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Storia dei Mondiali di Rugby
12 set 2019
12 set 2019
Una fondazione più complicata del previsto.
(articolo)
12 min
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Rue du Commandant-René-Mouchotte è circondata da alti palazzi luccicanti, una striscia di asfalto che si allunga, per appena 400 metri, sopra le rotaie della Gare de Montparnasse, sulla riva sinistra della Senna, a Parigi, e che finisce sulla place de Catalogne, sormontata da quattro edifici rettangolari che ne chiudono il breve profilo. Questa è la zona de les Années Folles, gli anni della pazzia bohemienne anni '30, la Parigi di Emile Zola e di Manet, di Apollineare e di Duchamp, di Modigliani, di Salvador Dalì, delle migliaia di stranieri in arrivo dalla Russia, dal Giappone, dal Messico, dall'Argentina, in cerca di fortuna.

All'inizio del secolo è proprio su questa via che si ritrovano i giovani contadini dopo il lungo viaggio in treno dalle campagne di Bretagna, appena fuori dall'affollatissima stazione di Montparnasse. Una valigia in mano alla ricerca di una sistemazione di fortuna nei dintorni della Rue du Commandant-René-Mouchotte, di una stanza senza acqua corrente, senza riscaldamento, nel cuore del quartiere in cui, come diceva Jean Cocteau,"la povertà è un lusso”.

Un luogo di operai e di artisti, di lavoratori, e non è un caso se è proprio in questa via che ha sede, sino alla metà degli anni '90, la Société nationale des chemins de fer français, la compagnia ferroviaria nazionale francese.

Dal numero 34 della Rue du Commandant-René-Mouchotte entrano ed escono affaccendati funzionari della più grande compagnia di treni del continente, ma non soltanto. In quel palazzo, infatti, in un mercoledì pomeriggio di marzo del 1985, fanno il loro ingresso sedici uomini che con le ferrovie francesi non hanno nulla a che vedere. Vengono dall'Inghilterra, dal Galles, dal Sudafrica, dalla Scozia, dall'Australia, dall'Irlanda e dalla Nuova Zelanda e si sono dati appuntamento in una sala privata della sede nazionale della società ferroviaria transalpina, per mettere ai voti la riforma più osteggiata nella storia del rugby: la nascita della coppa del mondo.

Nelle stanze della federazione francese non c'è posto per così tanti ospiti e così Albert Ferrasse, presidente dell'International Rugby Board, ha chiesto ospitalità a un suo vecchio amico, alto dirigente della SNCF. Ferrasse è un uomo del Sud della Francia, ha giocato per tanti anni come seconda linea nell'Agen e da tempo coltiva il sogno di una grande competizione mondiale, che sancisca definitivamente il passaggio del rugby al professionismo, di cui è agguerrito sostenitore. Ma Ferrasse non ha vita facile. I rappresentanti delle federazioni britanniche e irlandesi osteggiano da sempre una competizione che sancirebbe in maniera definitiva l'abbandono del principio amatoriale alla base del rugby e che, proprio per questo, ne snaturerebbe in maniera pericolosa i valori fondanti. È per questa resistenza del mondo anglosassone che tutti i tentativi di organizzare un qualsiasi torneo internazionale sono sempre naufragati.

Il primo a provarci è Harold Tolhurst, tre-quarti centro della Nazionale australiana dei Wallabies, che alla fine degli anni'50, insieme al collega Jock Kelleher, capitano del Manly di Sydney, suggerisce di prendere ad esempio il calcio e propone di organizzare un torneo lungo un mese in cui le nazionali britanniche, la Francia, il Sudafrica e la Nuova Zelanda si sfidino in Australia, insieme ai padroni di casa, per l'assegnazione di un trofeo mondiale. L'IRB reagisce infastidita al tentativo, pubblicando un memorandum, nel 1968, nel quale viene ribadita la totale opposizione della federazione internazionale del rugby a qualsiasi evento di questa portata. A rincarare la dose è Wavell Wakefield, ex capitano della nazionale inglese, presidente dell'associazione rugbistica britannica e membro dell'International Rugby Board. Wakefield, in un articolo pubblicato sulla rivista Touchdown nel febbraio del 1971, scrive:

