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Dario Vismara
Steph e i suoi fratelli
28 gen 2015
28 gen 2015
I Golden State Warriors di Steph Curry hanno il miglior record della NBA e terrorizzano il resto della Lega: questi chi li batte ai playoff?
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Dario Vismara
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Immaginatevi una classe di 30 alunni impegnata in una verifica di matematica. Il rumore delle penne, le mani nei capelli, il silenzio tombale, la gente che tenta di copiare. Deve esservi anche capitato che uno dei vostri compagni fosse sempre il più veloce di tutti a consegnare il compito e poi si mettesse lì, serafico, a osservarvi mentre voi cercavate di trovare una soluzione all’equazione che sembrava non avere un senso.
I Golden State Warriors in questo momento sono quel compagno secchione e osservano il resto della Lega che tenta di recuperare terreno: hanno risolto l’equazione del basket NBA, non hanno più nulla da chiedere ad una Regular Season che hanno dominato nei primi 3 mesi e attendono pazientemente che il tempo passi, per arrivare a fare sul serio all’interrogazione che si terrà da aprile a giugno, con il premio finale del titolo NBA.

 



Eppure non è sempre stato tutto così, anzi. Poco più di tre anni fa i Warriors erano tra le peggiori squadre NBA e Bill Simmons sulle pagine di Grantland scriveva di come la franchigia fosse riuscita a farsi fischiare (evento raro nello sport USA) dai suoi stessi tifosi

. Il termine “storia antica” non rende nemmeno l’idea di quanto tempo sia passato da quel giorno. Certo, sono dovute succedere molte cose, quasi tutte andate per il verso giusto. Il reverendo Mark Jackson, il cui passaggio dalla cabina di commento di ESPN alla panchina aveva suscitato al tempo non poche perplessità, ha compattato il gruppo e ha dato fiducia incondizionata a Steph Curry e Klay Thompson, tirandone fuori il meglio. Andrew Bogut, arrivato nel 2012 in cambio di Monta Ellis (il giocatore più amato dalla tifoseria, BTW), è diventato

che ha cambiato totalmente la squadra. Uno

ha permesso a Golden State di tenere la scelta al Draft (che altrimenti sarebbe andata agli Utah Jazz) e selezionare Harrison Barnes alla 7 e Draymond Green alla 35, vale a dire le due ali titolari di oggi. I veterani presi sul mercato come Andre Iguodala e Marreese Speights non hanno per nulla fatto rimpiangere le partenze di due membri importantissimi della squadra del 2013 come Jarrett Jack e Carl Landry (anzi). E anche infortuni potenzialmente devastanti come quelli occorsi a Brandon Rush nel novembre 2012 e a David Lee ad inizio stagione hanno permesso a Thompson e Green di imporsi come titolari in quintetto, investendoli di responsabilità. Soprattutto, però, negli ultimi due anni e mezzo la salute ha assistito Stephen Curry, e questo ha ovviamente cambiato ogni cosa.

 

https://www.youtube.com/watch?v=aTwXjqKrjGY

True story: ogni volta che passano questo video su League Pass durante i timeout mi arrabbio sempre perché lo interrompono alla numero 4, prima che finisca. L’avrò visto 20 volte.



 



Quando ha firmato la sua estensione contrattuale nel novembre del 2012, molti si chiedevano se i Warriors non avessero commesso un errore a investire 44 milioni di dollari in 4 anni

. Certo, le sue qualità erano davanti agli occhi di tutti (372 triple nelle prime 180 partite della sua carriera, tanto per incominciare), ma le palle perse erano un problema - tanto che il suo allenatore Keith Smart gli preferiva Acie Law nei quarti quarti (N.B. Acie Law è al momento in Cina, AKA “là dove le mezze carriere NBA vanno a spillare soldi”). Le medie delle 23 partite giocate nella stagione 2011/12 parlavano di 14.7 punti, 5.3 assist e 3.4 rimbalzi, tutti minimi in carriera, e due operazioni alle caviglie in meno di due anni non erano un gran biglietto da visita. Poi però sono cambiate due cose: il nuovo allenatore Mark Jackson gli ha dato carta bianca su tutto - “tira quanto vuoi e come vuoi, ho fiducia illimitata in te perché sei il miglior tiratore di sempre”, tanto è vero che i suoi tentativi da tre sono passati da 4.7 a 7.7 a partita nel giro di un anno - e la partnership con

che (toccando ferro) lo hanno tenuto lontano dagli infortuni come mai prima di allora.
Quello che si è visto da quel momento in poi è la più elettrizzante, divertente e immarcabile macchina da canestri della NBA:

(record di ogni epoca della NBA), 261 l’anno dopo (quarta miglior prestazione di sempre), un incremento in tutte le voci statistiche (tra cui in particolare gli assist passati dai 5.8 dei primi 3 anni di carriera agli attuali 8.1) e la creazione di

, perché “

”.

