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Andrea Lamperti
La strana fine del Dame Time a Portland
20 lug 2023
20 lug 2023
La storia tra Damian Lillard e i Blazers poteva concludersi in altra maniera.
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Andrea Lamperti
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IMAGO / Icon Sportswire
(foto) IMAGO / Icon Sportswire
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Dopo undici anni di incondizionata, incrollabile e per certi versi misteriosa fedeltà, nelle ultime settimane Damian Lillard ha rotto l’incantesimo, spezzando il suo storico legame con i Portland Trail Blazers. E con esso, a pochi giorni di distanza dall’addio di Bradley Beal a Washington, anche l’integrità e forse addirittura l’esistenza del concetto di “loyalty” nella NBA contemporanea.Se è vero che ancora abbiamo degli esempi di stelle che passano l’intera carriera o comunque un lungo periodo nella franchigia che li ha scelti al Draft - come i Big Three di Golden State, o Giannis a Milwaukee, o Jokic a Denver - d’altro canto si allunga in ogni finestra di mercato la lista di chi, una richiesta di trade dopo l’altra, contribuisce a rendere quella presente l’era dei giocatori-più-grandi-delle-franchigie, o come dicono oltreoceano della “player empowerment era”. Sotto lo sguardo di una lega che da anni si mostra preoccupata per questo trend, ma che non ha (ancora?) trovato delle contromisure efficaci con cui rispondere ai ricatti delle superstar.Il caso di Lillard è il più controverso in assoluto. Un po’ perché ha come protagonista chi per più di un decennio è stato il totem della fazione opposta, una specie di ultimo baluardo di fronte all’avanzata dei “mercenari”. Un po’ per scelta, per effetto di alcune sue uscite in pubblico, giurando amore eterno a Portland e sottolineando il valore maggiore di vincere coi Blazers invece di andare a giocare per il titolo da un’altra parte. E un po’ per uno schema narrativo ormai familiare, in cui gli All-Star che chiedono la cessione vengono identificati come i cattivi dei cartoni animati: agiscono senza coscienza e senza morale, puntando perennemente - in modo più o meno realistico - a rovinare il lieto fine degli spettatori. Ma le cose, ovviamente, non stanno proprio così.La NBA, e volente o nolente anche il suo pubblico, è di fronte a uno scenario in cambiamento, in cui la parola dei giocatori e la loro leva nei confronti delle organizzazioni hanno assunto un peso enorme rispetto al passato. Il cambiamento è iniziato da tempo, e Lillard non è che l’ultimo ad entrare in questa discussione; eppure - maledetta Legge di Brandolini, così crudelmente vera - è bastato poco a Lillard, che pure è reduce da undici anni nelle periferie dell’impero, per essere espropriato di quei valori di una volta e catapultato dalla parte opposta della barricata. Quella di Harden, Irving, Durant, Leonard e tutti gli altri condannati dalla giuria popolare per aver disintegrato la NBA dei vostri padri.Dopo tutte queste primavere in Oregon da giocatore-franchigia e idolo di una comunità, quella che era una storia d’amore si è lentamente trasformata in una prigionia. Lunga, infinita, in cui uno dei talenti più cristallini della lega sembrava sprecare la propria carriera in un contesto non all’altezza. Finché i ruoli non si sono ribaltati, nel giro di qualche ora. O meglio, di qualche telefonata: quella con cui Dame ha annunciato la sua volontà di lasciare la squadra, e