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Storia dei quarterback Afroamericani
08 ott 2021
08 ott 2021
Da Doug Williams a Cam Newton.
(articolo)
43 min
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La prima giornata della scorsa stagione NFL ha rappresentato un unicum nella storia della Lega. Dieci quarterback afro-americani sono partiti titolari nelle loro squadre, il numero più alto di sempre in una singola giornata. Durante la stagione, il numero è diminuito, ma l’impatto della nota statistica non è certo da sottovalutare. Forse per la prima volta nella storia del football professionistico, il ruolo di quarterback e il razzismo che per anni è stato intrinseco alla posizione sono su due binari, se non paralleli, certamente più distanti che mai.

Il quarterback è il leader dell’attacco, il giocatore più carismatico della squadra, il più conosciuto tra i tifosi, quello più esposto alle critiche; al quarterback è richiesta un’intelligenza, una presenza mentale e una freddezza notevole per avere successo in NFL. Per decenni, queste caratteristiche sono state considerate esclusive dei passatori bianchi, peggiori atleti forse, ma giocatori più intelligenti e propensi a ergersi a leader rispetto ai loro corrispettivi neri, si diceva.

Michael Eric Dyson, professore alla Vanderbilt University, ha spiegato come tra gli anni ’20 e 50’ del secolo scorso ci fossero molte teorie che cercavano di dimostrare scientificamente la presunta inferiorità dei neri nei confronti dei bianchi, e di come il mancato raggiungimento di alti obiettivi nel campo dell’istruzione non fosse conseguenza della mancanza di opportunità, bensì di carenze a livello intellettivo.

Queste forme di razzismo culturale trovarono diretta applicazione anche nel gioco del football: nel 1934, la NFL iniziò a impedire l’ingresso nella Lega a giocatori afroamericani, e così fece fino al 1946 - anno della caduta delle barriere razziali in MLB con l’arrivo di Jackie Robinson ai Dodgers.

Da qui in poi, la ripresa fu molto lenta, tanto che nel 1959, tredici anni dopo, solo il 12% dei giocatori NFL erano neri, e solo nel 1965 la Lega assunse il primo arbitro nero della storia.

Oggi sono cadute molte barriere ma, come spesso accade quando si parla di grossi cambiamenti, sono state decine di migliaia di piccole picconate ad abbattere il muro, non un singolo grosso colpo. Oggi le cose non sono certo rose e fiori per i QB afroamericani ma, se ora tanti di loro hanno e avranno ruoli di primo piano nella NFL moderna, è merito di alcuni loro precursori che hanno colpito più forte di altri.

I precursori - Capitolo 1 - Doug Williams

“I’ve been waiting on this my whole life

These dreams be waking me up at night”

(Kanye West - I Wonder)

Se vi piacciono le storie americane, quelle in cui il protagonista deve superare un ostacolo dopo l’altro, anche quelli che sembrano insormontabili, prima di arrivare alla vittoria, allora Doug Williams, soprattutto, e Warren Moon sono i vostri giocatori preferiti di cui non avete ancora sentito parlare.

I due vengono da due realtà molto diverse. Il primo è nativo di un piccolo paese della Louisiana, Zachary, mentre il secondo viene da Los Angeles. In comune avevano un idolo di infanzia: James ‘Shack’ Harris, quarterback dei Los Angeles Rams negli anni ’70, un precursore.

Harris è stato il primo passatore afro-americano a partire titolare nella prima giornata di un campionato NFL; il primo a giocare e vincere una partita di playoff; il primo quarterback nero a giocare il Pro Bowl e vincerne il premio di MVP. Per tutti i ragazzini neri che sognavano di diventare quarterback NFL, Harris era il modello a cui ispirarsi perché, lui sì, ce l’aveva fatta.

I quarterback neri, naturalmente, esistevano allora come oggi. La differenza era la mancanza di un’opportunità, di cui spesso tanti ragazzi venivano privati già dai tempi del liceo. Nel loro studio, Yost e Pitts, due ricercatori universitari, hanno mostrato come a metà degli anni ’70 quasi il 34% dei quarterback a livello liceale fossero neri, percentuale che crollava al 8.7% nel passaggio al college. Di contro, poco meno del 50% dei running back a livello di high school erano neri, salvo poi crescere fino al 70% a livello collegiale. Ecco perché arrivare tra i professionisti valeva quanto un Super Bowl.

Doug Williams scelse Grambling State come college: decise quindi di rimanere nello stato in cui era nato, e di frequentare un ateneo “storicamente nero” (dall’acronimo HBCU, Historically Black College or University) agli ordini di Eddie Robinson. La sua carriera collegiale fu di alto livello; nell’anno da senior fu inserito tra le nomination per l’Heisman Trophy, il premio riservato al miglior giocatore di college della nazione, e fu inserito nella prima squadra nominata dall’Associated Press, entrambe due prime volte per un giocatore di un HBCU.

Nel 1983 la moglie era morta improvvisamente di aneurisma cerebrale, lasciando il marito a prendersi cura della figlia piccolissima. Williams si prese un anno sabbatico per poi tornare a giocare in USFL, lega minore ora defunta. Come spesso avviene in questi casi, per convincere il protagonista a tornare sui propri passi e riprendere il percorso interrotto bruscamente serve una voce amica; quella voce apparteneva a Joe Gibbs, ex offensive coordinator dei Bucs nell’anno da rookie di Williams e ora allenatore di Washington. Ai Redskins il posto di quarterback era già bello che occupato da Jay Schroeder; sophomore da UCLA, l’anno precedente aveva preso il posto del grande Joe Theismann dopo il suo infortunio alla gamba e aveva guidato la squadra a un record di 10-6, con quattro di queste vittorie su cinque partite arrivate con lui al comando dell’attacco. In parole povere, Gibbs stava offrendo al suo ex-QB un posto da riserva, ma Williams non si fece molti problemi ad accettare: la USFL aveva chiuso i battenti e lui era senza lavoro con una figlia piccola a carico.

La storia da film di Williams si arricchisce di un nuovo capitolo, che nemmeno lui sa cosa gli potrebbe riservare. Nel 1986 non scende in campo, limitandosi a guardare le spalle al suo titolare. Nel Conference Championship di quell’anno contro i Giants sembra arrivato il classico momento sliding doors con l’infortunio di Schroeder. Williams si scalda, entra in campo ma il QB titolare lo rimanda indietro con un gesto seccato della mano. Williams pare un bambino che insiste per giocare con un genitore troppo impegnato a lavorare. Cose da grandi, insomma, e Williams non è pronto (“Il momento più imbarazzante della mia vita”, raccontò in seguito).