 

In particolare, in questa stagione Steph Curry sembra aver fatto un ulteriore passo avanti nel suo gioco: non solo è e rimane il miglior tiratore della Lega (e possibilmente della storia NBA), capace di segnare da

,

, spesso senza nemmeno avere i piedi a posto o senza essere entrato nell’attacco, ma è anche in possesso del miglior

della Lega (anche se a volte esagera, da qui i problemi di palle perse con cui

) e di una

. Oltretutto, quest’anno ha anche limato il suo difetto offensivo principale, ovverosia l’incapacità di concludere in area: se prima riusciva a segnare solo il 60% dei tiri presi al ferro, ora è oltre il 70%; se prima convertiva solo il 38% dei tiri presi tra 1 e 3 metri dal canestro, ora quella percentuale è del 56%; se in carriera solo il 14% dei suoi tiri venivano presi al ferro, ora siamo oltre il 20%.

 


Shot chart by Nicolò Ciuppani & Michele Berra



 

Quando ti trovi davanti un giocatore così, a cui non puoi concedere il tiro da fuori, non puoi più invitarlo in area e non puoi dargli la possibilità di mettere in ritmo i suoi compagni, cosa puoi fare? Cerchi di farlo tirare dalla media distanza, direte voi. Già, certo, peccato che anche da lì segni col 46%, ben al di sopra della media NBA. È un Cubo di Rubik alto 1.91 con la faccia da bambino e lo spirito di un assassino.
Inoltre, Steph Curry ha anche fatto grandi passi in avanti nella sua metà campo: intendiamoci, non sarà mai un difensore d’elite (anche se bisognerebbe sfatare il mito del suo fisico “normale”: credetemi, visto da vicino le braccia fanno

), ma ci mette tutto quello che ha, e questo ha un effetto contagioso su tutti i suoi compagni, che si impegnano il doppio se vedono che la stella è interessata alla difesa. Inoltre le sue mani rapidissime (2.1 recuperi a partita, n.2 in NBA dietro Russell Westbrook) sono una noia per gli attaccanti disattenti, che si vedono scippati del pallone prima ancora di accorgersi di cosa è successo (di solito, poi, dall’altra parte il tutto si conclude con una tripla o una schiacciata). E questo senza considerare tutto il resto della squadra che gli hanno costruito attorno, a partire dal “Fratello di Splash” Klay Thompson.

 



Quando dico che i Warriors hanno risolto l’equazione del basket NBA, mi riferisco al fatto che non esiste un vero punto debole in questa squadra. Uno dei più antichi e abusati mantra dello sport USA dice che “l’attacco vende i biglietti, la difesa vince i titoli”. I Golden State Warriors giocano entrambe le metà campo al massimo livello possibile: sono terzi per punti segnati su 100 possessi (110.3 di Offensive Rating, solo Clippers e Mavs fanno meglio - ma di meno di un punto) e primissimi per efficienza difensiva a 97.1 (il resto della NBA segue dai 99.2 di Milwaukee in poi). Il distacco che intercorre tra il loro Net Rating (+13.3) e il secondo in NBA (+7.7 degli indiavolati Atlanta Hawks) è uguale a quello che intercorre tra gli Hawks e il

posto occupato dai Bucks. Non stanno dominando la Regular Season: la stanno uccidendo.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Sc3m3BwfylA

La prestazione individuale più sensazionale dai 13-punti-in-35-secondi di T-Mac?