quelle del suo agente (Aaron Goodwin) volte a scoraggiare qualunque proposta non proveniente da Miami, unica destinazione gradita al giocatore.E così, nell’immaginario collettivo e non solo, Dame ora ha interpretato davvero ogni ruolo possibile a Portland. Passando da speranza a bandiera, e poi da ostaggio a sequestratore, in una serie di capovolgimenti degni dall’Hawthorne Grill di Los Angeles, dove Quentin Tarantino ha ambientato la rapina più iconica nella storia del cinema.La bandiera diventa ostaggioDa anni a questa parte Lillard è stabilmente nel novero delle migliori guardie della lega, se non dei migliori giocatori in assoluto, come certifica il recente inserimento tra i 75 migliori dei primi 75 anni di storia della lega pur essendo uno dei pochi a non aver ancora vinto il titolo. È forse il migliore di sempre ad aver mai vestito la maglia di Portland, uno mercato piccolo di cui è diventato il miglior realizzatore di tutti i tempi, nonché il primo per triple e tiri liberi segnati, il secondo per minuti e assist, e via dicendo. E soprattutto, è l’idolo di unagenerazione cresciuta a pane, acqua e Dame Time. Senza mai vedere, però, una gara di NBA Finals. Senza mai vincere una singola partita di Conference Finals. La definizione di ostaggio parte proprio da qui. Dall’idea che a Portland - prima nell’era del general manager Neil Olshey e adesso con Joe Cronin, prima insieme a LaMarcus Aldridge e poi con CJ McCollum - il suo talento sia stato buttato via, sprecato, mai circondato da un contesto che lo mettesse nella posizione di competere per il titolo. Ammesso e non concesso che abbia senso parlare di spreco di fronte a un atleta che ha raggiunto traguardi del genere, e che sia giusto dare per scontata la corrispondenza tra i suoi obiettivi e quelli che il pubblico esige da lui. (Ma come, e allora tutto il discorso sulla lealtà, sui mercenari…?) La condanna all’operato della franchigia in questi anni, comunque, è unanime e inevitabile. Ed è condivisa dai vertici della stessa dirigenza, come il mea culpa di Joe Cronin ha lasciato chiaramente intendere: «Non sento che abbiamo fatto tutto quello che potevamo, perché non abbiamo raggiunto ciò che avremmo voluto raggiungere. In questo senso, sento che abbiamo deluso Dame».

Bisogna dire che di momenti memorabili ce ne sono stati davvero molti, tra cui due canestri sulla sirena per vincere una serie di playoff.

Un’estate dopo l’altra, il numero 0 ha alternato esternazioni di insofferenza a dichiarazioni d’amore, mettendo pressione sulle scelte del front office ma non vacillando mai davvero, quantomeno nei fatti, nel suo impegno verso l’organizzazione. Ha firmato nel 2015, nel 2019 e nel 2022 tre estensioni al massimo salariale, rinnovando a oltranza la sua fiducia in una franchigia che non era mai riuscita a dargli, neanche lontanamente, l’occasione giusta.Beh, non avete tutti i torti se pensate che qui la definizione di ostaggio vacilli. È stata volontà dello stesso Lillard, infatti, reiterare più e più volte il suo commitment con i Blazers, fino all’estensione di dodici mesi fa, che lo porterà a guadagnare 63 milioni di dollari all’alba del trentasettesimo compleanno (2027), rendendolo un contratto tutt’altro che semplice da spostare. E in aggiunta a ciò, le decisioni della dirigenza che hanno condannato la squadra a una perenne mediocrità in questi anni sono sempre state condivise e avallate dalla stessa point guard, come racconta l’insider Jason Quick su The Athletic: “I Blazers hanno sempre dato retta a Lillard. Hanno ascoltato i suoi input su ogni decisione, tranne che al Draft. Non è stata fatta una mossa senza l’approvazione dello stesso Lillard: era d’accordo con le firme dei free agent Evan Turner, Ben McLemore e Gary Payton II, con gli scambi per Jusuf Nurkić, Rodney Hood, Enes Kanter, Norman Powell, Robert Covington e Jerami Grant, e ha condiviso l’idea di accogliere Carmelo Anthony. E per due stagioni Portland è arrivata persino a occupare un posto a roster per suo cugino, Keljin Blevins”.A prescindere da questo, il punto di non ritorno dell’insoddisfazione di Lillard è stato sfiorato all’alba della free agency 2022, quando lanciava un aut aut al front office molto simile a quello delle ultime settimane. Ovvero: fate tutto il possibile per competere, sacrificando asset futuri per provare a vincere nell’immediato, altrimenti io sono fuori. E nonostante diversi innesti in squadra nel tentativo di fare il tanto atteso salto di qualità, il salto di qualità non è mai arrivato. Anzi. Se l’anno precedente Dame aveva saltato buona parte della stagione regolare per problemi fisici, nel 2022-23 è stato integro e ha performato ad altissimo livello, agilmente da top-10 della lega. Tutto ciò, però, alla squadra non è bastato nemmeno per centrare i playoff, anzi è arrivato un altro tredicesimo posto. E così, nuova off-season e nuovo aut aut alla dirigenza, con un punto nevralgico del braccio di ferro: la terza scelta assoluta al Draft.Evidentemente l’utilizzo di un asset del genere descrive in modo ineluttabile la direzione di una franchigia, soprattutto in un Draft in cui Charlotte sceglie Brandon Miller con la numero due, lasciando una promessa superstar come Scoot Henderson disponibile alla terza chiamata. Stavolta però, con mezza NBA pronta a coprire d’oro i Blazers in cambio di quella pick, Portland ha preso la direzione opposta: niente modalità win-now, niente scambio per Scoot, nessun approccio Dame-centrico. Con la piena consapevolezza che la sua richiesta di trade ne sarebbe stata un’immediata conseguenza.Il momento di rifondare, probabilmente, era arrivato già da un paio d’anni, ma stavolta si è presentato in forma inequivocabile e soprattutto appetibile, grazie alle chiamate in top-10 al Draft assicurate dalle ultime due (deprimenti) stagioni. Cronin si è sentito per la prima volta nella posizione di guardare al dopo-Lillard e non vedere il baratro: rimpiazzarlo con Scoot Henderson è un lusso che non capita tutti giorni, e il prodotto di G League Ignite può formare insieme a Shaedon Sharpe e Anfernee Simons il giovane nucleo con cui avviare la rifondazione. E poi, per Portland non c’è più, come dodici mesi fa, la paura di perdere Lillard a zero: dopo l’estensione e un’annata da oltre 32 punti di media e il 64.5% di percentuale reale, infatti, il suo valore di mercato si è risollevato, nonostante il lungo e oneroso contratto che porta in dote e le 33 candeline spente il weekend scorso.«Pensare al futuro, a costruire, non è quello per cui sono qui e non mi interessa in questa fase della mia carriera» aveva avvisato Lillard a fine marzo, quando i Blazers si sfilavano definitivamente dalla corsa ai playoff. E come l’anno scorso, una volta terminata la stagione ha girato la clessidra, concedendo alla dirigenza la notte del Draft e le prime ore di free agency per dimostrargli qualcosa. Non un giorno di più.

Ed eccoci alla Shams Bomb che tutto il mondo NBA stava aspettando.

