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Storia della squadra del mio paese
21 dic 2021
Racconto personale di una piccola squadra di provincia.
(articolo)
13 min
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Mi ricordo quando ero piccolo la mattina uscivo in bicicletta e pedalavo lungo la via di casa dei miei nonni materni. Non ricordo quanti anni avessi, però mi ricordo c’era un ragazzo con me, anche lui sui pedali, un amico d’infanzia, e insieme fingevamo di guidare due macchine di Formula Uno. I suoi genitori avevano una lavanderia al piano terra della stessa casa d’angolo dove, al secondo piano, mio nonno si affacciava per vedermi rientrare. Poi salivo le scale due gradini alla volta, arrivavo fino alla porta di casa sapendo di trovarla aperta, entravo come una scheggia e giravo subito a destra, verso la terrazza esterna della cucina, arrivando a toccare la ringhiera. Il gioco finiva in quel momento. Stavo sfidando il mio amico oppure scappavo da un nemico invisibile? Rientravo in casa senza fiatone, buttando uno sguardo all’enorme giardino proprio sotto di me, contento di avercela fatta.

1.

Qualche mese fa il padre di un mio caro amico mi ha chiesto di scrivere la storia della squadra del mio paese, l’Audax Rufina, massima espressione calcistica del paese di Rufina, che poi è anche il mio paese, quello dove sono nato e cresciuto. Insomma questo padre a cui sono affezionato, il quale peraltro è anche il presidente dell’Audax Rufina, mi chiede di mettere in parole questo bellissimo traguardo silenzioso che sono i primi cento anni della sconosciuta squadra di un paese semi-sconosciuto – utilizzo “semi” non tanto per campanilismo quanto perché, avendo visto con i miei occhi una bottiglia di vino Chianti Rufina in vendita in un ristorante di Tucson, Arizona mi sembrava giusto innalzare di una tacca quantomeno il valore del paese.

La prima cosa che penso, dopo aver detto di sì, tornando a piedi dallo stadio dell’Audax Rufina a casa mia (un tragitto la cui lunghezza non arriva al chilometro), è che ho accettato di scrivere di qualcosa di cui non so assolutamente niente. Sono affascinato dall’idea di lavorare su qualcosa di così piccolo e, al tempo stesso, così importante per tante persone – molte delle quali vedo o conosco da tutta la vita. Tuttavia, il mio rapporto con l’Audax Rufina si limita a quei tre anni in cui ci ho giocato da piccolo; tre anni dei quali conservo pochissimi ricordi, e dubito che quei flash possano essere utili a descrivere l’impatto sociale e sportivo di una società che da un secolo veste di bianco e nero (sono i colori sociali) centinaia di ragazzi e ragazze (mi dicono che la squadra femminile non abbia niente da invidiare a quella maschile). Come se non bastasse nelle prime settimane di ricerche (capisco di star entrando in un mondo che non ha tempo per il mio pressapochismo). Mi imbatto in diverse situazioni che non fanno che peggiorare la mia situazione.

Già dalle primissime interviste scopro che se il calcio professionistico è un rituale pagano al quale sacrifichiamo le effigi degli Dei che sopraggiungono da tutto il mondo per mostrarci che cosa significa possedere un Dono, il calcio dilettantistico è a tutti gli effetti una religione ancora più efferata. La fede, qua, è cieca. Nel calcio dilettantistico le leggende sono ancora possibili, e lo sono perché a tramandare le azioni non sono le TV satellitari ma la fantasia di chi, domenica dopo domenica, sfida le intemperie per sedersi su quei gradoni di cemento. I gol si moltiplicano a seconda di chi è a raccontarti la storia, i campi si allungano come negli episodi di Holly e Benji, il fatalismo corre in parallelo alla gioia di vivere, a quel desiderio recondito che tutti sembrano possedere, quasi venisse involontario sognare ad occhi aperti un gol segnato proprio al novantesimo. E così si trova sempre qualcuno disposto a raccontarti di quanto impressionante fosse quel pantano, oppure di quanto taglienti fossero i tacchetti quel maledetto difensore, di che razza di prototipo di attaccante moderno fosse quel tipo che vedi in quella foto sbiadita. “Se solo avesse avuto più testa…”, si sente sospirare spesso.