«In futuro lo sviluppo del gioco potrebbe portare all'organizzazione di una competizione mondiale, ma francamente la mia speranza è che ciò non accada. Il rugby deve rimanere uno sport amatoriale, giocato nel weekend, per puro divertimento, da persone che hanno un regolare impiego nel resto della settimana. Credo sia bastevole il tremendo spettacolo dato dalla coppa del mondo di calcio, sport in cui i giocatori sono stipendiati, per capire di cosa sto parlando. Una competizione internazionale diventerebbe troppo impegnativa per atleti amatoriali come quelli del rugby, cambiando del tutto l'approccio quotidiano a questo sport. Oggi lo sport è spesso utilizzato come veicolo di propaganda politica e a testimoniarlo sono le continue occasioni in cui assistiamo, in altre discipline, alle scelte di paesi che boicottano manifestazioni internazionali per ragioni extrasportive. Per non essere trascinato in questi meccanismi, il rugby britannico deve mantenere il suo approccio di attività locale, con un numero di partite limitatissimo fuori dal contesto delle isole della Gran Bretagna».

Nell'idea della vecchia guardia, il rugby deve restare uno sport d'elitè e per questo le uniche competizioni ammesse sono il torneo delle Cinque Nazioni e i tour delle squadre europee nell'emisfero australe, con l'unica eccezione delle sporadiche tourneé dei British and Irish Lions. Lo status quo va protetto e nonostante il rugby venga giocato anche in tanti altri paesi, come Argentina, Italia, Stati Uniti, Canada, nessuna di queste squadre è incoraggiata a crescere. Al contrario, chi è fuori dai magnifici otto è scientificamente ignorato, sempre e soltanto con un solo obiettivo: salvaguardare l'esclusività di uno sport considerato diverso da tutti gli altri. Persino le leghe nazionali vengono vietate. Fino al 1968, anno in cui in Sudafrica viene inaugurata la prima versione a cadenza annuale della Currie Cup, soltanto in Francia è in vigore un regime di semiprofessionismo e si gioca un campionato ufficiale. In Nuova Zelanda bisogna attendere il 1976 per organizzare un torneo regolare fra le province mentre è addirittura del 1987 la prima Premiership nazionale in cui si confrontano i club di Gran Bretagna.

Nonostante le resistenze, la nascita di una competizione mondiale continua comunque a sembrare un punto di arrivo ineluttabile. Il successo dei mondiali di cricket (uno sport spesso affiancato al rugby per cultura e tradizione) ospitati in Inghilterra nel 1975, nel 1979 e nel 1983 e cui assistono migliaia di appassionati, fanno montare nell'opinione pubblica una domanda sempre più pressante: quando potremo finalmente assistere a un mondiale di rugby? Nel 1979 è il presidente della federazione australiana Bill McLaughlin, a proporre l'organizzazione di un torneo mondiale da celebrarsi nel 1988, in concomitanza con i festeggiamenti per il bicentenario della nazione australiana, ma il tentativo va ancora a vuoto. Stessa sorte per il progetto di Neil Durden-Smith, un dirigente inglese della International Sports Marketing, la più grande società internazionale di comunicazione sportiva. Durden-Smith presenta ai vertici dell'International Rugby Board un piano dettagliato di come potrebbe svilupparsi la manifestazione, presentando dati economici, studi di fattibilità e una simulazione completa dei tempi che tenga conto della calendarizzazione dei più grandi eventi sportivi al mondo: per Durden-Smith il mondiale deve giocarsi, ogni quattro anni, a partire dal 1987, per evitare di entrare in competizione con i grandi eventi del calcio e con le Olimpiadi. Ma dalle isole britanniche la risposta è sempre la stessa: no.

