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Marco Giani
Storia del calcio femminile in Russia
13 lug 2022
13 lug 2022
La vita delle calciatrici in Russia tra stereotipi post-sovietici e abbandono da parte dell’Europa.
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Marco Giani
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Scorrendo sul sito ufficiale degli Europei femminili d’Inghilterra la

delle 16 rappresentative nazionali attualmente in lotta per strappare il biglietto d’accesso alla finale di Wembley ci si imbatte una strana presenza, che narra a sua volta di una assenza. Stiamo parlando dell’asterisco che, giustapposto al nome del Portogallo, spiega un avvicendamento avvenuto all’ultimo momento, e che ovviamente la macchina organizzativa dell’Europeo non vorrebbe tenere troppo sotto i riflettori: Carole Costa e compagne, infatti, giocano al posto della Nazionale russa, che agli spareggi dell’aprile 2021 le avevano sconfitte sul campo.

 

Un’esclusione che è stata conseguenza della decisione più generale presa congiuntamente da FIFA e UEFA, la quale - giusta o sbagliata che fosse - è stata sinora guardata in Occidente soltanto dal nostro punto di vista. Ma che ripercussioni potrebbe avere dall’altra parte? Quanto potrebbe danneggiare lo sviluppo del calcio femminile in Russia che, già debolissimo di suo a causa degli atavici pregiudizi della società, stava in questi ultimi anni ricevendo ingenti aiuti dall’estero? Una domanda ancora più bruciante considerano anche da noi abbiamo iniziato a liberarci dai pregiudizi solo qualche anno fa, un po’ per l’encomiabile impegno delle #RagazzeMondiali in terra francese nel 2019,

per il sostegno all’unisono arrivato da federazioni nostrane e sponsor esteri, interessati a

anche l’Italia in una crescita globale da cui era rimasta fino al 2015 quasi inspiegabilmente esclusa.





Sono incerte, a livello storiografico, le notizie circa l’inizio dell’attività in terra russa. La seconda edizione della

, stilata dall’autorevole Museo FIFA di Zurigo, ci informa di una partita femminile giocata addirittura il 3 agosto 1911 nei dintorni di Mosca, ma anche la storica inglese Jane Williams, nella sua recente

, non dice niente di più al riguardo. Forse, il fatto che ci si trovasse in uno dei pochi centri urbani degni di questo nome è da collegare al piccolo ma combattivo

che durante la Belle Époque stava iniziando a svilupparsi anche dell’Impero Russo, ma chissà.

 

Nel 1917 la Russia volta pagina e inizia l’era sovietica, quella in cui il regime comunista interverrà a gamba tesa nelle vicende del

, come nel caso dello Spartak Mosca dei

. E il calcio femminile? Non pervenuto, tanto che

, moglie del calciatore Peter Dementyev, non trovò nessuna compagna con cui giocare da adulta come aveva invece fatto da bambina: divenne allora direttrice di gara, nel 1932, e si tolse pure la soddisfazione di arbitrare delle partite maschili. A inizio anni Quaranta, ci informa

, ci fu qualche tentativo, il quale tuttavia risulta già esaurito entro la fine del 1945. Una vicenda che già così accennata assomiglia sin troppo al copione di quella più famosa e studiata delle

durante la Prima Guerra Mondiale, a cui fu permesso sì di giocare, ma fin tanto che gli uomini erano lontani, impantanati nelle trincee delle Fiandre: una volta finito tutto, si ripresero il campo e bucarono metaforicamente il pallone alle

, con tanto di celeberrimo

della FA datato 1921.

