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Umberto Preite Martinez
Il ciclista che venne dalla Svezia per vincere il Giro
08 mar 2024
08 mar 2024
La grande storia di Gösta Pettersson e dei suoi "fratelli uccelli".
(di)
Umberto Preite Martinez
(foto)
Illustrazione di Antonio Pronostico
(foto) Illustrazione di Antonio Pronostico
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La storia di Gösta Petterson e dei suoi fratelli sarà oggetto della quarta stagione di Maglia Nera, che uscirà nei suoi tre episodi giovedì prossimo (14 marzo). Maglia Nera è il nostro podcast di storytelling sulle storie dimenticate del ciclismo e se ancora non lo conoscete potete ascoltare le prime tre stagioni cliccando qui, se usate Spotify, o cercandolo sulla vostra piattaforma preferita.C’è un piccolo paese in Svezia, una settantina di chilometri a nord-est di Göteborg, nel bel mezzo della Contea di Västra Götaland. Si chiama Vårgårda, ci abitano circa cinquemila persone. Non lo vedremmo nella maggior parte delle mappe, e nessuno ne conoscerebbe nemmeno l’esistenza se non fosse che da quel paese, negli anni Sessanta, sono partiti quattro fratelli in bicicletta alla ricerca di una destinazione che li portasse lontano da lì, al centro del mondo.Il maggiore di quei quattro fratelli si chiama Gösta, nato nel 1940. Gli altri tre, in ordine, sono Erik, Sture e Tomas. Oggi in Svezia sono conosciuti come i fratelli Fåglum, ma negli anni Sessanta il loro cognome era un altro: Pettersson. Alcuni di loro, tornati a casa dopo questo lungo viaggio, cambiarono cognome; Gösta invece no: «Non volevo cambiare il cognome, anche se mi chiamavano tutti Gösta Fåglum dall'inizio della mia carriera. Non ci tenevo molto ad avere un soprannome come cognome e mia moglie non voleva essere chiamata così. Ma tutti in Svezia pensano ancora che il mio nome sia Fåglum».

I fratelli Fåglum immortalati in questa scultura nella piazza di Vårgårda.

Li chiamano Bröderna Fåglum, letteralmente: “i fratelli uccelli”. Fåglum in realtà non è una parola svedese vera e propria, anche se il significato originario è abbastanza chiaro per qualunque svedese. Per la verità è il nome di un paesino, ancora più piccolo rispetto a Vårgårda, dove negli anni Sessanta era attivo un gruppo sportivo che si chiamava CK Fåglums - dove CK sta per Cykel Klubben, cioè club ciclistico. In quegli anni i quattro fratelli Pettersson si iscrivono al gruppo sportivo di Fåglum e iniziano a correre fra i dilettanti in giro per la Scandinavia. Vincono spesso, non tanto a livello individuale ma in una particolare specialità che oggi è scomparsa: i 100 chilometri a cronometro. Si corre in squadre da quattro elementi per 100 chilometri, appunto; chi ci mette di meno, vince.I fratelli Pettersson in quella specialità dominano in lungo e in largo, sempre con le maglie dei CK Fåglums addosso. E negli ordini d’arrivo sui giornali, gli svedesi imparano ben presto a riconoscere quei quattro nomi con accanto la scritta “CK Fåglums”: Pettersson - CK Fåglums. In breve quello diventa il loro cognome, per tutti, anche se non ancora ufficialmente: Pettersson Fåglum e poi semplicemente Fåglum; i fratelli Fåglum. ___STEADY_PAYWALL___ Non è così però che li troverete negli albi d’oro delle corse di quegli anni. In particolare non è così che troverete il maggiore di loro, Gösta, nell’albo d’oro del Giro d’Italia, alla voce 1971. Se guardate gli altri nomi di quel periodo vi renderete conto che quella bandiera svedese spunta all’improvviso dal nulla a spezzare un dominio belga che porta il nome di Eddy Merckx - vincitore nel 1968, 1970 e poi dal ‘72 al ‘74. Quel nome - Gösta Pettersson - compare solo lì per