Non tutti sono d'accordo con l'approccio di Galles, Inghilterra, Irlanda e Scozia.

Oltre alla Francia di Ferrasse, anche Australia e Nuova Zelanda da tempo spingono per un torneo intercontinentale e devono fare i conti con i malumori dei giocatori, che considerano troppo bassi i rimborsi spese elargiti dalle federazioni per i tour internazionali e spesso, quando possono, si trasferiscono nella meno ortodossa Rugby League, la versione a tredici giocatori dello sport ovale, molto seguita nell'emisfero australe, e che garantisce agli atleti retribuzioni di tutto rispetto.

I vertici del rugby All Blacks sono inoltre preoccupati dalla crescita esponenziale del calcio, che nel 1982, dopo la conquista da parte della nazionale neozelandese, gli All Whites, della qualificazione ai mondiali di Spagna, vive un momento di grande popolarità nel paese. I "tuttineri" spingono per poter rappresentare la loro nazione in una grande competizione internazionale, nell'unico sport in cui si considerano, e sono considerati, i più forti. C'è anche un'altra incognita a preoccupare i funzionari del rugby australe, e porta il nome di David Lord. Lord è un impresario australiano e nel 1983 comincia a lavorare a un progetto ambizioso, la costruzione di un World Rugby Circuit. L'idea è quella di ripercorrere quanto già fatto dal connazionale Kerry Packer, che nel 1977 aveva rivoluzionato il mondo del cricket: mettere sotto contratto duecento giocatori da ogni parte del mondo, formare dieci squadre e organizzare la più grande competizione itinerante di rugby mai vista. E' così che, quando nel 1984 la Francia mette sul tavolo della IRB una proposta formale di organizzazione del mondiale, i vertici del rugby finalmente mostrano un'apertura e incaricano le federazioni di Australia e Nuova Zelanda di lavorare a uno studio di fattibilità. Il risultato è presto raggiunto: la coppa del mondo di rugby potrebbe giocarsi l'ultima settimana di maggio e le prime tre settimane di giugno del 1987.

Torniamo così a Parigi, nella stanza al numero 34 di Rue du Commandant-René-Mouchotte, il 20 marzo del 1985. È in questa riunione che deve decidersi il futuro del rugby e della prima edizione della sua competizione più importante. Il manager neozelandese Dick Littlejohn e l'ex capitano dei Wallabies, Sir Nicholas Shehadie, presentano al panel di delegati, due per paese, il progetto. Non sembra ci sia molto spazio per rompere il muro delle isole britanniche. I voti a disposizione sono 14, e di questi, 8 vengono espressi da Galles, Inghilterra, Irlanda e Scozia. Dall'altra parte, Francia, Australia e Nuova Zelanda, con il Sudafrica che partecipa alla riunione, ma senza diritto di voto. I sudafricani, rappresentati dal Danie Craven, il padrone del rugby Springbok, sono fermamente a favore della coppa del mondo, ma le misure di sospensione adottate dai vertici dello sport internazionale in conseguenza del regime di apartheid in vigore nel paese non gli permettono di votare.

Craven resta comunque un uomo influente. Da giocatore, con la maglia numero 9 sulle spalle, è stato considerato il miglior passatore della sua generazione. Da allenatore degli Springboks, fra il 1949 e il 1956, ha una media di vittorie del 74%, la più alta di tutti i tempi. Da presidente federale il suo compito è però molto più difficile: tirare fuori il Sudafrica dal boicottaggio anti-apartheid che isola il paese da ogni contatto sportivo e culturale, sin dall'inizio degli anni'70. Craven, che molti dipingono come un razzista e fervente afrikaner, vuole utilizzare il mondiale, una competizione a cui il Sudafrica non può mancare e da cui non può essere escluso, per forzare la soluzione politica del boicottaggio, proponendo un accordo, profondamente osteggiato dai bianchi sudafricani, che prevede l'integrazione nella rosa Springbok di alcuni giocatori neri: sarebbe la prima volta nella storia della Nazionale sudafricana di rugby, da sempre uno sport giocato esclusivamente da bianchi.