 

Bisogna aspettare l’inizio degli anni Settanta per vedere qualcosa di consistente muoversi, questa volta nella Repubblica Socialista d’Ucraina, dove il 3 novembre 1971 la squadra di Kharkiv ricevette a Donetsk (e batté 3-2) le ospiti provenienti da Vilnius. Queste prime calciatrici sovietiche non si organizzarono però in un campionato, bensì si limitarono prudentemente ad amichevoli come quella di Donetsk, o a tornei come la Coppa Valentina Tereškova, che nel 1972 radunò a Dnipropetrovsk formazioni provenienti non solo dalla cittadina sul fiume Dnepr ma pure da Kharkiv, Donetsk, Kiev, Užhorod (città anch’essa in Ucraina, come le precedenti) e Riga. L’intitolazione alla celebre cosmonauta non è ovviamente casuale, come fa notare

: la prima donna ad andare nello spazio (nel 1963, due anni dopo Yuri Gagarin), insignita, al ritorno sulla Terra, dell’Ordine di Lenin e dell’altisonante titolo di Eroina dell’URSS, era infatti additata dalla propaganda come l’incarnazione dell’ideale della

, la ‘femminilità’ in salsa sovietica.

 

Come sempre nella storia dello sport femminile, anche quelle calciatrici avevano bisogno di una qualche figura moderna e modernizzante socialmente accettata alla cui ombra compiere il loro rivoluzionario esperimento, che avrebbe spezzato quell’identificazione fra calcio e mascolinità già così forte nella società dell’epoca. Un’identificazione sulla quale abbiamo la testimonianza dello storico

: egli stesso, intervistando molti uomini circa la vita quotidiana durante il periodo sovietico, si stupiva che quando c’era da ricordare il calcio, questi tirassero in ballo unicamente compagni di classe, conoscenti e figli maschi, nonostante poi, a domanda esplicita, ammettessero che in effetti, di fianco a loro, mentre guardavano le partite in TV ci fossero madri, sorelle, figlie. Si tratta proprio di un’auto-percezione sociale: il calcio era avvertito come cosa da maschi, come - per usare l’immagine di uno storico questa volta autoctono come Igor Narsky- una riserva maschile.

 

Dati questi pregiudizi, era chiaro che la luna di miele fra URSS e calcio femminile non potesse che durare poco: fra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, il regime spazzò via «l’indecoroso spettacolo». Parole usate da Natalia Graievskaia, a capo del Dipartimento Medico del Consiglio Superiore degli Sport Sovietici. La dottoressa, come riportato addirittura da

dell’epoca, chiarì che «la pratica del calcio da parte delle donne porta alla dilatazione delle vene nelle gambe, che la lotta per la sfera può provocare lesioni negli organi sessuali oltre che fratture al bacino in caso di tiri violenti. La dottoressa Graievskaia ammonisce poi che stoppando il pallone col petto, si hanno altre gravi conseguenze, pertanto raccomanda alle donne di praticare altri sport, come ad esempio l’atletica, la scherma, il ciclismo, il tiro». Ci penserà poi il Comitato Statale per l’Educazione Fisica e lo Sport a bandire in un solo colpo calcio, boxe e lotta femminili dalla terra dei Soviet, in quanto sport (considerati) maschili.

 

Niente di nuovo, più di un elemento di questo boicottaggio è in comune con quello attuato in Italia dal CONI fascistizzato a fine 1933: la consulenza dei medici dello sport, la condanna parallela di calcio e pugilato femminili, lo spauracchio di compromettere irrimediabilmente il fisico delle donne. E non si pensi che ciò vada collegato per forza al totalitarismo tout court: anche nella “semplice” dittatura dell’

di Getúlio Vargas il nascente movimento calcistico femminile era stato spazzato via dall’iniziativa di uno zelante cittadino brasiliano, tale José Fuzeira, che aveva preso carta e penna protestando contro il comportamento antipatriottico delle calciatrici verde-oro, che giocando mettevano in pericolo la propria fertilità. Vargas s’era allora rivolto al Ministero dell’Educazione e della Salute per aver lumi, e il 14 aprile 1941 il Consiglio Nazionale dello Sport aveva stabilito che le donne non potevano praticare sport che, come il calcio, fossero «incompatibili con la condizione della loro natura».