poi sparire di nuovo nel nulla. Come ci sia finito là dentro, in quel preciso frangente, è una storia che dobbiamo ricostruire pezzo per pezzo, partendo dall’inizio, da quel piccolo paesino dell’entroterra svedese, fino ad arrivare sul gradino più alto del podio a Milano.DilettantiNel 1969, dopo dieci stagioni fra i dilettanti, Gösta Pettersson decide che è finalmente arrivato il momento di fare il salto fra i professionisti. Può sembrare una frase assurda letta con gli occhi di oggi, ma allora non lo era. In quegli anni il mondo era spaccato in due - volendo semplificare - non solo a livello politico ma anche sportivo. Mentre nel blocco atlantico si stava imponendo il modello del professionismo, con atleti che iniziavano pian piano a prendere stipendi sempre più alti, a essere sempre più performanti, dall’altra parte della Cortina di Ferro gli atleti più forti rimanevano - almeno ufficialmente - dilettanti. Era più che altro una questione formale, di chi paga, dove si gareggia e via dicendo. Una questione politica, in un certo senso.Le Olimpiadi, per ovviare a questa situazione, avevano mantenuto per alcuni degli sport più in voga, un’impostazione che oggi può sembrare anacronistica e che continua a stare in piedi solo in alcuni sport come il pugilato o in parte nel calcio dove partecipano solo le squadre giovanili dei vari Paesi. Nel ciclismo, all’epoca e fino agli anni Novanta, per le stesse ragioni alle Olimpiadi andavano soltanto i dilettanti. E i professionisti erano automaticamente esclusi.Accadeva così che su strada i Paesi europei mandavano fondamentalmente i giovani talenti, quelli che ancora non erano passati al professionismo e che andavano a scontrarsi contro atleti già adulti del resto del mondo. La Svezia, nel suo essere un paese di confine non allineato, viveva anche nello sport in maniera piuttosto ibrida. Da un lato non c’era nessun tipo di imposizione per gli atleti di discipline olimpiche che volevano passare al professionismo. Dall’altro, però, il comitato olimpico nazionale e le varie federazioni spingevano prepotentemente gli atleti a restare nel mondo del dilettantismo in modo da poter partecipare alle Olimpiadi.I fratelli Pettersson, fiore all’occhiello del ciclismo svedese degli anni Sessanta, scelsero per buona parte della loro carriera di restare dilettanti proprio per inseguire il sogno di vincere una medaglia alle Olimpiadi. Un’impresa centrata per ben due volte: la prima a Tokyo nel 1964 quando il quartetto svedese fu bronzo alle spalle di Paesi Bassi e Italia. Nel 1964 i fratelli Pettersson erano solo tre - Gösta, Erik e Sture - visto che Tomas con i suoi 17 anni era ancora troppo giovane per gareggiare a quei livelli. Il quarto uomo allora era Sven Hamrin, che in quel 1964 fu campione nazionale svedese in linea.La seconda medaglia fu invece l’argento di Città del Messico quattro anni dopo, nel 1968. Stavolta con il quartetto al completo: Gösta, Erik, Sture e Tomas, i Bröderna Fåglum. A batterli, ancora una volta, i Paesi Bassi di Joop Zoetemelk. Gösta Pettersson tornò da Città del Messico anche con il bronzo nella prova in linea, a coronare un palmarès olimpico che non ha eguali nella storia del ciclismo svedese.In quegli anni i fratelli Pettersson furono anche campioni del mondo della 100 chilometri per ben tre volte, dal 1967 al 1969. Finché non decisero di passare al professionismo. La chiamata arrivò da Alfredo Martini, direttore sportivo della Ferretti. La squadra era nata da poco, piena di giovani promesse che Martini era andato a cercarsi fra i dilettanti. Fu così che venne a contatto con i Pettersson. Gösta era nei taccuini dei direttori sportivi europei da un po’ di anni