La stagione 1987 è un frullatore, per la NFL - impegnata con lo sciopero dei giocatori che costrinse le squadre ad impiegare giocatori “di riserva” per qualche giornata - e per i Redskins, che cambiano quarterback cinque volte in stagione regolare alternando i due. Schroeder sopravvive a una quasi-trade ai Raiders, che Gibbs aveva già annunciato di persona a Williams salvo poi cambiare idea (sic). Alla fine è proprio lui, che godeva del favore dello spogliatoio, a spuntarla sul rivale, che comunque aveva vinto 8 delle 10 partite disputate da titolare. Il giocatore da Grambling State, che ha qualche malanno fisico così come il precedente titolare, viene gettato nella mischia in occasione dei playoff, riuscendo a portare i suoi al Super Bowl.

Il resto è storia. Williams subisce la rottura del legamento crociato del ginocchio, si prende qualche snap di pausa prima di tornare in campo. Lancia per 228 yard e quattro touchdown in un solo quarto, record tuttora imbattuto nel Super Bowl, e trascina i Redskins al successo sui Broncos. Williams diventa l’eroe nero di cui gli afroamericani hanno bisogno; non è solo una star, ma anche, e soprattutto, la dimostrazione concreta che tutte le teorie pseudo-scientifiche sull’incapacità dei passatori neri di imporsi in NFL sono da buttare.

Come disse Shack Harris, quel Super Bowl fu «la partita che fece capire all’America che i quarterback neri erano arrivati per rimanere».

I precursori - Capitolo 2 - Warren Moon

Negli anni ’80, ispirato da James Harris, Warren Moon si stava facendo largo nella Lega. La sua storia personale inizia in maniera diversa da quella di Williams: passa l’infanzia e l’adolescenza in un tranquillo quartiere di LA abitato da molti bianchi. Le difficoltà, però, si affacciano presto nella sua vita. Il padre muore per complicanze relative alla sclerosi quando Warren era ragazzino; lui è anche il fratello grande e finisce per diventare l’uomo di casa. La sua maturità è straordinaria rispetto a quella dei coetanei. È soprannominato Pops, il Papà, negli anni delle medie e del liceo.

In uscita dall’high school riceve una borsa di studio da Arizona State, che però vuole farlo giocare da defensive back. Se c’è una caratteristica che non manca in Moon è la sicurezza nei propri mezzi. Vede il suo ruolo di quarterback titolare in NFL non come un sogno ma come un obiettivo, una vocazione. «Sono nato per giocare quarterback» dice.

Moon non vuole saperne di altri ruoli e cestina subito la proposta di ASU. L’unico ateneo che gli offre l’opportunità è West LA, un junior college in cui per un anno mette a ferro e fuoco le difese avversarie. Nel frattempo continua a perorare la propria causa, sgattaiolando dentro la sala video della squadra, prendendo le cassette con i filmati delle sue partite e inviandoli a programmi universitari di primo livello: Washington si convince a puntare su di lui. Fa subito breccia nel cuore dei compagni che lo chiamano “Daddy Warren”.

Con i propri tifosi, invece, le cose vanno meno bene. In campo piovono “boo” dagli spalti; fuori, non mancano le lettere di protesta inviate al dipartimento atletico di ateneo per chiedere la rimozione di Moon dalla squadra. Fedele alla propria natura, e guidato da una fiducia incrollabile nei propri mezzi e dalla determinazione di voler riuscire, Moon risolleva il programma di Washington, portandolo alla vittoria nel Rose Bowl del 1978 contro Michigan, finendo anche per essere premiato come miglior giocatore della partita.

L’anno da senior si conclude alla grande e, in un mondo ideale, Moon sarebbe finito tra le primissime chiamate al draft NFL di quell’anno. La strada però è più lunga e prevede una lunga deviazione in Canada.

Moon viene convinto che nessuno avrebbe speso una scelta per lui se non nei giri inferiori, così, per non rimanere invischiato nell’anonimato, decide che il suo approdo in NFL avrebbe potuto aspettare. Se ne va in Canada, a Edmonton, per sei stagioni. Qui vince cinque titoli e diventa ben presto il QB più forte a non giocare in NFL. Nel 1984, diventato free agent, decide che è arrivato il momento di fare il grande salto. Sono due le squadre più accreditate per firmarlo: Seattle, dove viveva la famiglia, e Houston. Con una decision stile LeBron - Moon era diventato davvero un personaggio “larger than life” già prima di giocare un singolo snap in NFL - a sorpresa annuncia il passaggio agli Oilers, che coglie tutti di sorpresa.

Houston, che aveva puntato sul suo vecchio allenatore a Edmonton per dargli un viso amico con cui iniziare questa nuova avventura, gli fa firmare anche un contratto di 5 anni a sei milioni totali, il più ricco per l’epoca. Così come avvenuto con i Bucs per Williams, anche gli Oilers sono una squadra impresentabile, con un bassissimo livello di talento attorno al quarterback; il ragazzo di LA viene presentato come il salvatore della patria, ma non può lanciare il pallone e riceverlo pure.

Le cose cambiano dal 1987, ma solo con un'infusione di talento generale; tra il ’90 e il ’91, grazie soprattutto a un sistema offensivo chiamato Run’n Shoot, Moon accumula statistiche oggettivamente incredibili per l’epoca: quasi 10mila yard su passaggio e 56 TD in due stagioni.

Il suo stile spettacolare lo rende famoso quanto l’ossessione per le unghie curate. Chi ci ha giocato assieme, o contro, ricorda Moon come un passatore che lanciava palloni dalla spirale perfetta e che, una volta rilasciati dalla mano, producevano un suono simile a uno strappo, come se qualcosa sfregasse contro la pelle dello sferoide prolato. Moon dice che è tutto merito delle unghie, che cura maniacalmente e che gli consentono di avere la giusta presa sul pallone e darle lo spin perfetto.

Tra Houston, Minnesota, Seattle e una brevissima parentesi a Kansas City, Moon non riesce a vincere nulla, pur vivendo una carriera leggendaria che lo porta nella Hall Of Fame, primo quarterback afroamericano a riuscirci. Sia lui che Williams cercano di restituire al mondo del football quello che hanno ricevuto loro. L’ex Redskins torna a Grambling State come allenatore in due spezzoni, tra il 2000 e il 2003 e il 2011 e il 2013, con la stessa università che nel 2019 ha intitolato in suo onore una strada all’interno del campus.

Foto di George Gojkovich / Getty.

Moon è sempre stato sensibile alle tematiche razziali all’interno del football. É confidente di Cam Newton, e l’anno scorso non ha mancato di esprimere il proprio disappunto sulla questione degli atleti che si inginocchiano durante l’inno americano, rivolgendosi specificatamente a Drew Brees che li aveva criticati. È ancora convinto, e a ragione, che il razzismo sia radicato nella NFL nonostante l’apertura presente ormai da anni verso i quarterback neri: basta vedere la scarsità di allenatori, general manager o proprietari afroamericani.

Moon è sempre stato certo di avere una missione nel mondo del football, che non si è esaurita con il suo impegno da giocatore. Durante il proprio discorso a Canton, Ohio, dove ha sede la Hall Of Fame, Moon sottolinea un concetto che si era sentito dire tante volte nella propria vita: «Warren, you gotta represent», ovvero «Warren, devi rappresentarci». A parlare sono tanti quarterback neri che, a differenza sua, non hanno avuto l’opportunità di competere e gareggiare.