 

L’Unione Sovietica, però? Non doveva essere diversa sul tema della parità fra uomo e donna? E non furono forse le atlete sovietiche a lasciare tutti a bocca aperta nel 1946, quando si presentarono per la prima volta agli Europei di atletica ospitati a Oslo, conquistando 5 medaglie d’oro sulle 9 femminili messe in palio - giusto perché a controbilanciarle c’era Fanny Blankers-Koen, la «mammina volante» che si portò a casa l’oro negli 80m ostacoli (tagliando il traguardo un decimo di secondo prima delle sovietiche Gokieli e Fokina) e condusse le compagne olandesi a vincere la staffetta 4x100m? Il giornalista Gianni Brera, che era lì presente principalmente per seguire le imprese delle azzurre, era rimasto sinceramente colpito dalla «potenza assoluta dell’atletismo russo per quanto riguarda il settore femminile», ma al contempo aveva ironizzato fra le righe circa l’aspetto della vincitrice del getto del peso, Tatyana Sevryukova, «una ragazzona russa che ha la struttura atletica e l’energia d’un’autentica valchiria».

 

In realtà, se vogliamo capire le radici del sostegno dato dallo stato sovietico allo sviluppo dello sport femminile, non possiamo ignorare le coordinate ideologiche dello stesso. Come spiegato molto bene dallo storico dello sport Federico Greco nel suo

, «indipendentemente dal sesso, il corpo di tutti i cittadini sovietici apparteneva allo Stato, che poteva servirsene all’occasione in modi differenti», un atteggiamento a tal punto introiettato da atleti e atlete dell’URSS da farsi sì che sviluppassero «come più alto desiderio quello di rendere il proprio corpo uno strumento per mostrare a tutti la superiorità del sistema socialista. Di fatto, lasciando libertà alla medicina sportiva - altro campo in cui lo Stato non lesinava finanziamenti - di intervenire su quello stesso corpo, anche in modo irreversibile, al fine di ottenere miglioramenti nelle prestazioni». Se quindi l’Unione Sovietica, al pari della Germania Orientale qualche anno dopo, non si faceva problemi a modificare se necessario quei corpi femminili di cui si era fatta proclamata strenua paladina la già citata Natalia Graievskaia, perché il calcio no?

 

Basta pensare a cosa stava avvenendo fuori dai confini sovietici: nonostante il fuoco di paglia dei due Mondiali “autonomi” di Italia 1970 e di Messico 1971, organizzati non dalla FIFA ma dalla Federazione Internazionale Europea Football Femminile (FIEFF), per molti anni non ci furono manifestazioni internazionali di calcio cui sentirsi in qualche modo costretti a mandare una selezione nazionale. Quindi, perché farlo? Perché mettere in discussione lo stereotipo? Si tratta per altro della stessa infausta condizione in cui si vennero a trovare le calciatrici nel nostro paese, nel 1933: forse, con un calcio incluso nel programma olimpico di Berlino 1936,

, in quel momento a capo del CONI, avrebbe preso una decisione diversa da quella del boicottaggio. Lui che personalmente non avrebbe mai fatto fare gare sportive alle ragazze, ma che invece sostenne in quegli anni Trenta Ondina Valla prima e le cestiste che poi, nel 1938,

sotto i suoi occhi a Roma il primo Europeo di pallacanestro.

 

Non è un caso che di calcio femminile

, dalle parti di Mosca, quando l’avventura dell’Unione Sovietica è ormai agli sgoccioli e il

ha già aperto da due mesi i battenti sulla Piazza Rossa: il 26 marzo 1990 scende in campo

, in trasferta, la Nazionale femminile dell’URSS, impegnata contro la Bulgaria, e riesce pure a vincere 4-1. Se non prese parte alle

per gli Europei di Danimarca 1991, limitandosi a giocare amichevoli, lo fece invece in occasione di quelle successive valide per il pass d’entrata agli Europei di Italia 1993. Fece però in tempo a giocare solo la prima partita, un 2-1 in casa strappato all’Ungheria il 6 ottobre 1991, prima di trasformarsi, nel maggio del 1992, nella Nazionale femminile della CSI, poi Federazione Russa, la quale tuttavia non arrivò per un soffio alla fase finale. Dopo aver vinto agilmente il Gruppo 8 contro Ungheria e Bulgaria infatti, venne travolta ai

(all’epoca, una specie di play-off, visto che accedevano alla fase finale solo 4 squadre) dalle tedesche, 0 - 7 all’andata, e poi un più pacifico pareggio a reti inviolate al ritorno.