Scopro che nel calcio dilettantistico la dimensione reale non esiste. Il peso specifico è quello del cuore dei narratori: qualcuno prova a nascondersi dietro qualche manierismo di facciata, ma sono sempre meno di quelli disposti a giurarti di aver visto un ragazzino semi-sconosciuto segnare un gol dopo aver ripetuto la serpentina di Maradona all’Azteca. Anche questo “semi” è intenzionale, perché un’altra cosa che imparo alla svelta è che nel calcio dilettantistico tutti conoscono tutti. Può suonare controintuitivo, ma in questo universo abitato per la maggior parte da ignoti, nessuno viene davvero “dal nulla”. Tutti sono sempre pronti a descriverti questo o quel giocatore con tanto di particolari. Tutti conoscono i risultati delle partite, sanno in che anno l’Audax Rufina giocava in Promozione o in Prima Categoria.

Mi hanno raccontato di ragazzi promettenti costretti a smettere per colpa di infortuni improbabili, di elettricisti che per un quarto d’ora sono stati giocatori del Milan, di fotografi con il vizio del gol, di talenti maledetti. Ho scoperto che agli inizi degli anni ’70 la Juventus non era l’unica squadra in Italia a giocare con la divisa ufficiale ogni domenica, e questo perché Boniperti era un vecchio amico di uno dei factotum del paese. Ho visto il volto del giocatore che firmò la doppietta che permise all’Audax Rufina di conquistare la prima e unica promozione in Serie D della sua storia. Si chiamava Stefano Solerti, un mascalzone d’area di rigore di neanche sessanta chili che sarebbe dovuto passare al Lanerossi Vicenza, se non fosse caduto vittima dell’eroina. Ho sentito decine di storie del genere. Il peso della fatalità è quasi assordante tanto è presente.

Il problema è che tutto questo sapere, tutta questa passione, ha peggiorato il mio problema iniziale. Io ero un neofita e loro mi sovrastavano con un credo che non capivo. L’orizzonte mi sembrava più basso rispetto a quello che mi veniva descritto con minuzie di particolari, eppure sui loro volti leggevo un tale entusiasmo. In cosa sbagliavo? Mi sentivo intrappolato, e più queste persone venivano a consegnarmi il loro mattoncino di storia più la mia claustrofobia aumentava, costringendomi a cedere sotto il peso del tempo, sotto quei cento anni da coprire non tanto con la penna quanto con l’immaginazione. Non riuscivo a vederli: tutti quegli anni, tutti quei gol… Per settimane non sono stato capace di aprire il computer o riguardare gli appunti, riascoltare le registrazioni o parlare con nessun altro. Ero bloccato.

2.

Il mio rapporto con il calcio è sempre stato conflittuale. Da piccolo non riuscivo a decidermi da che parte stare, i miei amici mi volevano con loro a tifare per la Fiorentina ma la mia famiglia era un fiero ducato juventino e la mia vocazione era troppo debole per fare davvero una scelta netta. Per la comunione mi regalarono una maglietta autografata di Batistuta e per un po’ divenne il mio pigiama; ma poi esultai quando la Juventus vinse il campionato, passando dalla confusione all’imbarazzo. Nelle partitelle mentali che giocavo in casa, tirando calcioni a una palla di plastica dura, attentando alla fragile vita dei vasi di mia madre, mi immaginavo di essere il portiere di riserva del Rimini! Una squadra che all’epoca giocava in Serie B!! E non ero neanche così bravo da permettermi di fare il titolare!!! Ad ogni modo quando feci il mio esordio, nelle giovanili dell’Audax Rufina, mi misero a centrocampo.

Non possiedo molti ricordi di quegli anni. Mi ricordo gli allenamenti d’inverno, le guance rosse per il freddo, gli scarpini ricoperti di mota, lo stomaco tenuto al caldo dal tè preparato da un custode che poi era anche lo zio o il nonno di uno dei miei compagni di scuola. Mi ricordo una volta, giocavamo ancora a sette, di aver segnato direttamente da calcio d’angolo. Un’altra invece, stavolta nel campo a nove, mi stavo apprestando a battere un calcio di rigore. Non mi ricordo il risultato, tanto meno l’avversario, ma un ricordo indelebile lo conservo ed è quello di mio nonno appostato dietro la porta dove sto per calciare. Mi sta segnalando con le mani dove tirare ma io non lo voglio guardare. Il rigore è mio e voglio decidere io dove calciare, o qualcosa del genere. Ovviamente scelgo la parte opposta rispetto a quella che mi ha indicato e altrettanto ovviamente calcio con tutta la forza che ho in corpo. Colpisco un palo bianco sporco, quello di destra, lo scheggio più che centrarlo, e per diversi secondi resto a guardare la palla rotolare sull’erba fradicia della brina autunnale.