ma aveva sempre rifiutato. Un po’ per le Olimpiadi, un po’ perché era preoccupato dall’uso di doping fra i professionisti - doping che all’epoca consisteva in pratiche piuttosto rudimentali ma non per questo meno pericolose, come testimonia la tragica morte di Tom Simpson al Tour de France 1967, stroncato sulle rampe del Mont Ventoux da un mix di caldo e anfetamine.Gösta in realtà voleva continuare a correre con i suoi fratelli, e alla fine venne convinto con la promessa di portare anche loro in Italia. È comunque una scelta sofferta. Alla fine, però, aveva pedalato duramente per tutti gli anni Sessanta, restando sempre tra i dilettanti, mentre vedeva i suoi coetanei diventare famosi nel resto d’Europa al Tour de France, al Giro d’Italia, nelle corse che contano davvero, quelle che restano nella memoria della gente. E così, in vista della stagione 1970, i quattro fratelli Pettersson si trasferiscono in blocco in Italia alla Ferretti.In ItaliaQuando i Pettersson si trasferiscono alla corte di Alfredo Martini, l’Italia è di fatto il centro del mondo ciclistico. Tante delle grandi squadre sono qui, tante delle grandi corse sono qui. È il Paese dove corrono i grandi campioni, e che riesce ad attrarre i migliori talenti dall’estero.Il calendario delle corse previste è incentrato sulle esigenze dello sponsor: classiche italiane primaverili, poi una breve corsa a tappe per testarsi e via al Giro d’Italia. La Ferretti è una squadra nata nel 1969 - una squadra giovane e piena di promesse. Alfredo Martini punta molto su Mauro Simonetti - che faceva parte del quartetto azzurro che fu bronzo a Città del Messico - ma ci sono anche altri nomi con un buon potenziale. L’unico straniero è il belga Albert Van Vlierberghe di anni 28, già vincitore di due tappe al Giro d’Italia, una tappa al Tour de France del 1966, e qualche altra corsa in giro per l’Europa. I quattro fratelli svedesi sono catapultati in questo contesto totalmente estraneo a ciò a cui erano abituati. A migliaia di chilometri da casa, ad allenarsi con nuovi metodi, nuovi compagni, per obiettivi diversi a sfidare magari ciclisti che avevano già incontrato in passato, fra i dilettanti.La prima gara fra i professionisti è il Trofeo Laigueglia, la corsa che tradizionalmente apre il calendario italiano. L’impatto con il ciclismo professionistico è abbastanza crudo. Gösta è 12esimo, Erik 43esimo. Vince l’uomo di punta della Molteni, Michele Dancelli, che apre così una stagione decisamente ad alti livelli che lo vedrà poi vincere anche la Milano-Sanremo e quattro tappe al Giro d’Italia. Poi alcune corse in Sardegna, si vola in Nord Europa a testarsi alla Gand-Wevelgem e alla Parigi-Roubaix, ma lì i nostri rimbalzano mentre davanti Eddy Merckx fa il bello e il cattivo tempo a suo piacimento. E poi, i primi di maggio, si va al Giro di Romandia. È la corsa prescelta per la preparazione al Giro d’Italia che partirà di lì a pochi giorni a San Pellegrino Terme, in Lombardia.Di quel Romandia ci sono poche testimonianze audiovisive e pure sui risultati delle varie tappe bisogna penare non poco per trovare qualcosa. Quel che sappiamo, o che possiamo intuire, è che Pettersson corre quel Romandia cercando di essere il più regolare possibile. Lascia sfogare gli altri, più adatti a scatti e controscatti, mentre lui segue con il suo ritmo. Almeno fino alla cronometro conclusiva. È quella che all’epoca veniva chiamata “semitappa”: in un giorno solo si corre due volte su due percorsi un po’ più brevi del normale. La mattina quindi una tappa in linea di 93 chilometri, che si risolve con una fuga da lontano che arriva in porto, con Dino Zandegù che regola i compagni di fuga.Il pomeriggio