 

 

https://twitter.com/philharrison192/status/1421766298560835586

 

Nel frattempo, nel febbraio di quello stesso 1992, ci fu anche il primo incontro (amichevole) con la nostra Nazionale, come raccontato nel recentissimo

di Giovanni Di Salvo. Sull’onda dal recente e repentino sviluppo del loro movimento calcistico nazionale (campionato nato nel 1987, in quel momento a 8 squadre, alla testa di 76 società e 5.000 tesserate in tutta la CSI), per raggiungere il Belpaese le nostre avversarie «affrontano un lunghissimo viaggio in pullman (due giorni e due notti per arrivare da Mosca alla Riviera Adriatica), sovvenzionato dalla ditta distributrice di prodotti alimentari Gonciarov». Vista la prevedibile doppia sconfitta per 1-0 (oltre alla Nazionale maggiore, s’era aggiunta anche quella Under 21), che senso poteva avere in prospettiva quell’odissea verso Rimini, se non quello di far cogliere alle proprie coraggiose giocatrici di essere parte di qualcosa di più grande, di più ampio della propria solitaria battaglia condotta contro tutti i pregiudizi coi quali confrontarsi quotidianamente a casa? Non lo sentivano, le ragazze guidate dal CT Oleg Lapschin, il richiamo di un’Europa finalmente a portata di mano e un po’ più

degli sguardi perplessi cui erano abituate in patria?

 



Per cercare di comprendere la società entro cui le calciatrici russe si muovevano, e si muovono tutt’ora, ci viene incontro un interessante articolo scritto nella primavera del 2018 da

, il quale giustamente si chiedeva, anche al netto di un impegno delle istituzioni nazionali nel cercare di sostenere la diffusione dello sport, «Perché le donne russe non giocano a calcio?». La domanda sorgeva prima di tutto dalla visione degli scarsi risultati della Nazionale, allora 26esima nel ranking e con due quarti di finale ai Mondiali (USA 1999 e USA 2003) come migliori piazzamenti internazionali - per inciso: cosa avremmo dovuto dire noi, avendo all’epoca le nostre azzurre collezionato come massimo piazzamento ai Mondiali un misero quarto di finale a Cina 1991? - La causa principale veniva individuata da Egorov nella persistenza di pregiudizi atavici che ancora trovavano spazio nella società russa, per cui «il calcio non è affare da donne» era frase ch’era facilissimo ascoltare in giro. Intervistata, Anna Kožnikova, difensore della nazionale e del FC Locomotive, spiegava: «C’è gente che ci rimane, quando viene a sapere che il calcio femminile esiste. Ma ci sono pure un sacco di giudizi negativi: c’è pure gente che ti dice di tornartene in cucina, l’unico posto dove sei buona a stare». Gli faceva eco la giocatrice del CSKA Karyna Blynskaya: «Quand’ero più piccola, la gente era sorpresa: una ragazza e il calcio?!? Molti trovavano che le due cose non potessero andare assieme, che non era un tipo di sport femminile».

 

Lungi dall’essere un pregiudizio diffuso solo nell’uomo della strada, eccolo riaffiorare anche fra i professionisti dello sport, come il commentatore radiofonico Vasily Utkin: «Il calcio femminile di fatto interessa solo quelli che sono rimasti esclusi dal [vero] calcio maschile, come negli USA, dove le ragazze giocano a calcio - o soccer [ come lo chiamano loro] - in massa». Si tratta di un pregiudizio ben radicato perché connesso con l’educazione di genere tradizionale, come spiegato da Alla Filina, co-fondatrice e allenatrice della scuola di calcio #TagSport: «Il calcio, in Russia, non è mai stato considerato uno sport femminile. Non ce ne sono di genitori che pensano che le proprie figlie possano giocare a calcio: a pallamano o a pallavolo sì, ma a calcio assolutamente no».