Le rockstar - Capitolo 1 - Randal Cunningham

“The streets only gon’ love you if you keep it real”

(Migos - On a Mission)

Anche in questo capitolo, le due figure protagoniste hanno diversi elementi in comune, sia umanamente che sul rettangolo. Randall Cunningham e Michael Vick sono stati due assoluti precursori, che hanno avuto successo proprio perché gli appassionati potevano guardarli sapendo benissimo che il loro modo di giocare rispecchiava con esattezza la persona. Per la comunità afro-americana ciò significava potersi rispecchiare in una celebrità che si era ritagliata un posto di primo piano nella cultura sportiva e popolare statunitense senza perdere la propria autenticità. Partiamo da qui.

Secondo il Cambridge Dictionary, l’aggettivo unapologetic si usa per designare una persona «che non mostra rimorso per aver causato problemi o infelicità». Randall Cunningham non ha mai causato infelicità, al massimo irritazione; di sicuro, ha sempre voluto fare le cose alla propria maniera. Stiamo pur sempre parlando di un ragazzo poco più che ventenne che deve abbandonare il sole della California, era nato a Santa Barbara, per trasferirsi a Philadelphia, che era esattamente agli antipodi del suo mondo, sia geograficamente che climaticamente.

Al training camp degli Eagles, che lo avevano scelto con la seconda chiamata assoluta al draft del 1985, si presentò in jheri curl - tipica capigliatura afro-americana anni ’80, caratterizzata da capelli ricci piuttosto lunghi e resi lucidi grazie al gel - Porsche e maglietta “any question: ask my agent”: non certo il vostro tipico rookie.

Per sua stessa ammissione, dopo aver giocato un’ottima pre-season, Cunningham era convinto di poter mettere a ferro e fuoco la NFL già dalle sue prime partite ufficiali. Niente di strano, considerando il personaggio. Tuttavia, il suo impatto col football professionistico è decisamente meno scintillante: gioca solo quattro partite da titolare, perdendone tre e, al contempo, perdendo anche il posto da titolare, che ritorna a chi lo deteneva fino alla stagione precedente, Ron Jaworski.

Nella stagione successiva, il cambio in panchina cambia la carriera di Cunningham. Agli Eagles arriva Buddy Ryan, una delle migliori menti difensive nella storia del gioco, che gradualmente dà fiducia al suo giovane QB. Jaworski, con cui Ryan non instaura un bel rapporto, rimane il titolare, ma gli snap di Cunningham aumentano grazie alle intuizioni del suo coach. Fu lui a inventare la figura del nickel quarterback, un modo per dare minuti a Cunningham inserendolo in campo sui terzi down come running back o ricevitore. In questi casi, le difese sapevano che, una volta che gli Eagles si disponevano con due passatori di ruolo in campo, il ragazzo di Santa Barbara sarebbe stato coinvolto in qualche modo; tuttavia, anche solo la sua presenza e l’attenzione che riesce ad ottenere dalle difese basta a rendere l’attacco più imprevedibile.

Il numero 12 degli Eagles prende il posto da titolare indiscusso nella stagione 1987, ma è l’anno seguente in cui il suo nome, e soprattutto le sue giocate, cominciano a prenderlo, rendendolo uno dei giocatori must see per gli appassionati di football.

Il 10 ottobre 1988 gli Eagles sono in campo per una classica NFL come la sfida divisionale con i New York Giants. A ridosso della goal line, Cunningham finta il consegnato per il running back e viene attaccato da Carl Banks; il linebacker dei Giants punta alle gambe di Cunningham che però in qualche modo resiste al colpo, aiutandosi con le mani per rimanere in piedi, e lancia in endzone una freccia per il touchdown di Jimmy Giles. Questo è ciò rimane negli highlights di una partita che Cunningham vince lanciando per 369 yard e tre touchdown, senza intercetti.

Nel 1989 stabilisce un record di cui verosimilmente in pochi sono a conoscenza, un punt di 91 yard ancora contro i New York Giants, quarto punt più lungo nella storia della NFL. Ovviamente, la scelta di Cunningham come punter non fu casuale, avendo già ricoperto il ruolo in gioventù.

Tornando a quello che il californiano sapeva fare meglio: al termine della stagione 1990, conclusa con 3466 yard su passaggio, 30 TD e 13 intercetti, oltre a 942 yard e 5 mete su corsa, Cunningham viene votato MVP dall’Associated Press. La sua popolarità è ai massimi.

Finisce sulla copertina di Sports Illustrated con il titolo “The Ultimate Weapon”: nessuno all’epoca aveva mai visto un quarterback così abile a passare e con doti atletiche così spiccate, aiutato da una personalità e un carisma magnetici. Diventa una star in NFL ma anche nel paese in generale. Una rete locale lo contatta per condurre uno show televisivo tutto suo che ben poco aveva a che fare con il football e per cui finisce anche per vincere un EMMY. Un giorno molla all’intervallo una partita di pre-season per uscire con Whitney Houston. Viene paragonato a Jordan e Gretzky per l’impatto sul gioco, ma soprattutto per lo stile di gioco rivoluzionario con cui si è imposto sui contemporanei, anche se probabilmente era più simile a Magic Johnson per indole dentro e fuori dal campo.

A proposito di campo, le cose iniziano a incrinarsi con l’arrivo di un nuovo coach, Rich Kotite, che gli chiede di cambiare il proprio stile di gioco in favore di uno più conservativo, per così dire: Kotite lo voleva trasformare in un pocket passer, un passatore che rimane nella tasca. Provate a parlare a un leone e a convincerlo con le buone di entrare in una gabbia.

L’ultima cosa da chiedere a uno spirito libero come Cunningham è di inserirlo in un contesto dove le sue abilità e la sua capacità di improvvisazione vengono castrate. Ecco perché decide di rispondere al proprio allenatore con una campagna di marketing chiamata “Let me be me”, organizzata con un amico esperto del settore e volta a creare magliette e cappellini con la suddetta frase stampata in bella vista.

Kotite in un certo senso cercava di proteggere il proprio QB tenendolo più o meno al sicuro dentro la tasca, anziché farlo scorrazzare per il campo in balia dei colpi degli avversari; peccato che nemmeno questo servì a evitare a Cunningham un infortunio ai legamenti del ginocchio. Il giocatore aveva quindi avuto sulla propria pelle una dimostrazione che giocare in maniera più conservativa non gli avrebbe risparmiato problemi fisici, ma lo avrebbe solo reso più scontento. Ecco perché, quando si rimette dall’infortunio, non manca di lanciare una nuova campagna di marketing, questa volta dal titolo “He’s back! Scrambling”, con un’aquila a separare le due frasi.

Cunningham vuole giocare alla propria maniera e se proverà a ostacolarlo non gliele manderà a dire.

