazzi dei Survivor per fare pace con il calcio e ritrovare la propria strada.

 





 

Da 5 anni siede invece sulla panchina dei Survivor, Carlo Gallo, classe 1952, un passato come portiere nelle giovanili del Toro e qualche anno da professionista. Poi il lavoro in banca e tanta esperienza come allenatore a livello dilettantistico. «Qua ho capito che non puoi fare l'allenatore classico. Lo consiglierei a tanti allenatori dilettanti, ai tanti che si credono Conte o Mourinho. Penso gli farebbe bene un'esperienza del genere. Perché uno qui si annulla un po' come allenatore. Sì, dai delle indicazioni, conduci gli allenamenti, fai la formazione però l'importante è la loro vita. Così accetti anche il fatto che con la partita in programma alle 21,30, alle 21,20 manca ancora metà squadra», mi racconta Carlo con il sorriso.

 

Ad aiutarlo dallo scorso anno c'è il quasi coetaneo Giancarlo Prioglio, i due si conoscono da tempo perché nelle giovanili si scontravano in aspri derby. Prioglio vestiva la casacca bianconera, «Anche se», tiene a specificarmi al telefono, «in quegli anni abitavo di fronte al Filadelfia e vedevo sempre quelli del Toro allenarsi».

 

C'erano loro due in panchina lo scorso 6 maggio quando, per la prima volta, i Survivor si sono aggiudicati il campionato regionale della UISP. Così hanno partecipato anche alle fasi finali a Pesaro, non è andata bene ma per coprire le spese necessarie alla trasferta è partita la colletta e la gara di solidarietà tra i sostenitori della squadra.

 

In campo, nella finale, c'era anche Baye, ormai perno della difesa. Dice di ispirarsi a Cannavaro, da qualche anno gli fanno indossare la maglia numero 5. Terminata l'intervista, mentre ci spostiamo dal marciapiede, mi dice: «Sai che se ho ancora voglia di giocare il prossimo anno mi faccio cambiare numero. Chiedo il 2 che mi ricorda mia madre oppure il 6, come il 6 giugno 2017».

 

 

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