 

La stessa storia di Anna Kožnikova dimostra come la scarsa conoscenza del fatto che anche le bambine potessero giocare a calcio rischiava di non far mai arrivare il suo talento ai piani alti: «Quando ho iniziato a interessarmi di calcio, non avevo assolutamente idea che ci fossero squadre, o campionati femminili». Ancora nel 2018 c’erano pochissime scuole calcio femminili, e solo un approccio serio e professionale nell’introduzione al calcio avrebbe potuto giovare ad un movimento calcistico numericamente ancora troppo esiguo. Kožnikova chiedeva giustamente: se nella massima serie continuano a giocare solo 8 squadre, come avrebbero potuto mai pensare di competere con le avversarie europee? Giocando la miseria di 14 partite di campionato più quelle di coppa? Nell’articolo di Egorov si parlava di un programma di sviluppo pensato dallo stato russo per quadruplicare le calciatrici di Russia entro il 2020. Un anno prima, in occasione degli Europei del 2017, l’UEFA

i numeri del calcio femminile italiano con quelli dell’omologo movimento russo. In Italia si registravano 23.200 calciatrici, con una crescita del 79% rispetto al 2011/2012; in Russia c’era un numero praticamente pari di calciatrici (su una popolazione però ben maggiore rispetto a quella italiana, 142 milioni contro 60: 0,04% di calciatrici in Italia, contro lo 0,016%, come faceva notare

), con una crescita più modesta (+25%) rispetto a 6 anni prima.

 

https://youtu.be/ldDSSjNGat0

Amichevole dell’aprile 2017: USA - Russia 5 - 1. Nonostante il risultato, la partita della vita di Yulia Grichenko, che quasi para un rigore a Carli Lloyd, duella con Alex Morgan al limite dell’area ed evita un passivo ben peggiore contro le campionesse del mondo in carica.


 

Un ulteriore elemento negativo messo in rilievo da Egorov era la quasi assenza di pubblico: «Se in Europa e negli Stati Uniti sono in migliaia ad assistere alle partite, in Russia si contano nell’ordine delle centinaia, se non delle dozzine». La situazione migliorava un poco - secondo la testimonianza di Kozhnikova - per le giocatrici dei grandi club maschili con sezione femminile (come il suo), visto che i tifosi dei calciatori spesso supportavano per spirito di solidarietà societaria anche le calciatrici. Pochissimi, nonostante tutto, i tifosi della Nazionale femminile.

 

A domanda esplicita, Alla Filina rispondeva che secondo lei il problema principale per lo sviluppo del calcio in Russia non era la mancanza d’investimenti, bensì la mentalità patriarcale, che poteva essere cambiata solo alzando il tiro, cioè «rifiutando i metodi grezzi ancora vivi in molte scuole calcio, sostituendoli con un’atmosfera più rilassata, e facendo conoscere il calcio femminile in TV». Conscia delle dinamiche della società in cui era nata, Filina aggiungeva che non sarebbe bastato semplicemente trasmettere le partite di calcio femminile in TV, perché nessuno le avrebbe guardate, bisognava piuttosto far sì che in TV venissero mostrate delle belle calciatrici. Sulla stessa lunghezza d’onda la giocatrice della Nazionale Nelli Korovkina: «Dovrebbe esserci un po’ più di promozione del calcio femminile: le giocatrici dovrebbero essere ospitate nelle trasmissioni televisive e in quelle radiofoniche. Questo aiuterebbe il movimento sportivo a crescere». Uscite come quella della numero 1 della Nazionale (nonché del CSKA Mosca) Elvira Todua, la quale nel maggio 2021, durante uno show su YouTube, pontificava sul sesso prima delle partite («è normale che le donne possano farlo, mentre agli uomini so che molti allenatori lo hanno proibito»), paiono andare in questa direzione. Subito dopo, infatti, a microfoni ancora aperti, metteva sul piatto il ben più pressante problema della maternità: «I nostri contratti prevedono che il club sia obbligato a pagare anche in caso di maternità. Abbiamo una clausola nei nostri contratti al CSKA, ma non è così ovunque. So che in altri club il contratto viene rescisso in caso di gravidanza».