 

Sotto questo aspetto, uno dei giocatori più significativi di questa clamorosa efficienza sui due lati del campo è Klay Thompson: non solo è un All-Star del suo ruolo capace di

, non solo è un tiratore del livello del compare Steph Curry (anzi, per triple totali

a questo punto della carriera), ma è diventato un attaccante completo - il suo miglioramento nel palleggio lo ha portato ad un altro livello rispetto a quanto ci si aspettasse in sede di Draft - e un difensore che può marcare indifferentemente tre ruoli grazie alla lunghezza delle sue braccia (206 centimetri) e alla rapidità di piedi. È già abbastanza complicato marcare Steph Curry da solo, ma cosa puoi fare se accanto a lui c’è un altro

difficile da marcare?
La loro presenza contemporanea in campo ha cambiato totalmente il modo di pensare il contropiede: Golden State è la squadra che lo sfrutta di più (quasi il 20% dei loro punti viene da quella situazione) e alza a dismisura il numero di possessi (oltre 101 a partita, 1° in NBA), non necessariamente per cercare di avvicinarsi al canestro e trovare un tiro facile a più alta percentuale, ma per trovare

facili per gli

. Anche solo la minaccia che i due possano tirare dal palleggio non appena sono liberi terrorizza le difese in transizione degli avversari, perché ai due è concesso di tirare anche senza nessuno a rimbalzo, cosa che avrebbe fatto perdere anni di vita al vostro allenatore delle giovanili (nota a margine: meno male che Dan Peterson non commenta più, altrimenti sarebbe impazzito a vederli, lui, quello del “in contropiede devi almeno arrivare alla linea del tiro libero,

?”). Tanto per loro un tiro al ferro

una percentuale di gran lunga superiore ad un tiro da tre punti smarcato, e soprattutto (#ANALYTICS!) vale un punto in meno.
Per andare tanto in contropiede, però, logica vuole che si debba difendere fortissimo. E qui entrano in gioco gli altri membri della squadra.

 



Prima dell’arrivo di Bogut, i Warriors erano costantemente una delle peggiori difese della NBA: 29° nel 2009/10, 26° nel 2010/11 e 27° nel 2011/12 per Defensive Rating. L’arrivo dell’australiano ha certamente portato dei benefici di per sé, ma soprattutto ha costretto lo staff tecnico di Mark Jackson a

sui pick and roll per agevolare la presenza di uno dei migliori protettori del ferro della Lega. Questo cambiamento ha dato benefici enormi a tutto il resto della squadra che, anche quando Bogut è rimasto fuori per infortunio, ha continuato a essere una delle prime 10 difese della NBA, tanto è vero che la difesa è stata l’unica cosa che Steve Kerr ha volontariamente deciso di non toccare, almeno come principi base. Quello che ha fatto fare un salto di qualità alla metà campo difensiva di Golden State - oltre a Bogut che, fintanto che è stato sano, era il principale candidato al premio di Difensore dell’Anno - è stata la promozione in quintetto di Draymond Green, il coltellino svizzero senza il quale non sarebbe possibile aprire nulla: il Real Plus-Minus, ovverosia la statistica di ESPN che misura l’impatto di un giocatore sulla partita, ci dice che Green è il terzo miglior difensore della NBA dietro a Tim Duncan (

) e lo stesso Bogut. Con Green in campo, la difesa dei Warriors concede sotto i 95 punti su 100 possessi, mentre quando si siede il dato sale a 100.9, il peggiore di tutti i membri della squadra. Green è un rarissimo caso di difensore che

marca tutti e cinque i ruoli nel corso di una partita, non solo in teoria: lo si può veder cambiare sul pick and roll e marcare la point guard avversaria così come dare battaglia sotto canestro ai Gasol del caso o inseguire i Nowitzki della situazione sul perimetro, il tutto senza essere un atleta spaventoso (alla Combine del 2011 veniva misurato a 1.97 senza scarpe, poi diventato “magicamente” 2.02 con le scarpe... porta le zeppe per giocare?), cui riesce a sopperire grazie a 2.16 di braccia, 107 kg di massa muscolare e una misteriosa capacità di prevedere tutto quello che succederà in campo, anticipando le intenzioni del diretto avversario ed entrandogli sotto pelle, a volte andando anche

.

 

https://www.youtube.com/watch?v=z3fcU6V53cQ

In una Lega che mette i soprannomi sulle jersey, come è possibile che Green non ne abbia ancora uno? (Beh, a parte questo, che però non è adatto alle famiglie).



 

Oltre ad esserne il leader difensivo in contumacia Bogut, Green è anche il leader emozionale della squadra, capace di alzare l’intensità tanto in campo

e di aggiungere una dimensione di

che mancava in una squadra un po’ farfallona. La mancanza di personalità e “cattiveria” è sempre stato il difetto principale di tanti membri della squadra, come Harrison Barnes, che doveva essere “il nuovo LeBron James” in uscita dal liceo e ha trovato la sua dimensione come role player di lusso; o Marreese Speights, che per la prima volta nella sua carriera pare non essere del tutto disinteressato al basket; o David Lee e Andre Iguodala, che per anni hanno dovuto recitare ruoli da prima o seconda opzione offensiva e ora si trovano perfettamente a loro agio in ruoli minori in uscita dalla panchina, risultando tremendamente efficaci. Per mettere assieme tutti questi ingredienti però ci vuole un allenatore speciale, e non si può non parlare di cosa diavolo sta facendo Steve Kerr.

