La storia dell’umanità è costellata di grandi invenzioni arrivate per caso o per coincidenza, cercando un rimedio a un inaspettato contrattempo. Ad esempio, così è stato l’infortunio all’anca che costrinse David Lee a uscire durante la prima partita dei playoff del 2013 tra i Golden State Warriors e i Denver Nuggets. Lee era l’All-Star di quella versione dei Warriors, il primo della franchigia negli ultimi sedici anni, nonché il punto di riferimento della squadra allenata da Mark Jackson, il quale non poté che mandare in campo al suo posto il rookie scelto alla 35^ chiamata l’estate precedente, tale Draymond Green da Michigan State.
Nel corso della stagione Green si era guadagnato sempre più minuti e fiducia da parte del coaching staff, ma come gran parte della squadra non aveva alcuna esperienza di playoff. D’altronde erano i primi Warriors capaci di tornare ai playoff dalla mitologica annata del “We Believe” e nessuno si aspettava che avrebbero potuto seriamente impensierire i ben più quotati Denver Nuggets che avevano chiuso la loro miglior regular season di sempre con 57 vittorie. Invece, dopo l’infortunio di Lee, gli Warriors sono poi riusciti a vincere quattro delle successive cinque partite, approdando miracolosamente al turno successivo contro i favoritissimi San Antonio Spurs - i quali dovettero sudare le proverbiali sette camicie per continuare la loro strada fino alle Finals.
Solo che Mark Jackson, come tanti inventori fortunati o sbadati, non ha saputo sfruttare fino in fondo i risultati della sua scoperta. Sarebbe servito l’arrivo di Steve Kerr nell’estate del 2014 per sbloccare definitivamente il valore di Draymond Green e costruire la spina dorsale della squadra che ha dominato la NBA per il successivo lustro abbondante. Green infatti è diventato in brevissimo tempo la spalla ideale per accompagnare la scalata di Steph Curry a nuovo volto della lega, il complemento perfetto al futuro due volte MVP.
Come da tradizione anche in questa stagione Steph partirà titolare all'All-Star Game.
Una nuova grammatica
Se Klay Thompson è stato sempre definito il fratello acquisito di Curry, il gemello del tiro da lontanissimo, i due sono troppo simili per incastrarsi perfettamente. È stata invece la relazione con Green ad aver spinto Steph ad ampliare ed estendere il suo talento. E anche all’ottava stagione insieme, superata la crisi del settimo anno, la loro telepatica connessione rimane uno spettacolo da seguire ogni notte. I due si comprendono senza dover ricorrere all’uso della parola e si trovano anche in un palazzetto con le luci spente, come una coppia di vecchi amanti.
Curry e Green sono la frase minima del basket contemporaneo. Puoi sostituire gli aggettivi e i complementi attorno, o anche strapparli via dalla pagina, e loro continueranno ad avere senso e spiegare come si gioca. Certo, aver rimpiazzato Kevin Durant, Klay Thompson e il resto di quella squadra irripetibile con le loro versioni discount impedisce a Steph e Dray di esprimersi in endecasillabi come durante quelle stagioni, durante le quali gli Warriors avevano scavalcato la mortalità. Quelli attuali non sono più lo schiacciasassi da quattro Finals consecutive: le defezioni, gli infortuni e il passare del tempo li hanno allontanati dallo status di contender al quale forse non torneranno mai. Ma basta il talento perfettamente complementare dei due a rendere competitivo ogni quintetto che Steve Kerr gli rattoppa attorno.
C’è voluto un po’ di tempo - e sicuramente la preseason azzerata non ha aiutato - ma alla fine grazie agli insegnamenti in campo di Green e fuori di Kerr anche i nuovi giocatori in maglia gialloblù si stanno faticosamente trasformando in aggettivi utili al discorso Warriors. A oggi Golden State è in piena corsa per i playoff della Western Conference (al settimo posto con un record di 16-13), una situazione che non era così preventivabile quando la notizia del nuovo infortunio di Klay Thompson ha gelato le speranze di riscatto dopo la fallimentare scorsa stagione e soprattutto dopo le prime partite della nuova stagione, con i Warriors che imbarcavano acqua da tutte le parti e regalavano serate di gloria agli attacchi avversari.
Poi Curry e Green hanno deciso che così non si poteva continuare e hanno nuovamente plasmato la squadra sulla loro formidabile intesa, sistemando attorno a loro i nuovi innesti come definizioni di un cruciverba per solutori più che abili. Andrew Wiggins si sta scoprendo difensore sugli esterni di alto livello e Kelly Oubre ha finalmente trovato un minimo di continuità con il suo tiro dopo uno dei peggiori inizi balistici della storia della lega. Persino Kent Bazemore, tornato sulla Baia dopo tanto girovagare, ha portato con sé il ricordo di quei Warriors giovani e belli che era sparito negli ultimi mesi.
Quando però serve la vena poetica ci pensa sempre Curry a illuminare la partita, come l’altra notte contro Miami quando con due triple dal palleggio ha sigillato la rimonta al supplementare. Due triple arrivate in una partita nella quale nei tempi regolamentari aveva tirato con un orrendo 3/16 da oltre l’arco, a dimostrazione sia dell’istinto da killer di Steph sia dell’importanza capitale di Draymond Green, che è rimasto a riposo per un problema alla caviglia, nell’aiutarlo a costruirsi tiri più comodi.
Anche in una serata difficile Curry può risolvere la partita in ogni momento.