 

Egorov concludeva la sua analisi aggiungendo che le vittorie internazionali avrebbero fatto bene al movimento calcistico femminile russo: la «

» (virgolette nell’originale) contro l’Italia agli Europei dei Paesi Bassi 2017 aveva fatto registrare un risveglio di interesse in patria. Se quella sconfitta

per 2 a 1 viene ancora ricordata dalla azzurre allora in campo (così ad esempio Melania Gabbiadini, intervistata in

: «Se nell’incontro con le russe ci fosse stato un risultato diverso sarebbe stata tutt’altra storia e probabilmente avremmo passato il girone»), il ragionamento di Egorov non è affatto campato in aria. Vincere in campo internazionale rende più forti al ritorno in patria, l’ha ammesso pure

, dopo la vittoria ai Mondiali 2019: «Capiamo ora quanto vincere conti. Avremmo potuto anche non vincere, tornare in patria e aiutare lo stesso la crescita del movimento, ma capiamo bene che se vinciamo, tutto quanto cambia, è la vittoria la pressione che più di qualsiasi altra cosa è capace di coalizzare le forze».

 

Nella primavera del 2018 la 22enne calciatrice della Nazionale Margarita Chernomyrdia esprimeva

di France Press tutte le proprie speranze affinché gli imminenti Mondiali maschili potessero dare un qualche tipo di aiuto all’emergere del movimento femminile. La sua era una visione assai ottimistica, da bicchiere mezzo pieno, da scollinamento ormai effettuato: «Le ragazzine hanno visto che possono giocare a calcio, che ciò è permesso, che nessuno lo vieta, e che i genitori non devono affatto preoccuparsi». Un po’ più pessimista la 17enne giocatrice della Nazionale giovanile Olga Belousova: «Qualcuno dei miei amici dice che il fatto che io giochi è una cosa del tutto normale, altri dicono che no, non è cosa da donne. Io rispondo che a me piace, che non m’interessa quello che dicono gli altri. La cosa che conta è a che a me piace, è una cosa mia». Dopo aver confermato da testimone oculare la quasi totale assenza di un pubblico sugli spalti, l’inviato di France Press interrogava l’allenatore del Chertanovo Sergei Lavrentyev su quale fosse l’ostacolo maggiore per lo sviluppo del calcio femminile nel proprio paese, «la risposta è semplice: l’apprensione diffusa nella società nel lasciare che le ragazzine giochino a pallone, il che provoca il fatto che poi queste non abbiano di fatto scuole calcio nelle quali allenarsi». In quest’ottica, l’entusiasmo per i Mondiali maschili avrebbe forse potuto portare frotte di bambine a bussare alle porte delle scuole calcio, secondo Lavrentyev. Un ottimismo che lasciava perplessa la sua 18enne giocatrice Vicktoria Dubova, già ampiamente stanca del

e delle occhiatacce a causa delle quali sognava già, come obiettivo primario, di diventare abbastanza forte da poter andarsene a giocare all’estero in santa pace. Perché

, fuori dai confini della Russia, «nessuno vede differenze fra il calcio maschile e il calcio femminile.

giocano, e basta». (Per la cronaca,

che purtroppo Viktoria non sia ancora riuscita a realizzare il proprio sogno, e stia ancora aspettando la propria opportunità indossando la bianca maglia del WFC Chertanovo).