è il momento della cronometro: 43 chilometri, piove a dirotto. Sotto quel diluvio, in quella tappa a cronometro, Gösta Pettersson fa quello che sapeva fare meglio: spingere come un treno per un’ora, senza mai fermarsi. Chiude quei 43 chilometri in un’ora e sette secondi, davanti a Boifava e Zoetemelk. Gimondi è ottavo a 2’24”, Van Impe a 2’30”, Bitossi a oltre 3 minuti. Per Gösta Pettersson è il primo grande trionfo fra i professionisti: vince la crono e ribalta il Giro di Romandia, fra lo stupore generale.Il suo modo di correre durante la corsa a tappe svizzera diventerà una costante della sua breve carriera fra i professionisti. Al Giro 1970 chiude in classifica generale 6° a 9’20”, non molto distante dalla top-5 di Zilioli, mentre alle sue spalle Franco Bitossi è ben distante a oltre 13 minuti. Davanti a lui, Eddy Merckx domina rifilando più di tre minuti a Felice Gimondi, promotore di una polemica con gli organizzatori, rei di aver pagato il belga per venire a correre al Giro.Alfredo Martini è molto soddisfatto, la Ferretti non ha vinto nulla durante il Giro ma quel ragazzone svedese sta ingranando, e si vede. Martini decide di portarlo anche al Tour de France. Sarà un Tour lungo e complicato, fatto di 29 tappe, fra tappe vere e semitappe, distribuite in soli 24 giorni complessivi, dal 27 giugno al 19 luglio, senza giorni di riposo. Un Tour de France a eliminazione in cui più dell’estro, più del talento puro, più degli strappi, conta la costanza, il saper essere sempre lì per tutte e 29 le tappe, per tutti quei 24 giorni. In una situazione del genere Eddy Merckx non lo batti mai.I distacchi alla fine sono esorbitanti: il secondo, Joop Zoetemelk, prende 12 minuti e rotti; Poulidor è settimo a oltre 20 minuti di distacco. Ma andiamo con ordine. Merckx prende la maglia gialla alla prima semitappa, un cronoprologo a Limoges di circa 7 chilometri. Poi la lascia a Italo Zilioli che vince la seconda tappa ad Angers. Poi se la riprende il 2 luglio dopo la sesta tappa e non la molla più. Alle sue spalle si alternano gli avversari che però uno dopo l’altro sprofondano in classifica generale o addirittura sono costretti al ritiro. Jan Janssen - il vincitore del Tour del 1968 - sprofonda al 26° posto in classifica. Pingeon - secondo l’anno prima - si ritira dopo una settimana.La tappa che tutti attendono con più enfasi è la scalata al Mont Ventoux. Solo tre anni prima su quelle strade era morto l’inglese Tom Simpson. Merckx è un demonio: vuole vincere a tutti i costi per ricordare il suo direttore sportivo alla Faema, Vincenzo Giacotto, morto a sua volta, e quella mattina stessa, per un tumore. Il belga prende di petto la salita e tutti gli altri capiscono immediatamente che quel giorno è meglio lasciar perdere perché a seguire quel ritmo si rischia di saltare per aria da un momento all’altro. Merckx invece non salta per aria e arriva in cima - stremato, senza neanche la forza di alzare le braccia al cielo - con più di un minuto di vantaggio sui suoi rivali.

Se avete un’ora da buttare vi lascio il video completo della scalata. Le immagini dell’arrivo di Merckx partono più o meno dal minuto 44.