Cunningham non si trovò mai bene con un allenatore come successe con Buddy Ryan, che lo aveva capito meglio di chiunque altro e non aveva mai cercato di adattarlo ai propri schemi. Una riedizione del controverso rapporto tra lui e Kotite si ha con il nuovo coach degli Eagles, Ray Rhodes; Rhodes, arrivato a Philadelphia nel 1995 assieme al suo giovane offensive coordinator, un certo Jon Gruden, vuole inserire il numero 12 nella West Coast Offense, un sistema offensivo caratterizzato da passaggi brevi e veloci per tenere le difese sulla spine e, soprattutto, da una terminologia tecnica molto precisa e articolata. Ci vuole un po’ perché Cunningham riesca a farla propria, e infatti il coach decide di metterlo temporaneamente in panchina.

L’episodio più controverso di quella stagione arriva nella settimana che precede una delle due partite stagionali contro i rivali dei Dallas Cowboys. Durante quella settimana, Cunningham vola a Las Vegas dalla moglie che ha partorito, lasciando di punto in bianco i compagni e, soprattutto, senza dare un recapito telefonico all’allenatore. Ovviamente, come insegna la legge di Murphy, se qualcosa può andare male, lo farà e il QB scelto per sostituire Cunningham si infortuna. L’irrequieta stella degli Eagles è costretta a sostituirlo ma, senza l’adeguata preparazione settimanale, gioca una partita orrenda, condannando i suoi alla sconfitta.

È il punto più basso della relazione tra il giocatore e gli Eagles, tanto che a fine stagione decide di fare le valigie e prendersi un anno sabbatico dal football. Cunningham ormai non sopporta più la pressione di essere il giocatore franchigia e una delle personalità più in vista dello sport americano. Inoltre, se non può nemmeno giocare senza la libertà di cui poteva godere con Ryan, allora non ha davvero senso rimanere dov’è.

Ecco perché, dopo un anno passato a ricaricare le batterie, sceglie i Vikings per il suo ritorno al football giocato. Il 1998 è una delle sue migliori stagioni, culminata anche con l’inserimento nella formazione All Pro della Lega, una prima volta per lui. Avrebbe potuto essere un anno leggendario, per lui e la franchigia. Ai riconoscimenti personali, tra cui anche un’altra copertina di Sports Illustrated, questa volta dal calzante titolo “Born Again”, va aggiunta la grande stagione dei Vikings, che arrivano al Conference Championship da favoriti ma perdono in pieno stile Vikings, all’overtime con un field goal sbagliato da Morten Andersen, uno dei migliori kicker della Lega, a tempo quasi scaduto.

È l’ultimo anno ad alti livelli per Cunningham, che ha dichiarato di aver vissuto una carriera senza rimpianti. Nessuno era genuino come lui, nessuno aveva il suo stile di gioco. Non ha vinto trofei di squadra e non è mai stato nominato per la Hall Of Fame - uno dei più grossi errori commessi dalla NFL secondo molti - ma il semplice essere Randall Cunningham è bastato a renderlo uno dei giocatori di football più amati di sempre.

Le Rockstar - capitolo due - Michael Vick

Se volessimo paragonare Michael Vick a un atleta extra-football, il nome che viene in mente più rapidamente potrebbe essere quello di Allen Iverson. Anche chi non è avvezzo a questo sport capirebbe molte cose. I punti in comune non mancano, a partire dal luogo di nascita, Newport News, Virginia, comunemente chiamato Newport Bad News dai locali, segno che la cittadina non era esattamente un luogo idilliaco e universalmente conosciuto per le belle notizie che uscivano da lì.

Cresciuto nei project di Ridley Circle, zona est della città, il padre, poco più che adolescente come la madre, gli trasmette la passione per il football mettendogli in mano - rigorosamente sinistra, benché Vick curiosamente abbia sempre usato la destra per qualunque altra attività - un piccolo pallone. Negli anni delle elementari eccelle nel basket e nel baseball con le squadre della sua scuola. È la madre che, per aiutarlo a gestire la rabbia, lo iscrive a un Boys and Girls Club locale per tenerlo impegnato anche fuori dalla scuola; in quei pomeriggi Vick scopre il proprio amore per il football.

A facilitare la sua transizione sportiva ci pensa anche Aaron Brooks, ex quarterback - tra gli altri - dei Saints, nonché suo cugino. Una volta che Vick si iscrive alla Warwick High School, è proprio Brooks a incoraggiarlo a entrare nella squadra di football della scuola, convinto che sarebbe riuscito a diventare titolare. Coach Tommy Reamon apprezza le qualità del ragazzo, ma è convinto che farebbe meglio a guadagnare esperienza nel Junior Varsity team, una specie di squadra riserve. Nelle prime sei partite del suo campionato, Vick, che giocava già come quarterback, lancia per 20 TD, mentre la squadra di Reamon fatica terribilmente. È il coach a sostituire il QB titolare della prima squadra, che finisce a giocare wide receiver, proprio con Vick.

Lo stile di gioco di Vick, così spregiudicato e libero da vincoli, nasce proprio ai tempi del liceo. Reamon, che aveva preso Vick sotto la propria ala, gli offre carta bianca, incoraggiandolo a correre e uscire dalla tasca per minimizzare le mancanze della linea offensiva.

Una volta terminato il liceo, decide di rimanere a casa anche negli anni del college, optando per Virginia Tech, università locale. Il suo obiettivo di vincere il titolo nazionale da quarterback freshman, sarebbe stato il primo dal 1985, si infrange in finale contro Florida State. Pur non vincendo il trofeo più importante, però, al secondo anno VA vince 11 partite su 16 in stagione regolare, oltre al Gator Bowl contro Clemson, proprio grazie a tre touchdown di Vick.

Dopo due anni, il figlio di Brenda è sicuro di aver già dimostrato al mondo collegiale tutto il proprio valore. Quella di lasciare l’università non è una scelta facile; benché sappia che le probabilità di essere scelto al primo giro sono alte, un quarterback come lui, non convenzionale (tecnicamente parlando, un option quarterback, perché può essere usato come passatore ma anche come corridore), avrebbe potuto incontrare parecchio ostracismo nella NFL di inizio millennio. Eppure, gli Atlanta Falcons sono più che sicuri di volergli affidare la loro franchigia.

I Falcons erano una franchigia derelitta, che in 35 anni di storia era avanzata solo sei volte al Super Bowl e non aveva mai vissuto due stagioni consecutive con un record positivo. Al draft 2001, Atlanta avrebbe scelto per quinta, ma era talmente convinta di voler fare di Vick il proprio quarterback franchigia da spedire a San Diego un pacchetto fatto dal primo e terzo giro di quell’anno e il secondo del 2002 per salire alla posizione numero 1. Atlanta si assicura il giocatore più elettrizzante della nazione nella posizione più importante, e i Chargers scelgono un futuro Hall of Famer come LaDainian Tomlinson alla 5.