 



Il difetto principale dei Warriors di Mark Jackson era l’attacco: pur avendo un roster pieno di giocatori offensivamente prolifici e disposti a passare il pallone (Lee e Bogut sono tra i migliori lunghi della Lega sotto questo aspetto, pur senza rapire l’occhio come un Noah o un Marc Gasol), dalla panchina spesso arrivava l’ordine di sfruttare ad ogni costo un mismatch, incaponendosi sulle ricezioni in post di Klay Thompson o di Iguodala quando avevano su di loro un difensore più basso o meno fisico, un po’ come faceva Jackson quando giocava (è stato uno dei migliori playmaker di sempre a giocare in post). Azioni di quel tipo bloccavano completamente il flusso dell’attacco - nell’era Jackson i Warriors sono sempre rimasti ai margini della top-10 offensiva della Lega - e producevano molte più palle perse di quanto fosse lecito aspettarsi, spesso lasciando interdetti gli osservatori neutrali.

 

https://www.youtube.com/watch?v=o3sC6-f3q9E

Questo video di BBallBreakdown risale a fine ottobre, prima ancora che questa stagione iniziasse. Diciamo che i segnali c’erano già.



 

L’arrivo di Steve Kerr ha liberato i Warriors da questo modo di giocare prendendo spunto dai tre modelli di pallacanestro della sua carriera: Phil Jackson (col quale ha vinto tre titoli), Gregg Popovich (con cui ha vinto nel 1999 e nel 2003) e Mike D’Antoni (di cui è stato GM dal 2008 al 2010). In tantissimi aspetti la squadra di Kerr sembra assomigliare a quei Suns che hanno segnato un’epoca a metà degli anni 2000: non è un caso infatti che il suo

, Alvin Gentry, sia stato capo allenatore dei Suns nel 2010 quando la squadra capitanata da Nash arrivò ad un’improbabile finale di conference persa contro i Lakers. E non è neanche un caso che un altro veterano delle panchine NBA, Ron Adams, sieda al suo fianco dopo aver assistito Tom Thibodeau nell’avventura ai Chicago Bulls (migliorando, e di parecchio, la carriera del nostro Marco Belinelli). A differenza di Mark Jackson, che ha avuto

e

, Kerr ha avuto l’umiltà di circondarsi di gente che ne sapeva più di lui e di ascoltarli, pur mantenendo sempre l’ultima parola su tutto, copiando esattamente quanto faceva Phil Jackson con i suoi collaboratori, e facendosi sentire quando necessario in spogliatoio, proprio come Gregg Popovich.
E per quanto l’impronta del Reverendo Jackson sia ovunque in questa squadra, bisogna mettere bene in chiaro il concetto che tutto questo successo

, che ha saputo far fare ai Warriors il salto di qualità da

a

. Vale a dire il passaggio più difficile nel percorso di crescita di una squadra.

 



Ogni volta che una squadra ha successo, dopo una iniziale fase di applausi e complimenti si passa immediatamente alla fase successiva, quella dei dubbi: ma saranno davvero questi ai playoff? Sapranno continuare su questo livello? Bogut rimarrà sano? Tireranno ancora con quelle percentuali? Potranno correre così tanto a maggio e giugno? E se si fa male uno degli

? Sono tutte domande lecite alle quali i Warriors aspettano di poter rispondere all’interrogazione di primavera, quella dove si deciderà il destino della loro stagione prima di affrontarne altre, ugualmente complicate, in estate (c’è Draymond Green in scadenza: che si fa?).
Quello che è certo, però, è che quest’anno per arrivare a vincere il titolo NBA bisognerà passare dalla Oracle Arena di Oakland, il tempio pagano di Steph Curry e i suoi fratelli, dove i Warriors in questa stagione ne hanno vinte 19 in fila, prima di perdere ieri notte all'overtime.
Ed è questa la domanda che

pongono al resto della classe: chi ci viene a battere sul nostro campo? La sfida è aperta, loro aspettano.

 
 

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