Secondo è un altro belga, Vandenbossche. Terzo Van Impe, quarto l’olandese Wagtmans a 1’21”. Gösta Pettersson è solo nono a 1’39”. Ma quel nono posto lo porta a fine tappa al terzo posto in classifica generale a 11’21” da Eddy Merckx. Davanti a lui c’è solo Zoetemelk, secondo in classifica a 9’26”. Una situazione che rimarrà invariata per tutto il resto del Tour de France. Nessuno osa contrastare Eddy Merckx, che da lì a Parigi vince altre due tappe a cronometro e per il resto si limita a controllare la situazione. A 25 anni appena compiuti, Merckx chiude così la sua prima doppietta Giro-Tour. Gösta Pettersson, a 29 anni, prima stagione fra i professionisti, è terzo al suo primo Tour de France. Primo e unico svedese - finora - ad essere riuscito a salire sul podio di Parigi.1971Per la stagione successiva l’obiettivo dichiarato è quello di fare un gradino in più. Migliorare non tanto nelle prestazioni - quelle ci sono, ci sono sempre state - quanto nei risultati. Finalizzare il lavoro, insomma, oltre che limitarsi a stare lì. Alfredo Martini nel frattempo ha portato in squadra anche Italo Zilioli, 29 anni, che vanta ben 4 podi al Giro d’Italia in carriera ed è reduce dal 5° posto del 1970. L’idea è quella di portare Zilioli e Gösta Pettersson al Giro d’Italia e correre con due punte da sfruttare all’occorrenza. Ad accompagnarli ci saranno due dei tre fratelli di Gösta - Erik e Sture - mentre Tomas, probabilmente il più veloce dei quattro, viene dirottato al Tour de France a caccia di piazzamenti.Si punta tutto sul Giro anche perché Eddy Merckx ha annunciato che per questa stagione non farà di nuovo la doppietta ma andrà solo al Tour de France. E allora si aprono le danze per la maglia rosa, per tutti gli altri: Gimondi fiuta il terzo trionfo al Giro, Michelotto vuole rifarsi dopo la delusione dell’anno precedente, il vecchio Aldo Moser va a caccia di un’ultima soddisfazione. La Molteni - la nuova squadra di Merckx - manda al Giro il belga Herman Van Springel, già capace di un secondo posto al Tour nel 1968, anno in cui vinse anche il Giro di Lombardia.Si parte da Lecce il 20 maggio con la Salvarani che vince la cronostaffetta iniziale. La prima vera salita è il 24 maggio, si sale sul Gran Sasso e allora come oggi, non succede niente. La vera svolta del Giro arriva il 27 maggio, alla 7° tappa, la Orvieto-San Vincenzo. Felice Gimondi viene da un avvio di Giro molto complicato, sia per lui che per la sua squadra. Alla seconda tappa ha perso terreno dal gruppo, forse per un malore o una crisi passeggera, scivolando molto indietro in classifica generale. Come se non bastasse, il suo compagno di squadra e co-capitano alla Salvarani, Gianni Motta, viene trovato positivo a un controllo antidoping che apre una polemica che travolge tutta la squadra. Motta viene multato e penalizzato in classifica generale (dopo il caso Merckx del 1969 il regolamento era cambiato e non prevedeva più la sospensione in caso di positività).Proprio Gimondi porta via la prima azione che spezza il gruppo nella prima parte di tappa. Zilioli rimane dietro con Motta a inseguire e allora Martini ordina a Sture Pettersson di fermarsi ad aspettarlo per dargli una mano. Con l’aiuto del terzo dei fratelli svedesi, il gruppo rientra ma Gimondi riparte e porta via un altro gruppetto con dentro anche Gösta Pettersson. Zilioli invece si fa di nuovo sorprendere e rimane dietro; stavolta però in gruppo c’è anche la maglia rosa di Ugo Colombo e allora l’inseguimento è tutto sulle spalle della sua squadra. Davanti ne approfittano e vanno via, guadagnano sempre di più mentre dietro Motta e Zilioli dicono addio alle loro speranze di fare classifica. Gösta Pettersson - che è là davanti con Gimondi - è anche vittima di una foratura, si stacca dai primi, cambia bicicletta e rientra in pochi chilometri ma non ha più le forze per seguire l’ultima decisiva azione di Gimondi che va via solitario a vincere la tappa. Al termine di quella giornata, la classifica recita Aldo Moser in maglia rosa, Claudio Michelotto a 37”, terzo Paolini, quarto Colombo. Quinto Gösta Pettersson a 6’54”. Gimondi è più indietro a 15 minuti.

Gösta Pettersson, in maglia Ferretti, in testa al gruppo al Giro 1971.