Mio nonno viene da una famiglia poverissima, che a Rufina ci abitava prima ancora che esistesse il paese. Quando era piccolo girava con in tasca una culatta di pane svuotata di mollica, pronto a rubare lo spezzatino di carne e patate dalle finestre aperte dei vicini. Doveva versare la brodaglia fumante e sperare che la corteccia tenesse per permettersi di fare merenda. Quando ero piccolo io, invece, mio nonno veniva a vedermi giocare a pallone. Ogni partita, su tutti i campi, a qualsiasi orario, lui c’era. Credo si fosse fatto promuovere assistente o accompagnatore pur di non perdersi nemmeno un momento. Lui a calcio ci aveva giocato per davvero, arrivando fino ai campi della Serie C con la maglia dell’Arezzo agli inizi degli anni ‘50; per lui il calcio era una cosa seria. Quando qualche anno più tardi decisi di smettere per iniziare a giocare a pallavolo, mio nonno non mi aveva parlato per diversi mesi, ma poi si era fatto assumere come magazziniere dalla polisportiva e per otto anni aveva ripreso a seguirmi in giro per tutta la Toscana, ovunque il calendario ci mandasse a giocare, appassionandosi a uno sport del quale per settant’anni non aveva mai visto una partita.

3.

Anche mio nonno aveva militato nell’Audax Rufina ma ero restio a intervistarlo. Un po’ perché a 89 anni la sua lucidità è quella che è, un po’ per prevenzione affettiva, per non rischiare di ferire i suoi sentimenti dal momento che ero certo avrei finito con l’omettere gran parte dei suoi racconti – molti dei quali impossibili da verificare o contestualizzare. Avevo visto le fotografie che mi aveva dato mia nonna, ma tra quelle maglie di lana, sopra la linea perfettamente sbarbata della mascella, avevo trovato soltanto gli occhi di un uomo ancora lontanissimo da me, un uomo con dei pensieri e una vita tutta sua, l’ennesimo calciatore di questa storia. Non sto dicendo che quella carta ingiallita non avesse un significato profondo per me. Lo aveva. Quello era mio nonno prima di diventare mio nonno. Ma cosa avrebbe dovuto significare per tutti gli altri che avrebbero letto il libro?

Poi un giorno mi sono fermato a pranzo da loro e qualcosa è cambiato. Mio nonno mi ha chiesto se era vero che stavo scrivendo il libro sul centenario dell’Audax Rufina e a me è scappato da ridere. Mi sono sentito punto sull’orgoglio, proprio come quella volta del calcio di rigore. Avrei voluto sventolargli in faccia i miei articoli, fargli vedere che esistono universi alternativi a quello del pallone. Invece lui mi ha preso sottobraccio, facendomi segno di aprire la finestra della cucina e uscire in terrazza, e una volta fuori mi ha indicato il giardino davanti a casa, raccontandomi di come quel giardino un tempo fosse lo stadio dove giocava l’Audax Rufina. Io nelle mie ricerche avevo scoperto che l’Audax Rufina aveva iniziato la sua attività nella piazza principale del paese, allestendo il terreno di gioco direttamente sullo spiazzo dove al sabato tutt’ora viene fatto il mercato, su di un campo ciottoloso nonché, con ogni probabilità, clamorosamente irregolare. Soltanto nel 1975 si era spostata nello stadio dove gioca attualmente, in un terreno di gioco inaugurato da una Fiorentina fresca campione della penultima edizione della Coppa di Lega Italo-Inglese contro la nazionale dell’Arabia Saudita – che all’epoca era allenata da Puskas. Non avevo ancora capito che nel mentre c’era stata una parentesi intermedia di un terzo campo, tanto meno che quel campo fosse stato davanti ai miei occhi per tutto quel tempo.