La memoria, nei minuti successivi, è tornata immediatamente a un episodio di inizio giugno del podcast Last Stand, in cui Brian Custer di ESPN aveva chiesto a Lillard quali sarebbero state le sue preferenze nel caso di un futuro addio a Portland. Risposta: «Miami, scelta ovvia, e poi Brooklyn», citando Bam Adebayo e Mikal Bridges come prime motivazioni. Uno spoiler di quanto sarebbe accaduto di lì a poche settimane.L’ostaggio diventa sequestratoreIl contratto di Lillard non prevede una no-trade clause, come ad esempio nel caso di Beal, che ha potuto forzare Washington a trattare soltanto con la squadra da lui designata. De facto, però, Lillard agisce con lo stesso privilegio, e non solo per la gratitudine che Portland vuole (o vorrebbe) riconoscergli. Il giocatore e il suo entourage hanno infatti lanciato un messaggio forte e chiaro a tutta la NBA, nei giorni successivi alla richiesta di trade. Non avete Butler e Adebayo a roster, e Spoelstra in panchina? Non avete South Beach in città, e la tassazione della Florida? Niente Heat Culture? Non vi sprecate a trattare per Dame: non è un’opzione a lui gradita - e davvero volete in squadra un 33enne scontento a cui dovete più di 200 milioni di dollari?Musica per le orecchie di Pat Riley, che prima ancora di alzare il telefono non solo si è trovato in pole position per la stella dei Blazers, ma è diventato l’unico iscritto alla corsa. Emergono anche le suggestioni Sixers, Clippers, Celtics e Spurs, ma ben presto il discorso si è concentrato esclusivamente attorno agli Heat.Joe Cronin si è ritrovato in un atteso ma comunque improvviso vicolo cieco. Ha corso immediatamente ai ripari, sbandierando a destra e a manca l’assenza di fretta per l’organizzazione («Se serviranno mesi, serviranno mesi») e la volontà di cercare la migliore offerta in giro per la lega («Faremo ciò che è meglio per la squadra»), ma poco è cambiato. Lillard e il suo agente hanno fatto terra bruciata intorno, e circolano addirittura voci su un’indisponibilità a presentarsi al training camp, se non a quello di Miami. Il front office di Portland si è reso presto conto che accontentarlo non è più una scelta, ma una necessità. «Avere opzioni così limitate non voglio dire che sia frustrante, ma ti impedisce di ottenere il miglior ritorno possibile» ha spiegato Cronin, a cui si può tranquillamente concedere di parlare di frustrazione.La parte lesa tutt’a un tratto è l’organizzazione e Lillard è diventato l’antagonista della storia. Alla sua età e dopo tutti questi anni di fiducia mai ripagata, però, è comprensibile che Dame voglia andare a giocare in una franchigia con immediate chance di titolo; ed è abbastanza normale che, come prassi nella NBA contemporanea, utilizzi ogni strumento a sua disposizione per riuscirci. Certo, stride con quanto ha detto e ripetuto nel tempo, e cioè che vincere a Portland per lui avrebbe avuto un valore diverso rispetto a chi ci riesce facendosi scambiare a una contender; d’altro canto, però, anche la direzione intrapresa dai Blazers nell’ultimo mese stride con un assunto fondamentale del rapporto con Lillard, ovvero la promessa di lavorare per vincere nell’immediato.Semplicemente, una volta venuta meno la comunione di intenti, le due parti hanno dato la priorità ai propri interessi, nei modi che ritengono più opportuni. Chi osserva da fuori può non apprezzare, ed è lecito essere delusi da Lillard. Allo stesso tempo, però, constatare che Dame sia stato un’eccezione dovrebbe portarci a riconoscere che l’eccezionalità non si può pretendere, né dare per scontato che sia infinita. Il dovere di dare un taglio a situazioni del genere e di disincentivare ricatti simili, del resto, dovrebbe spettare alla NBA, non a Lillard.E così, con il coltello dalla parte della lama, Cronin e soci ora sono seduti al tavolo delle trattative con gli Heat, alla ricerca di una via d’uscita da questa situazione. Resa piuttosto scomoda dagli asset che Miami può spedire a Portland, che per i Blazers non rappresentano un pacchetto ideale; ma anche dalla situazione anagrafica e contrattuale di Lillard, che rende improbabile un epilogo à la Kawhi Leonard, o se preferite à la Donovan Mitchell, giocatori che sono stati spediti in franchigie diverse da quelle che avevano “suggerito”.Appoggiata sul tavolo del Hawthorne Grill, sotto gli occhi di Samuel L. Jackson e Tim Roth, ora c’è la valigetta dal contenuto misterioso. A differenza di Pulp Fiction, però, i titoli di coda scorreranno solo quando il mondo intero saprà cosa c’è, dentro a quella valigetta. Ovvero, come sarà strutturato l’affare che renderà Lillard un ex giocatore dei Blazers.

Prima di lasciarsi, una prestazione memorabile da 71 punti.