Alla vigilia delle grandi montagne quindi Alfredo Martini ha perso Zilioli ma si ritrova con un Pettersson in ottima posizione. Aldo Moser è vecchio, va per i 36 anni e nessuno pensa davvero che possa tenere il passo; Paolini e Colombo non preoccupano nessuno e Gimondi è decisamente attardato. L’unico da tenere veramente d’occhio è quel Claudio Michelotto, che finora si è nascosto, ha giocato, addirittura fingendo di stare male in qualche tappa per togliersi gli occhi degli avversari di dosso.Quello del 1971 è un Giro d’Italia senza un padrone, insomma, in cui tutti hanno paura di attaccare, di fare il passo più lungo della gamba e rimbalzare all’indietro. L’unico che sembra voler provare a far qualcosa è Gimondi, ma - appunto - è molto lontano in classifica. Pettersson si lamenta della situazione con Fulvio Astori, giornalista del Corriere della Sera che va a intervistarlo; e alla domanda sul come stia trovando questo Giro, la risposta di Gösta Pettersson è come al solito molto diretta e poco diplomatica: «Senza Merckx, non bene, no. Lui attacca, questi non attaccano mai. Cioè, poco, pardon! Bitossi, Zilioli, Motta, sempre dietro, non è bene, sempre piccoli corridori via, in fuga. Non è giusto, non è bene».Pettersson è una persona molto schietta, lo si nota dalle sue dichiarazioni - spesso affettate, ruvide, nelle quali il concetto che vuole esprimere viene fuori senza tanti giri di parole. Pochi giorni prima aveva bollato senza mezzi termini Aldo Moser rispondendo a chi gli chiedeva se fosse una minaccia: «Non è forte». Lo sguardo di Gösta Pettersson mentre parla, però, è stranamente gentile, affabile. Sorride con gli occhi, mentre con la lingua tira bordate a destra e a manca. «Quello che dice Gösta è tutto pensato, non è buttato lì», diceva di lui Alfredo Martini. Ed è vero, le parole di Gösta sono ben calibrate, ben pensate. Ed escono dalle sue labbra private di ogni vezzo stilistico. A fine intervista, Fulvio Astori lo incalza, gli chiede se pensa che i giochi siano chiusi per gli altri avversari, Gimondi, Zilioli, Motta, Bitossi. «Per Gimondi no. Ci sono ancora molte tappe dure», risponde Pettersson. «Più la fatica aumenta più lui va forte. Gli altri tutti stanchi, lui sempre uguale. Io mi aspetto un grande attacco di Gimondi, con il sole o con la pioggia: quel giorno spero di riuscire a restare con lui».Il grande attacco di Gimondi non arriverà. Il capitano della Salvarani proverà a far qualcosa, attacchi sparsi ma senza grande convinzione e la situazione rimane più o meno stabile fino al 7 giugno, con Claudio Michelotto in maglia rosa e Gösta Pettersson a tallonarlo sempre più da vicino. Il 7 giugno si corre la 17ª tappa, da Tarvisio si sconfina in Austria e si arriva in cima al Grossglockner. La Ferretti mette a disposizione di Pettersson tutto il materiale umano che ha a disposizione: non è molto, ma ci si prova. Sulle rampe del Grossglockner la maglia rosa arranca mentre i suoi avversari si involano in lontananza. Pettersson avanza con la sua solita andatura: imposta il suo ritmo e spinge, va su regolare, senza strappi. Se al Tour de France dell’anno prima questa tattica serviva a contenere le perdite dagli assalti di Eddy Merckx, al Giro invece serve a sgretolare piano piano le difese degli avversari, come una goccia cinese. La tappa la vince Pierfranco Vianelli mentre Michelotto perde da Pettersson e Gimondi un minuto e mezzo.Alla sera però scoppia la polemica: Michelotto è stato visto mentre veniva spinto su per le rampe del Grossglockner a più riprese; dai tifosi, dai compagni, ma anche da massaggiatori, meccanici e avversari. Tutto nell’indifferenza della giuria che interviene solo dopo le proteste di Piero Ferretti in persona, il proprietario dell’azienda di cucine che sponsorizza la squadra. Ferretti minaccia di ritirare la squadra, come fece la Bianchi di Fausto Coppi al Giro del 1948 in protesta contro le spinte a Magni. La giuria sanziona Michelotto con un solo minuto di penalizzazione e Alfredo Martini convince Ferretti a restare al Giro; è convinto, Martini, che ormai Michelotto si sta spegnendo definitivamente. E che invece Gösta Pettersson sia ancora in grado di potersi prendere la maglia rosa.Il giorno dopo quindi la Ferretti è regolarmente al via del tappone dolomitico, quello decisivo. Si scalano il Passo Tre Croci, poi in successione Passo Falzarego, Pordoi e infine il passo Valles prima della discesa fino al traguardo di Falcade. Pettersson si muove subito, sul Tre Croci, seguito come un’ombra da Van Springel e Gimondi. E come previsto Michelotto si stacca, perde terreno, ma rientra in discesa. Sul Falzarego non succede niente ma il Pordoi è di nuovo letale per la maglia rosa che perde terreno. Pettersson, Gimondi e Van Springel non scattano ma aumentano il ritmo e Michelotto cede di schianto negli ultimi chilometri lasciando lì per strada 1’35”. Lino Farisato è l’uomo scelto da Martini per accompagnare Pettersson fino all’ultimo ed è lui a spingere come un matto nel fondovalle fra il Pordoi e il passo Valles. Farisato lancia la progressione finale di Pettersson che sbriciola definitivamente il gruppetto di testa. Michelotto, dietro, sprofonda a oltre tre minuti mentre davanti Gimondi rimane incollato allo svedese e giù per la discesa verso Falcade si invola a vincere la tappa. Ma non c’è nessun tipo di lotta per la tappa, perché il maggiore dei Bröderna Fåglum è volato sulle cime delle Dolomiti a prendersi la maglia rosa, con l’intenzione di non mollarla più fino alla fine.