Per qualche minuto siamo rimasti a fissare quell’orizzonte inafferrabile, entrambi incapaci di vedere realmente quello che volevamo vedere, chi per un motivo chi per un altro – una maculopatia degenerativa ha reso mio nonno praticamente cieco. Ma nei giorni successivi, ripensando a quel giardino, ho iniziato a mettere le cose nella giusta prospettiva. Qualcosa si è mosso, dentro di me. La patina che avvolgeva il racconto del gioco ha iniziato a strapparsi, allargandosi fino a far scomparire gli scarpini colorati e i numeri di maglia; non c’erano più arbitri né allenatori, presidenti o calciatori con la sigaretta incollata al labbro inferiore. Ho iniziato a pensare a qualcosa di molto più grande del calcio o dello sport più in generale. Ho iniziato a pensare a quanto ogni azione che mi era stata raccontata fosse importante non tanto per la storia dell’Audax Rufina quanto per la loro storia, per la volontà di quegli uomini di restare all’interno di qualcosa.

Allora ho ripreso in mano gli appunti e ho cominciato a cercare un segno, qualcosa che mi confermasse che stavolta ero sulla buona strada. E l’ho trovato, il segno, in una cronaca dimenticata del 14 ottobre 1951, in un Audax Rufina-S.S. Pontassieve – un derby che dalle nostre parti vale qualsiasi altro al mondo. Lo stadio era quello del giardino davanti a casa dei miei nonni, con una delle due porte posizionata proprio sotto la finestra della cucina, davanti alla terrazza. Mio nonno era in campo con la maglia numero 11. Ala sinistra: il suo ruolo, il ruolo che ricopriva nel mondo prima di diventare mio nonno. E il “Ponte” era avanti 2-0 all’intervallo. Vedevo tutte quelle persone sulle tribune comportarsi come credo si comportassero le persone negli anni ’50, aggiustandosi il cappello e fumando sigarette d’importazione, pensando a qualcosa di piacevole. Era come ci fossi anch’io con loro. Insieme a loro ho assistito al secondo tempo, alla rimonta bianco-nera per il 2-2 finale, a quel gol che mio nonno mi raccontava quando ero piccolo senza che io lo prendessi seriamente. Qualcuno lo aveva lanciato a rete e lui guardava la porta, la palla rimbalzante proprio davanti al fidato piede sinistro. Poi, un pallonetto, una parabola arcuata che aveva superato il portiere insaccandosi a pochi metri di distanza da quella casa che di lì a qualche anno sarebbe diventata un destino, il luogo dove i miei nonni avrebbero vissuto per tutta la vita, dove dentro sarebbero nate sia mia madre che mia sorella. Un gol, un semplice gol, e niente era più come prima.

Esatto, questo gol.

È stato in quel momento che ho capito che il motivo per cui si tengono i tabellini di tutte quelle partite improbabili tra squadre quasi sempre sconosciute non è tanto per vendere la copia settimanale a coloro che smaniano nel vedere il proprio nome griffato dall’inchiostro, quanto perché questi (cioè i tabellini) sono un testimonianza del tempo che passa. L’entusiasmo che in un primo momento avevo scambiato per fanatismo mi appariva adesso come una straordinaria affermazione di intimità, il desiderio di portarmi all’interno di vite e ricordi che altrimenti sarebbero rimasti incollati tra le pagine del tempo. E anche se sono sicuro che loro stessi sapevano che affidarmi le loro memorie non avrebbe significato davvero nulla, per loro significava tutto. Perché anche se il mondo non lo verrà mai a sapere, anche se i giornali nazionali non ne scriveranno mai, in quel momento, in quella battuta di dribbling, la vita è stata qualcosa di davvero dolce. È stata memorabile. La filigrana stessa del Racconto. Il piccolo frame personale all’interno del film della Grande Storia del Mondo.

Nello scrivere il testo che poi è diventato il corpo del libro sul centenario dell’Audax Rufina mi sono sentito fortunato di poter accedere a un Dono grande, imprescindibile. Seppur per un breve momento, sono diventato custode della memoria collettiva di tutto il paese. E più scrivevo, più mi immergevo in quella storia, più quegli uomini di mezza o tarda età tornavano a essere ragazzi, trasformando quella che sarebbe dovuta essere la storia di una sconosciuta squadra di calcio nella storia delle nostre famiglie. Una storia dolce, una volta tanto, lunga cento anni e compatta tanto da stare in appena cento metri. In quel campo fatto di fango nel quale giocavamo tutti insieme, sotto il cielo immenso dei nostri ricordi, tra i centimetri di vita dove saremmo restati per sempre.

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