Il primo anno si conclude con un discreto record di 8-8, anche se la squadra si era spinta fino a un record di 6-4, salvo poi arrivare claudicante alla fine della stagione. L’episodio che meglio racconta la personalità di Vick risale alla sua prima partita da titolare; durante un timeout televisivo si toglie il casco dentro cui aveva riposto un burrocacao, se lo passa sulle labbra, si rimette il casco e, alla ripresa delle ostilità, segna un touchdown su corsa da 25 yard. Easy.

Come ogni piccola mania che riguarda il comportamento dell’essere umano, però, anche la passione di Vick per le labbra sempre umettate al punto giusto ha una spiegazione. Una sua compagna delle medie, Litisha Hymon, un giorno si rivolse a lui facendogli notare come le sue labbra fossero tutte screpolate. Andò in bagno, si specchiò e sì, la sua amica aveva ragione. Da quel momento, Vick ha sempre prestato attenzione alle sue labbra, anche a costo di spendere mille dollari all’anno in burrocacao.

Nella stagione successiva, conclusa dai Falcons con un anonimo 9-6-1 valido comunque per i playoff, chiunque in giro per la Lega capisce perché Vick è destinato a diventare un’icona di questo sport una giocata mozzafiato dopo l’altra. La summa del talento di Vick per il football arriva in una vittoria all’overtime contro i Minnesota Vikings. Prima della partita, il coach dei Falcons, Dan Reeves, aveva detto a Vick più o meno così «se la difesa dei Vikings marca a uomo, e non c’è nessuno libero a cui lanciarla, allora vuol dire che non stanno prestando attenzione a te». Mai parole furono più azzeccate. Vick corre per 173 yard, oltre a due mete su corsa, tutt’oggi record di tutti tempi per yard corse da un quarterback in una singola partita.

Nei playoff, Vick si toglie anche la soddisfazione di battere i Packers a casa loro, sotto la neve, dove nessuno fino a quel momento era mai riuscito a vincere una partita di post-season.

Quella del 2003 è una stagione negativa, passata in infermeria. Vick, però, diventa comunque il volto giovane della NFL, quello che i ragazzini vogliono imitare nello stile, e non solo di gioco. La visiera nera con cui si protegge gli occhi - di solito prerogativa di running back o ricevitori - e la sua capigliatura raccolta nelle braids lo rendono unico, proprio come il suo illustre concittadino che negli stessi anni solcava i parquet NBA, tanto aggraziato e armonico nei movimenti, quanto letale.

Nike, con cui Vick aveva un contratto e che gli fornisce scarpe da gioco personalizzate, esce con una pubblicità incredibile chiamata “The Michael Vick Experience”. I protagonisti sono persone comuni in fila fuori dal Georgia Dome, il vecchio stadio dei Falcons, pronti a infilarsi un casco da gioco e un’imbragatura simile a quella delle seggiovie; vengono quindi catapultati all’interno di un drive condotto da Vick, cioè ai 200 all’ora, tra avversari evitati per un pelo, cambi di direzione e una capriola finale per entrare in endzone, dove li accoglie un ologramma dello stesso Vick dicendo loro: «Questa azione non era nel playbook, ma dovremmo mettercela». Tutti vogliono essere Mike Vick.

Ancora non lo sapevamo, ma quello era il miglior Vick mai ammirato su un campo da football, prima che un infortunio alla gamba lo mettesse fuori gioco nella stagione successiva - non a caso perdente per i Falcons - e un nuovo allenatore, Jim Mora, cercasse di imbrigliarlo nel nome del West Coast offense. Nonostante alcune difficoltà iniziali, Vick impara alla grande il playbook, e la squadra sembra pronta per fare il passo avanti necessario per diventare una contender: peccato che al successo in stagione regolare non corrispondano gli stessi risultati nei playoff, dove Atlanta ha sempre vita breve.

C’era anche un’altra cosa che non sapevamo, però, e cioè che Vick, assieme ad amici di infanzia e parenti, è coinvolto in un giro di combattimenti clandestini tra pitbull che si tengono in una tenuta in Virginia appartenente proprio a Vick: è lui, poi, a disporre dell’autorità sui cani sconfitti, finiti regolarmente uccisi. Fan inferociti e associazioni di animalisti lo attaccano, e Vick viene scaricato da sponsor e sospeso per un tempo indefinito dalla NFL. Nell’autunno del 2007 vene condannato a 23 mesi di carcere per crudeltà su animali.

Una volta uscito, la sua grande occasione di redenzione: la chiamata dei Philadelphia Eagles. La mossa è approvata dal proprietario Jeffrey Lurie, che vuole dare una nuova (ultima?) possibilità su un campo da football a Vick. Negli Stati Uniti, il sistema carcerario non si cura di ciò che faranno i detenuti dopo aver scontato la pena, e il concetto di reinserimento sociale è totalmente lontano dalla cultura americana: poter avere una seconda possibilità una volta uscito dal carcere e scontato con gli interessi il più grosso errore della propria vita è il massimo che il ragazzo della Virginia possa desiderare, e vuole sfruttarla al massimo.

Chiaramente in molti si adirano con la dirigenza degli Eagles e con Lurie stesso (non il presidente Obama, che lo lo aveva contattato telefonicamente per complimentarsi per il gesto), ma la situazione è chiara: Vick sarebbe stato la riserva di Kevin Kolb e al primo sgarro sarebbe stato fuori dagli Eagles e dalla NFL, stavolta per sempre.

Ebbene, con la maglia degli Eagles Vick vive l’ultimo grande sussulto di una carriera interrotta sul più bello. Nel 2010, dopo l’infortunio di Kevin Kolb, diventa titolare agli Eagles mettendo assieme la miglior stagione della carriera per touchdown totali, 30, e la seconda migliore di sempre per yard lanciate (3018).

Agli Eagles Vick vive una seconda vita. Ai Falcons era un ragazzino che veniva da un ambiente problematico, circondato da persone che quell’ambiente non l’avevano mai lasciato fino a diventare uno degli atleti più popolari dello sport americano. In una intervista radiofonica del 2010, Vick ha ammesso di aver sprecato gli anni di Atlanta, di non essersi allenato come un vero professionista.

Alcune persone, molte più di quelle che pensiamo, devono toccare il fondo prima di poter risalire. A volte dentro quel fondo ci finiscono loro con scelte sbagliate e ne escono con la maturità. La carriera, e la vita, di Michael Vick sono state delle montagne russe vissute alla massima velocità, tra i guai extra-campo e i difensori che ne volevano lo scalpo. Loro, almeno, non sono mai riusciti a prenderlo.

Gli incompresi - Capitolo 1 - Donovan McNabb

“Have you forgotten who you are?