Strappa così una promessa ai delegati di Australia e Nuova Zelanda, l'impegno a organizzare una delle edizioni future, entro il 1995, proprio in Sudafrica, in cambio del suo lavoro di lobbying sui delegati britannici. La mossa di Craven è vincente. Littlejohn e Shehadie accettano, Craven mantiene la sua promessa e anche se paga sulla sua pelle l'apertura del tavolo di trattativa con l'African National Congress ad Harare per la costruzione di una nazionale sudafricana di rugby multietnica (verrà ripudiato dai suoi connazionali per aver "sporcato" l'immagine bianca degli Springboks) la storia gli darà ragione e il mondiale di rugby del 1995, con Nelson Mandela a premiare la Nazionale sudafricana campione del mondo con il campo il primo giocatore nero della storia, l'ala Chester Williams, sancirà un punto decisivo nel processo di pacificazione della nazione.

Il voto di Ferrasse è scontato, anche se il presidente francese mette subito in chiaro che al mondiale andranno invitate anche le squadre della FIRA (su tutte, Italia e Romania) organismo di cui lui è stato presidente, per garantire una reale rappresentatività internazionale al torneo. Restano da convincere i britannici e gli irlandesi. L'incontro del 20 marzo si conclude con un nulla di fatto, dopo ore di trattative e discussioni etiche sulle conseguenze che avrebbe l'organizzazione della coppa del mondo sulla professionalizzazione dei giocatori. I delegati delle isole britanniche non sembrano intenzionati a tornare sui loro passi. Il giorno seguente, giovedì 21 marzo, si ricomincia. Nella mattinata Ferrasse torna sui dettagli tecnici dell'evento, provando a spingere sul punto più evidente, l'inevitabilità che il rugby diventi, nel tempo, uno sport professionistico e di quanto sia ingenuo pensare di poterne bloccare lo sviluppo. I sedici delegati vanno a pranzo sul boulevard di Montparnasse, nel mitico bistrot La Coupole, un locale tipico della Parigi anni'30, fumoso e accogliente. Al momento del conto Dave Crave propone di non rientrare subito in riunione, ma di concedersi una gita in battello sulla Senna. A Parigi splende un sole morbido e il breve viaggio in barca servirà a schiarirsi le idee prima del voto finale.

Il gruppo accetta di buon grado. Ci si sposta dunque al molo di Grenelle, proprio di fronte all'Isola dei Cigni, e alle 15 in punto l'imbarcazione molla gli ormeggi e risale il fiume, superando il ponte di Pont de Bir-Hakeim, la Tour Eiffel e navigando sino alla Île de la Cité, l'isola fluviale in cui è possibile ammirare la basilica di Notre Dame. Crave parlotta a lungo con John Kendall Carpenter, uno dei delegati inglesi, avversario di tante battaglie sul campo contro il collega australiano Shehadie, e con il gallese Keith Rowlands. Rientrati in Rue du Commandant-René-Mouchotte 34 alle 17.45, i sedici funzionari sono pronti al voto segreto finale.

Il risultato è un sorprendente 8 a 6 in favore della coppa del mondo: Carpenter e Rowlands hanno votato contro le isole britanniche. Il mondiale di rugby si giocherà, nel 1987, in Australia e Nuova Zelanda, e sarà un successo di pubblico straordinario. Lo vinceranno gli All Blacks del capitano David Kirk, in finale contro la Francia di Pierre Berbizier, Philippe Sella e Serge Blanco, per 29 a 9.

John Kendall Carpenter verrà eletto capo del comitato organizzatore: resterà noto, per sempre, come "l'uomo che votò per il mondiale di rugby".

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