Fra il 2017 e il 2018, insomma, nonostante il persistere dei pregiudizi, qualcosa si stava muovendo: e non solo per il coraggio e l’impegno delle calciatrici russe e di tutti i loro sostenitori, ma anche perché dall’estero proveniva un messaggio chiaro: siete parte anche voi di un movimento più ampio. Che tale aria globalizzante fosse aria buona nei polmoni delle calciatrici di Russia è evidente non solo dalle appena citate parole di Vicktoria Dubova, ma anche da piccoli segni: come non accorgersi che il

sfoggiato da Margarita Chernomyrdina era uguale a quello della star mondiale Alex Morgan, quell’anno protagonista del film

? Non era forse lo fenomeno che era accaduto qualche anno prima, quando la piccola Barbara Bonansea (come raccontato nella sua

) vedeva e rivedeva a casa propria la videocassetta di

, flebile testimonianza che esisteva un mondo, fuori dall’Italia, dove uno spazio per calcio femminile veniva concesso?

 

Che tale messaggio empatico provenisse dagli enti deputati alla promozione del calcio femminile, cioè UEFA e FIFA, è più che scontato; ma non va sottovalutato nemmeno il ruolo degli sponsor. In occasione della Giornata della Donna 2017 Nike faceva uscire proprio per il mercato russo uno dei più spettacolari spot promozionali mai realizzati per lo sport femminile, ossia

: godibilissimo di per sé, lo diventa ancora di più alla luce della conoscenza del contesto nazionale che stiamo appunto provando a investigare.

 

https://youtu.be/Y_iCIISngdI

 

Un gruppo di bambine sale su un palco per una recita, con tanto di pubblico composto da rispettabili signori e da mogli ingioiellate. La cantante solista attacca una canzone tradizionale, dal testo assai rassicurante: «Dimmi, dimmi, dimmi / Di cosa sono fatte, le ragazzine?/ Son fatte di fiori, di anelli/ Di chiacchiere e di marmellata/ Ecco di che cosa sono fatte le ragazzine!». L’attempato pubblico non fa in tempo a continuare col proprio gongolìo compiaciuto, che dal fondo della sala fa irruzione, su un paio di pattini,

. La prima russa in grado di vincere, a Soči 2014, la medaglia olimpica nella gara individuale di pattinaggio di figura sorride silenziosa alla ragazza come a dire: “Coraggio, sorellina, va’ avanti, ché ora devi cantare i versi scomodi”. Sì, perché si aggrottano le ciglia fra le poltrone, quando dalla boccuccia della cantante escono le prime parole modificate: «Sono fatte d’acciaio,/ Di impegno e di dedizione/ Sono fatte di lotte/ Ecco di che cosa sono fatte le ragazzine!». Non contenta prosegue: «Sono fatte di tenacia/ E di grazia/ Che danno orgoglio alla nazione intera / Ecco di che cosa sono fatte le ragazzine!», mentre la ballerina

, allieva della prestigiosa Accademia del Balletto Bolshoi, s’erge sulle punte dei piedi, in un mix forse per noi eccentrico di patriottismo e di visione più tradizionale e quindi accettabile dello sport femminile. Un contro-bilanciamento semantico, in realtà, a quanto sta per arrivare, il peggiore incubo postumo per il Comitato Statale per l’Educazione Fisica e lo Sport d’era sovietica: «Sono fatte di lividi, sono fatte di pugni», verso cantato mentre in un cantuccio del teatro la campionessa di arti marziali miste

se la prende con un sacco finito lì chissà come. La strofa non è finita: «Sono fatte di coraggio/ E di pugni chiusi», mentre la skater

sfreccia per il teatro, «Sono fatte di indipendenza/ E di abilità», e scatta dai blocchi di partenza la sprinter

, «Sono fatte di passione e di cuore/ Sono fatte di dignità / Sono fatte di una determinazione/ Che è più dura della pietra/ Sono fatte di forza/ E di fuoco», e Anastasia Kotelnykova si fa forza con

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