Oh you think you’re a star

Why you frontin’ (you ain’t nothing)

You went from nothing to something

But something means nothing

If your people still wanting”

(Jurassic 5 - If You Only Knew)

La carriera di Donovan McNabb non ha conosciuto mezze misure. É stato uno dei più forti quarterback visti in maglia Eagles, e al contempo una figura polarizzante. La famiglia McNabb è cresciuta nel famigerato South Side di Chicago, zona localmente conosciuta come Chi-raq, dove gli omicidi e la violenza erano all’ordine del giorno. Se non altro, McNabb ha entrambi i genitori, cosa non proprio comune per chi nasce in quegli ambienti; il loro duro lavoro - il padre è elettricista e la madre infermiera - consente alla famiglia di trasferirsi appena le condizioni economiche lo hanno permesso. Dolton, la cittadina non lontana dalla capitale dell’Illinois, è un luogo diametralmente opposto a quello da cui la famiglia veniva, e in effetti le difficoltà di inserimento non mancarono.

I McNabb trasferiscono in un quartiere esclusivamente bianco in una città a maggioranza bianca; nelle settimane seguenti al trasferimento, i loro vicini li guardano come alieni; non passa molto prima che le cose cambino, ma non prima di aver subito angherie di tutti i generi.

Donovan si guadagna una decorata carriera collegiale a Syracuse, dove vince il premio di Rookie dell’anno della Big East, distrugge il record di Kevin Bell per il miglior passer rating da freshman in NCAA (quello di McNabb era di 162.3) e vince il Gator Bowl contro Clemson, il tutto al primo anno.

Viene anche usato sporadicamente da Jim Boeheim nella squadra di basket dell’università, ma il suo ruolo è più che altro quello di cheerleader dalla panchina.

Al draft del 1999, un momento storico per i quarterback neri, con sei passatori afro-americani scelti, McNabb ha molti ammiratori tra dirigenti e scout delle squadre, ma anche parecchi detrattori; c’è chi vede in lui un nuovo Brett Favre e chi ne sottolinea solo le abilità atletiche e le difficoltà che avrebbe potuto trovare nell’adattarsi alla complessità del gioco dei professionisti. Niente di nuovo, insomma, per un quarterback afroamericano.

A sceglierlo sono gli Eagles, che avevano uno degli attacchi peggiori della Lega. Al suo secondo anno in NFL, il suo primo da titolare, trascina gli Eagles a un record di 11-5. A inizio stagione raccoglie il fardello lasciato dall’infortunio del running back titolare, Deuce Staley, diventando il miglior corridore della squadra con oltre 600 yard e 6 touchdown: il suo impatto è tale da ricevere sufficienti voti per finire secondo nella classifica di MVP dietro a Marshall Faulk dei Rams.

McNabb è il leader all-time della franchigia per yard su passaggio, con il suo arrivo rivitalizza la squadra e la conduce a cinque finali di Conference e a un Super Bowl. Eppure, la sua figura è al centro di molte controversie durante la carriera, più legate a fattori esterni che strettamente legati al campo.

Nel 2003, Rush Limbaugh, conduttore radiofonico conservatore e tra i più famosi degli Stati Uniti, esprime un’opinione controversa e palesemente in malafede a Sunday NFL Countdown: secondo lui McNabb è un giocatore sopravvalutato dalla stampa progressista, che cerca un giocatore nero da elevare a nuovo eroe della NFL. La sua unica fortuna, dice, è di avere una difesa che lo agevola. Dopo pochi giorni, Limbaugh viene licenziato da ESPN. Non rimarrà l’unica volta in cui parlerà male di McNabb.

È curioso che i due più feroci critici di McNabb - perlomeno tra le personalità famose - sono afroamericani anch'essi: Bernard Hopkins, ex pugile, e J. Whyatt Mondesire, autore di una rivista rivolta ad afroamericani, nonché presidente della National Association for the Advancement of Colored People. Per loro, McNabb è il tipico “Zio Tom”, cioè un nero che ama compiacere i bianchi, allontanandosi dalle proprie origini e avvicinandosi al loro modo di pensare. I motivi del loro risentimento nei confronti dell’ex quarterback riguardano in generale la sua mancanza di leadership, mostrata in due occasioni principali.

Secondo Mondesir, McNabb è “un venduto” perché aveva deciso di abbandonare progressivamente le corse per diventare un quarterback più tradizionale. Che McNabb abbia corso sempre meno in carriera è cosa facilmente dimostrabile: che lui l’abbia fatto pensando di piacere di più ai tifosi e agli appassionati caucasici è un’ipotesi tirata per i capelli. Bernard Hopkins, invece chiama testualmente McNabb un “Uncle Tom” per il modo in cui affrontò due situazioni delicate.

La prima è quella relativa ai commenti razzisti di Limbaugh, a cui il giocatore semplicemente non replicò. La seconda riguarda un episodio avvenuto negli anni conclusivi della sua carriera, nei minuti finali di una partita giocata da Washington contro Detroit. Coach Mike Shanahan lo toglie dal campo in favore di Rex Grossman perché, a suo dire, McNabb non aveva “la resistenza cardiovascolare” per eseguire bene un two-minute drill - cioè un drive con due minuti da giocare sul cronometro della partita - e alluse al fatto che il giocatore non avesse le capacità intellettive per imparare il suo complesso playbook. In nessuno dei due casi, né con Limbaugh, né con Shanahan, McNabb disse una parola, lasciandosi scorrere addosso le critiche: secondo Hopkins, il giocatore avrebbe dovuto usare la piattaforma di cui poteva godere per affrontare tematiche di razzismo e pregiudizi che ancora affliggevano i quarterback di colore.

Interpellato qualche settimana dopo per capire se avrebbe aggiustato il tiro, Hopkins rincara la dose parlando di quello che succedeva nel proprio sport: «Nella box non ho mai visto un pugile venire dalla periferia (intendendo “da un quartiere benestante”) ed avere successo. Ci dev’essere qualcosa nel DNA di quella persona, qualcosa legato alle sue esperienze, che la rende agguerrita. In McNabb non vedo niente di tutto ciò».

In mezzo a mille polemiche, una inaspettata mano tesa per McNabb arriva da Rush Limbaugh. Prende le sue difese dicendo che «Quel povero ragazzo non ha un attimo di tregua». Specifica che lui, all’epoca, non si era permesso di dire nulla sulla blackness dell’uomo, ma che le sue critiche erano rivolte solo ed esclusivamente al mondo dei media.

Il passato difficile di McNabb è tutto da dimostrare. Suo padre, a proposito dell’arrivo nel quartiere bianco di Mount Carmel, ricorda: «Eravamo la prima famiglia afroamericana del quartiere, e il comitato di benvenuto non fu accogliente. Ci entrarono in casa, ruppero le finestre, urinarono sul pavimento, fecero dei buchi nel muro e sporcarono il muro della casa con vernice spray: era il loro modo per dirci che non eravamo graditi. (…) E quando pensi di esserne fuori, ecco che all’improvviso tornano e attaccano un altro membro della famiglia (riferendosi alle parole del giornalista nei confronti del figlio)».

Queste parole vengono pronunciate nel 2004, sette anni prima delle dichiarazioni di Hopkins. Per un nero, chiamare “Zio Tom” un altro nero è segno di grandissimo disprezzo, perché significa voler vendere se stessi e la propria identità per compiacere chi per secoli ti ha disprezzato e ti ha considerato inferiore.