Un Gimondi sorridente al traguardo, nonostante la delusione per la classifica generale.

Gli ultimi giorni servono a Gösta e alla Ferretti per mettere definitivamente fuori dai giochi Michelotto, che si ritira per i postumi di una caduta avvenuta proprio nella tappa di Falcade. I tifosi italiani non la prendono bene e nelle ultime due tappe in linea Pettersson viene bersagliato da insulti dei tifosi a bordo strada, lanci di uova, spinte. Nella tappa 19, in una discesa, fora entrambe le ruote contemporaneamente. «Ovviamente non posso dire che si sia trattato di sabotaggio», dirà molti anni dopo «Ma è stato strano che io sia stato l’unico a forare nel gruppo di cinque o sei corridori che erano insieme. Inoltre non ho mai forato entrambe le ruote contemporaneamente, né prima né poi».Ma nonostante questi spiacevoli episodi, la Maglia Rosa resta ben salda sulle sue spalle. Gimondi resta ben lontano, Van Springel non ha la personalità per impensierire Pettersson. L’ultima cronometro a Milano è poco più di una formalità, nonostante la pioggia, e il 10 giugno 1971 la Svezia entra nella storia del ciclismo dalla porta principale come non capiterà mai più nella storia di questo sport. Un ragazzone alto, biondo, con la faccia scavata dal tempo, venuto dal nulla - o quasi - ha conquistato la maglia rosa battendo tutti i campioni italiani del periodo. Alfredo Martini è in visibilio, è il primo grande successo della sua - lunghissima - carriera in ammiraglia. Gösta Pettersson e i suoi fratelli in patria diventano delle celebrità: a Vårgårda, la loro città natale, dopo il loro ritiro dal ciclismo verrà tirata su una statua a imperitura memoria di quei quattro ragazzi che da lì sono partiti a prendersi tutto. La statua si chiama - appunto - Bröderna Fåglum e ci mostra i quattro fratelli impegnati nella prova che più ha segnato le loro carriere: la cronometro a squadre. Anche se non c’è scritto si intuisce che la figura più avanti alle altre, leggermente staccata e con lo sguardo rivolto in avanti, è il maggiore dei quattro, Gösta.«Gösta», dirà Tomas anni dopo, «aveva un fisico che il resto di noi non aveva. Aveva un motore leggermente più grande, per così dire, e non puoi allenarti per questo». Mentre gli altri fratelli piano piano tornano in Svezia, Gösta continua a correre con i professionisti. A detta sua, l’apice della carriera lo raggiunge nel 1974, al Giro di Svizzera: «Arrivai secondo dietro a Merckx, di nuovo, ma stavolta riuscì a battermi solo a cronometro. Non riuscì a staccarmi in montagna. E per noi che correvamo in quegli anni, arrivare secondi dietro a Merckx era come una vittoria contro tutti gli altri. Perché correvamo contro il più grande di tutti i tempi, e questo è certo».Al termine di quella stagione anche Gösta Pettersson decide di tornare in Svezia e la sua storia nel ciclismo professionistico finisce qui, dopo nemmeno cinque anni. Il volo dei Bröderna Fåglum in Italia durò quel tanto che basta per prendersi un posto nella storia, per quanto piccolo o grande questo possa sembrare a seconda dei punti di vista.

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