Quando Green è in campo la percentuale al tiro di Curry passa da un mediocre 51.4% ad un eccellente 58.3%, e la presenza di Dray influenza specialmente le conclusioni al ferro che migliorano di quasi venti punti percentuali ( dal 51.4% al 70.3%) e da dietro l’arco (dal 34.4% al 40.6%). Ma tutti gli Warriors eseguono i loro set a metà campo con diversa fluidità, segnando 12 punti su 100 possessi in più, quando Draymond Green può dirigere la squadra. E se è naturale che l’intero attacco di Golden State si inceppi quando Curry si prende i suoi minuti di riposo in panchina, non dovrebbe sorprendere che succede altrettanto quando Green fa lo stesso. Come ha recentemente ricordato Seth Partnow su The Athletic, Green non ha mai chiuso una stagione sotto la settantesima posizione per Regularized Adjusted Plus Minus offensivo (togliendo la scorsa dove ha giocato solo 43 partite) da quando Kerr siede sulla panchina di Golden State.
Numeri piuttosto incredibili visto che stiamo parlando di un giocatore che finora sta viaggiando a 5.2 punti a partita e tirando con il 36% dal campo. Solo due giocatori nella storia dell’NBA, Muggsy Bogues e Nate McMillan, hanno avuto più assist che punti di media mettendone a referto almeno sette a partita. Ma negli anni Green ha rinunciato via via alla gloria personale per ritagliarsi questo ruolo da aiutante magico, in pieno appoggio alle qualità di Steph Curry e modellando il suo gioco su quello del numero 30. Una complementarietà quasi inscindibile ormai, che esalta a vicenda i rispettivi talenti e soffre nell’assenza di uno dei due.
Telepatia cestistica
Soprattutto sono due fuoriclasse abituati a vincere e che non ci stanno a spendere una stagione da comprimari. Così, quando hanno capito che la situazione poteva prendere la deriva in qualsiasi momento, si sono rimboccati le maniche e preso la squadra per mano, conducendola tra mille difficoltà al rispettabile record attuale.
Nel mese di febbraio Curry sta facendo finta di vivere ancora nel 2016, segnando 35 punti di media con il 73% di percentuale reale e il 45% da tre punti, mentre Draymond Green sta smazzando oltre 11 assistenze a partita, ai quali andrebbero aggiunti anche quelli che crea con i suoi blocchi (3.6), completando l’evoluzione in playmaker in pectore della squadra. I due si scambiano i ruoli e si cercano continuamente in campo, trovandosi a memoria con scintillante facilità. Il 23% dei passaggi effettuati da Curry arrivano nelle mani di Green e addirittura il 36% di quelli di Draymond fanno il percorso inverso, portando a oltre due assist e mezzo a partita per Steph.
Cosa sarebbe precisamente questo?
Nelle ultime partite poi il vertiginoso aumento di assistenze di Green ha ulteriormente gonfiato questi numeri, fornendo 4.4 passaggi a partita da spingere solo nel canestro per Curry, che in queste situazioni sta tirando con un irreale 63% dal campo. D’altronde non esiste un modo attraverso il quale questi due non riescano a non trovarsi, rendendo ancora efficaci combinazioni che vediamo ormai da anni. Tutti gli split, i passaggi consegnati e i blocchi invertiti mandano ancora nel panico le difese avversarie grazie all’incessante movimento di Curry (che a ogni uscita spiega un paio di cose ai suoi epigoni su come si giochi lontani il pallone) e agli angoli inediti di passaggio e di blocco che Green riesce ogni volta a trovare, sorprendendo i restanti otto giocatori in campo.
Juan Toscano Anderson ha trovato il modo migliore per restare in NBA: tagliare a canestro dopo aver bloccato per Curry.
A volte sembra proprio che sia una sfida contro loro stessi, piuttosto che contro il malcapitato difensore, nel trovare le soluzioni allo stesso tempo più creative e più remunerative. E la loro abilità nel manipolare le difese avversarie rende il compito dei loro compagni di squadra molto più facile. Non avendo più a disposizione il capitale di talento e di comprensione del gioco che aveva gli scorsi anni, Steve Kerr ha dovuto semplificare il suo playbook offensivo, che spesso coincide proprio con il mettere il pallone nelle mani di Green e sfruttare la gravità generata dai movimenti di Curry. Con gli avversari che rincorrono il numero 30 per il campo, Green ha gioco facile ne trovare gli altri Warriors quando tagliano verso il canestro indisturbati. Intelligentemente Oubre - che stava ammaccando i ferri delle arene di mezza America - ora viene usato come lob threat mentre Wiggins è libero di muoversi in un campo meglio spaziato, specie quando Green gioca da cinque come ai tempi del Death Lineup.
Anche Oubre ha trovato il suo ruolo giocando sopra il ferro piuttosto che mettendo palla a terra.
Sembrano passati decenni da quando Curry e Green erano le colonne portanti di una squadra imbattibile, il cui regno non doveva aver fine. Ora sono due fuoriclasse costretti in uno schermo troppo piccolo, attorniati da attori di seconda fascia. Non sappiamo se questa sarà la cornice della fase finale della loro carriera o se riusciranno a ritagliarsi un ultimo ruolo da protagonisti, come due vecchi fuorilegge che cavalcano verso il sole. Quello che è certo è che non ci stancheremo mai di vederli improvvisare una soluzione nuova per prendere di nuovo di sorpresa le difese avversarie, anche dopo tutti questi anni.