Un aspetto passato probabilmente sottotraccia, soprattutto agli occhi dei suoi numerosi detrattori, è stato aprire la QB Legacy Foundation, una sorta di camp/simposio destinato in primis a ragazzi afroamericani di scuole medie e superiori. Assieme a lui ci sono, tra gli altri, Akili Smith, terza scelta assoluta al draft del 1999, e Joshua Harris, allenatore personale di Lamar Jackson. L’obiettivo di questo camp “ibrido”, aperto anche ai ragazzi bianchi, non è tanto quello di educare i giovani da un punto di vista pratico, quanto da un punto di vista teorica, per mostrare loro cosa significa diventare quarterback professionisti essendo neri, ma anche come comportarsi nella crescita verso l’età adulta. L’idea di base del camp è che un atleta non sia solo un atleta, ma anche un bravo cittadino: ricordiamoci che la percentuale di ragazzi che esce dal college con in mano un contratto da giocatore professionista è infinitesimale rispetto al totale. Bisogna prepararli alla vita.

Al netto della questione razziale, c’è sempre sempre stata un’attenzione morbosa su McNabb e sul suo rendimento in campo. Hanno chiesto per anni a lui, a compagni e avversari se avesse effettivamente vomitato prima di iniziare un’azione al Super Bowl contro i Patriots, insinuando più e più volte che non fosse il leader giusto per guidare una squadra alla vittoria perché facilmente sopraffatto dall’ansia. Gli hanno chiesto se, alla cerimonia del ritiro della sua maglia, si aspettava che sarebbe stato fischiato - pensate quante volte una domanda del genere è stata posta a un giocatore prima di un momento così solenne e significativo per lui. Ha un rapporto conflittuale con Terrell Owens, storie tese vecchie oltre un decennio che, a quanto pare, vengono costantemente riaccese (non certo per volontà sua che, come avrete capito).

Quando disse che «Essere un quarterback nero significa anche dover fare sempre di più (per essere apprezzati)» forse non aveva ancora capito fino a che punto.

Gli incompresi - Capitolo 2 - Cam Newton e Lamar Jackson

Cam Newton è stato uno dei giocatori più iconici e rappresentativi della NFL nel decennio appena passato, e Lamar Jackson ha tutto per fare lo stesso negli anni duemilaventi. Eppure, entrambi hanno ricevuto, e stanno tuttora ricevendo, un mare di critiche, seppur per motivi diversi, ma con un elemento in comune: il modo di stare in campo e interpretare il gioco.

Per Cam, giocare a football è un divertimento, oltre che un lavoro: basta vedere il modo in cui festeggia anche solo i primi down conquistati. Le sue esultanze ai touchdown sono diventate parte integrante del personaggio; prima il festeggiamento alla Superman, facendo finta di strapparsi la maglia, come a mostrare la S sul petto, poi la dab - che lo ha accompagnato tutta la stagione 2015, quella dell’MVP e della partecipazione al Super Bowl - e poi i balletti vari che non sempre erano graditi dalla squadra che li subiva, come ben sanno i Titans.

Di Cam si sono spesso sottolineate le stravaganze: i suoi outfit o anche il singolare modo di scrivere sui social, che fa sembrare i suoi tweet scritti in una specie di alfabeto runico.

L’unico inciampo pubblico dell’ex QB di Auburn riguarda un commento maschilista rivolto a una giornalista che, durante una conferenza stampa, gli aveva rivolto una domanda tecnica; Newton si definì “divertito” per aver sentito una donna fargli una domanda del genere, così tecnica e specifica. Si scusò pubblicamente, non prima però di aver perso sponsor e soldi. Non ha mai avuto problemi con la giustizia ed è molto impegnato nel sociale con la propria fondazione, nata nel 2012. Attraverso essa, ha donato più di 5 milioni a scuole e associazioni no-profit e, dall’anno della nascita dell’organizzazione all’ultimo anno passato a Charlotte, ha partecipato al Cam’s Thanksgiving Jam, un evento durante il quale ha servito pasti caldi a migliaia di bambini bisognosi di Charlotte. Nel 2019, infine, ha vinto il Walter Payton Man of The Year Award, destinato al giocatore NFL che più ha offerto il proprio contributo alla comunità.

Insomma, Newton è un grande giocatore di football e una grande persona che sfrutta il proprio palcoscenico e parte delle proprie risorse economiche per fare del bene.

Tuttavia, per una certa parte della stampa, è un bersaglio facile da criticare per la sua appariscenza. Ci sono decine e decine di articoli che lo riguardano, in cui l’opinionista di turno non manca di considerarlo una distrazione per lo spogliatoio o una primadonna. Nel corso dell’ultima, zoppicante stagione passata con i Patriots, Jeff Garcia, ex quarterback NFL e ora opinionista, lo ha aspramente criticato per il suo modo di vestirsi che, a suo dire, è incompatibile con le performance offerte in campo: «Perché si veste così dopo partite da quattro intercetti? Vuole attirare ancora l’attenzione su di sé? Sono anni che il modo in cui si comporta in conferenza stampa non combacia con i suoi risultati sul campo».

Sempre negli scorsi mesi, due giornalisti di Boston hanno auspicato che Bill Belichick mettesse un freno alle esuberanti esultanze dell’ex MVP perché, a suo dire, ai Patriots nessuno ha mai festeggiato touchdown o palle recuperate in maniera sguaiata. Tuttavia, non è stato difficile per il mondo di Twitter dimostrare che ai Patriots si esulta come in tante altre squadre e che Belichick non si è mai detto contrario ai festeggiamenti, anzi.

Ultimo ma non meno importante, nel menzionare gli show di Cam post-touchdown, Massarotti e Felger non si sono minimamente degnati di specificare che il numero 1 porge regolarmente il pallone a un bambino a caso di cui incrocia lo sguardo sugli spalti. La storia viene da lontano ed è un’ulteriore testimonianza della persona che Cam Newton è.

Vi ricordate la parola “unapologetic” menzionata nel capitolo precedente per definire Cunningham e Vick? Può tranquillamente essere usata anche per Cam che, anzi, l’ha menzionata in una sua recente intervista. Secondo lui il motivo per cui tanti media non mancano di dargli contro criticando la sua persona ha a che vedere con motivazioni razziali, e noi di certo non ci stupiremmo. Nello specifico ha dichiarato: «Onestamente? Dobbiamo essere onesti? È perché sono un atleta nero, sono un quarterback, sono sempre stato fedele a me stesso e mi sono sempre comportato in un modo che non mi ha mai reso simpatico ai media».