Il prezzo del riscattoLa no-trade clause de facto di cui si è parlato in precedenza non solo implica la presenza degli Heat al tavolo, ma anche quella di un’altra controparte almeno. Le richieste dei Blazers, infatti, comprendono svariate scelte al Draft - quattro al primo giro e tre pick swaps, secondo le ultime indiscrezioni - e un ritorno importante in termini di giovani da inserire nel nuovo progetto a lungo termine inaugurato in Oregon. Ed è su quest’ultimo punto che Pat Riley, senza ricorrere a un allargamento dell’affare, non può esaudire i loro desideri.Il Draft capital che possono impiegare gli Heat, ad oggi, comprende le prime scelte del 2028 e 2030 (volendo se ne potrebbe inserire una terza, ma richiede un’ulteriore trade di contorno), i diritti di swap su quelle del 2024, 2027 e 2029, in aggiunta a una manciata di scelte al secondo giro (2026, 2029, 2030). Il pareggio dei salari, poi, è garantito dalla possibile inclusione di Kyle Lowry o Duncan Robinson, con il primo che rappresenterebbe un’opzione più gradita in virtù del suo contratto in scadenza. E infine, due giovani come Nikola Jovic (27esima scelta del Draft 2022) e Jaime Jaquez Jr (18esima, 2023) possono essere un contorno appetibile per Portland. L’ostacolo da aggirare, però, riguarda il principale asset che Miami potrebbe includere, e cioè Tyler Herro. I Blazers - poco sorprendentemente, considerando la presenza di Scoot Henderson ed Anfernee Simons nel backcourt - hanno reso chiaro di non desiderare il Sesto Uomo dell’Anno 2021/22. E quindi?I due front office stanno cercando l’incastro giusto per aggiungere allo scambio una terza parte, disposta ad accogliere Herro e facilitare così la fumata bianca per Lillard a Miami. Si è parlato di Brooklyn, nonostante la presunta volontà dei Nets di scaricare il contratto di Ben Simmons in questo affare, che lo renderebbe ulteriormente complicato; oppure di Utah e San Antonio, che dispongono di flessibilità e scelte al Draft in quantità, e negli ultimi giorni anche di Toronto. Senza escludere l’eventualità che, alla fine, si tratterà di una stretta a più di tre mani, con un’infinità di scenari possibili. Soprattutto se Portland riuscisse a cogliere l’occasione per liberarsi dell’insiderato contratto di Nurkic, oppure nel caso in cui l’affare finisse per coinvolgere altri pezzi grossi in aria di addio. Oltre al già citato Simmons, ci sono anche James Harden, Pascal Siakam e Zach LaVine che potrebbero dare una scossa al mercato NBA.Quel che sappiamo, ad oggi, è che molto probabilmente la nuova casa di Lillard sarà Miami, prima o poi. Come lo stesso Joe Cronin ha esplicitamente ammesso, nonostante dimostri di aver fatto suo il metodo-Morey: pazienza, pazienza e ancora pazienza. L’offerta giusta arriverà, e il passare dei mesi metterà pressione, più che sui Blazers, sul giocatore e su chi vuole acquisirlo per creare una squadra da titolo. Non è difficile immaginare che coach Spoelstra abbia fatto un’unica richiesta al front office: chiudere entro il training camp. Anche perché, sommessamente, Miami si ritrova senza due titolari come Gabe Vincent e Max Strus partiti in free agency, e sostituirli non sarà semplice.Quando il binomio, sulla carta perfetto, composto da Dame Time e Heat Culture sarà realtà, allora verrà il momento di tirare le somme e valutare chi ne è uscito meglio. Nel frattempo, puntare il dito contro Lillard per come sta gestendo la situazione è abbastanza ingeneroso. Dopotutto, business is business. I general manager non si fanno troppi scrupoli a voltare le spalle a giocatori con forti legami con l’ambiente, di fronte alle giuste opportunità. DeMar DeRozan, Isaiah Thomas e Marcus Smart ce lo ricordano. Perché non possiamo concedere a Lillard di aver - semplificando - cambiato idea?

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