Cosa non va nell’ossessione della Superlega per i videogiochi
di Dario Saltari
Tra i tanti fraintendimenti di Andrea Agnelli e Florentino Perez nel loro confuso progetto di rivoluzionare il calcio c’è anche quello riguardante i videogiochi. Nella celebre intervista rilasciata a Repubblica mercoledì all’indomani del fallimento della Superlega, il presidente della Juventus ha ad esempio ripetuto alcune idee che aveva già espresso in passato, come la preoccupazione verso quella porzione di giovani (secondo lui il 40% dei ragazzi tra i 16 e i 24 anni) che «non ha interesse nel mondo del calcio» e l’ambizione di fronteggiare «la competizione di Fortnite o Call of Duty, che sono i veri centri di attenzione dei ragazzi di oggi, che spenderanno domani», con una competizione «che simuli ciò che fanno sulle piattaforme digitali, come FIFA». Queste dichiarazioni, unite all’idea di vendere pacchetti di highlights di 10 minuti e di accorciare il tempo delle partite, si basano sulla supposizione che i videogiochi stiano monopolizzando l’attenzione della cosiddetta Gen Z (e non solo) per via della loro spettacolarità. Ecco, chiunque abbia visto giocare i propri amici a FIFA capirà immediatamente quanto questo assunto sia decisamente fragile.
La maggior parte degli esports, o comunque dei videogiochi di maggiore successo sulle piattaforme di streaming, sono infatti spettacoli televisivi non proprio esaltanti. I tre esports principali per solidità del circuito competitivo, montepremi distribuiti nei tornei e audience, cioè League of Legends, Counter Strike Global Offensive e Starcraft II, sono videogiochi rispettivamente del 2009, 2012 e del 2010, con una resa grafica molto al di sotto degli standard a cui siamo abituati oggi e di cui è difficile capire la dinamica senza conoscere a fondo le regole e il funzionamento complessivo. Starcraft II, tanto per fare l’esempio dell’esports che più la fa da padrone in quei mercati orientali che Andrea Agnelli sogna di conquistare (compresa la Cina), non è che il secondo capitolo di un videogioco che uscì per la prima volta nel lontano 1998. Non fu certo la sua spettacolarità a diffonderlo in quegli anni in estremo oriente, ma la fortunata coincidenza che portò Blizzard a distribuirlo quasi casualmente in Corea del Sud pochi mesi dopo della grande crisi finanziaria che la costrinse a puntare con forza sulla diffusione di internet a banda larga e sull’industria high-tech. L’aumento della disoccupazione e la proliferazione dei primi internet-café fece il resto: Starcraft ebbe di lì a poco un successo clamoroso e negli anni finì per far sedimentare una cultura condivisa che portò alla nascita di competizioni e tornei (e all’idea di poterli trasmetterli dal vivo, in televisione o su internet).
Starcraft non è affatto un’eccezione. Solo un anno fa una multinazionale molto attenta agli esports come Red Bull ha di fatto fondato il circuito competitivo di Age of Empires II, un videogioco graficamente preistorico che fu lanciato per la prima volta da Microsoft più di 20 anni fa. Nel 2019, invece, la publisher del celebre gioco di carte Magic: The Gathering (pubblicato per la prima volta nel 1993) si è decisa a lanciare il proprio videogioco, Magic: The Gathering Arena, probabilmente convinta dal successo di quello che è uno dei più importanti esports a livello globale, Heartstone. Entrambi sono di fatto giochi di carte digitalizzati: siamo sicuri che la chiave del loro successo sia la spettacolarità televisiva? È interessante in questo senso che gli scacchi (ok, qui non metto la data di nascita, ma avete capito), che sembravano destinati a un lento e malinconico tramonto, stiano vivendo oggi una seconda giovinezza sulle piattaforme di streaming, e siano ormai considerati da molti degli esports.
Ovviamente non tutti gli esports di successo sono videogiochi che possono girare con 32 mb di RAM o giochi di carte. Ma anche guardando a quello che più ha capito l’importanza dell’intrattenimento per gli spettatori oltre che per i giocatori, cioè Fortnite, si possono trarre indicazioni interessanti. Fortnite, infatti, l’ha talmente capito che non ha un vero e proprio circuito competitivo (se non quello aperto a cui si può accedere direttamente dal videogioco) e dopo la stagione 2018-19, durante la quale è stato distribuito un montepremi complessivo da 100 milioni di dollari, Epic Games ha deciso di mettere in pausa le competizioni ufficiali concentrandosi su altri eventi che poco hanno a che fare con gli esports, come concerti digitali o collaborazioni con gli universi cinematografici. Organizzare i tornei costa lavoro, organizzazione e soprattutto denaro (come ha capito Call of Duty, che con un sistema a franchigie simile a quello degli sport americani ha monopolizzato gli esports su console), ma non è detto che siano remunerativi come le partnership con cui Fortnite da anni aumenta il suo bacino d’utenza (e quindi le sue revenues) collaborando con case di produzioni cinematografiche, musicisti e anche squadre di calcio (compresa la Juventus, di cui fino a poco tempo fa potevate comprare la maglia nel gioco sotto forma di skin). Riuscite a immaginare il calcio, o qualsiasi altro sport, senza un “circuito competitivo”? Fino a che punto è possibile seguire Fortnite su questa strada senza che il calcio smetta di essere calcio?
Se Andrea Agnelli vuole prendere spunto dai videogiochi per aumentare la diffusione del calcio nelle giovani generazioni (non è detto che sia una cattiva idea), forse prima dovrebbe indagare meglio le ragioni del loro successo. Sempre che lo voglia fare davvero.