Anche Lamar Jackson è uno dei giocatori attualmente più polarizzanti non solo della NFL, ma dello sport americano in generale. Il suo nome era noto agli appassionati già prima che giocasse un singolo minuto tra i professionisti grazie alle compilation di highlights risalenti al suo periodo all’high school e al college. La sfrontatezza che metteva in campo, unita a doti fisiche e atletiche che lo facevano sembrare un adulto in mezzo a dei ragazzini, hanno alimentato per anni la macchina dell’hype. Tantissimi analisti hanno atteso il momento in cui si sarebbe dichiarato per il draft per cercare di smontare l’entusiasmo nei confronti del ragazzo con scouting report ottusi e parziali.

Mel Kiper, analista di punta di ESPN, ha parlato di Jackson come il vero problema di Jackson fosse la precisione nei passaggi e che la percentuale di completi fosse influenzata dai cosiddetti “layup”, cioè passaggi facili, in genere screen o checkdown (passaggio al running back come ultima spiaggia quando tutte le altre opzioni sono coperte): peccato che la percentuale di passaggi completati da LJ dietro la linea di scrimmage nella sua ultima stagione di college football fosse del 15%, inferiore a quella di Josh Allen, quarterback che Kiper riteneva molto più forte di lui. Kiper aggiunse che, se la carriera di Jackson come QB NFL non fosse decollata, avrebbe potuto giocare come wide receiver, posizione in cui, però, Jackson non ha mai giocato in vita propria.

Ben più assolutista fu Bill Polian, ex General manager degli Indianapolis Colts, che dell’ex quarterback di Louisville disse: «Eccezionale atleta, eccezionale capacità di superarti in velocità, eccezionale accelerazione e istinti col pallone in mano, ed è raro per un ricevitore. Mi viene in mente solo Antonio Brown, e chi altro? Neanche Julio Jones».

Come rivelato da lui stesso, il giorno della Combine - l’evento dedicato ai prospetti eleggibili per il draft che si cimentano in esercizi di natura fisica sotto gli occhi di allenatori, GM e scout - pare effettivamente che uno scout dei Chargers gli abbia chiesto di poter giocare come wide receiver, per l’incredulità di LJ. Dunque, a una domanda a riguardo, il vincitore dell’Heisman Trophy volle precisare: «Nossignore, sono un quarterback. Credo di aver fatto un buon lavoro come quarterback a Louisville». Qualche mese dopo, poi, Jackson rivelò un retroscena riguardo il suo rifiuto di correre le 40 yard, probabilmente l’evento più atteso e rilevante, perlomeno mediaticamente, della Combine; come consigliatogli dalla madre, sua agente, Jackson si tenne fuori per non mettere in mostra la propria velocità e il proprio atletismo, evitando così di alimentare negli addetti ai lavori voci su un suo eventuale spostamento di ruolo.

In meno di tre anni tra i professionisti, Lamar Jackson è stato il più giovane quarterback della storia a partire titolare in una partita di playoff, e si è portato a casa il premio di MVP della stagione regolare nel 2019. Eppure, le sconfitte ai playoff 2019 (contro i Chargers) e soprattutto quella dell’anno successivo contro i Titans, dopo una regular season del genere per lui e per la squadra, sono servite a riaccendere il fuoco delle polemiche di coloro che continuano a vedere in lui un running back travestito da quarterback. Ogni tanto anche lui non manca di togliersi qualche macigno dalle scarpe, come in occasione della vittoria alla prima giornata della stagione appena trascorsa; dopo aver aperto in due la difesa dei Browns per una vittoria 38-6, Jackson si è presentato in conferenza stampa dicendo:” Not bad for a running back!”.

E anche quando le cose vanno bene, la questione razziale in un modo o nell’altro finisce nel calderone e spacciata come opinione personale. A dicembre 2019, Tim Ryan, che commenta le partite dei San Francisco 49ers per una radio locale, in merito alla vittoria dei Ravens contro di loro e dell’ottima partita giocata da LJ, disse: «È molto bravo in quella finta (parlando della zone read, giocata in cui il QB decide se tenere o passare il pallone a seconda della risposta della difesa). Anche perché se consideri che lui è scuro, la maglia è scura e il pallone anche, non puoi proprio vedere quando ha o non ha il pallone, e sei sempre un mezzo passo indietro». Tim Ryan fu sospeso dal commento per la partita successiva dei Niners.

La maratona non si ferma

Come avrete capito se siete arrivati qui in fondo, il razzismo non è certo scomparso dalla NFL, una Lega dalle idee e dagli ideali da sempre molto conservatori: potreste esservene accorti in merito alla questione degli atleti che si sono inginocchiati durante l’inno, tanto per fare un esempio concreto e recente. Tuttavia, ci sono alcuni elementi che ci fanno capire come la Lega sia ormai diventata un terreno fertile anche per lo sviluppo e la celebrazione di quarterback afro-americani.

Oggi le dirigenze hanno più che mai la vittoria come obiettivo. Non importa da dove tu venga, come sia stato cresciuto o di quale colore abbia la pelle: noi vogliamo vincere e facciamo un investimento su di te affinché tu ci aiuti a farlo. Questo, in sostanza, il concetto di base.

Come conseguenza di quanto appena detto, si sono moltiplicate le possibilità per i giovani neri che vogliono intraprendere tra i professionisti la strada del quarterback. Anche negli anni 70’ c’erano tanti bravi passatori afroamericani a livello di college che, per colpa degli stereotipi, non hanno mai messo piede in NFL; oppure che, una volta arrivati, sono stati relegati a giocare in ruoli per cui non avevano la benché minima dimestichezza ed esperienza.

Il terzo punto, invece, non c’entra con le questioni razziali, ma è altrettanto importante. Oggi, moltissimi allenatori e coordinatori offensivi cercano di adattare i propri schemi in base alle caratteristiche del personale, e non viceversa. È frequente vedere un head coach dalla mentalità offensiva essere chiamato da una squadra per cercare di massimizzare il talento del proprio quarterback: pensate per esempio a Kliff Kingsbury, chiamato ad Arizona per lavorare con un talento nero come Kyler Murray.

Pensate a Cunningham e Vick, dual threat per eccellenza arrivati troppo presto in una Lega che non sapeva ancora come gestirli. Entrambi hanno avuto ottime carriere, ma pensate a quanto siano stati frenati dagli allenatori che hanno provato a imbrigliarli dentro la West Coast Offense, limitando loro e il rendimento di tutta la squadra. I loro anni migliori, alla fine, hanno coinciso con la presenza sulla sideline di Buddy Ryan, Dan Reeves e Andy Reid, i coach che più di tutti hanno capito che l’unico modo per gestire questi quarterback era… non gestirli, ma lasciare loro carta bianca. Probabilmente, ora staremmo parlando di Hall Of Famer, o comunque di due giocatori con una carriera ben più decorata - al netto dei problemi giudiziari, non trascurabili, di Vick, che hanno contribuito ad azzopparne la traiettoria.

L’epoca d’oro dei quarterback afroamericani è ora, e tutti loro hanno il compito morale di rappresentare non solo le proprie squadra, ma anche e soprattutto la categoria e i loro stessi precursori, coloro che hanno contribuito ad arricchire di così tante sfumature la posizione del quarterback. The marathon continues.

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