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I migliori esoneri schivati da Stefano Pioli
29 ott 2025
L'allenatore parmense sembra avere un talento speciale nel salvarsi all'ultimo momento.
(articolo)
21 min
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IMAGO / Marco Canoniero
(copertina) IMAGO / Marco Canoniero
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Nell’epoca della rincorsa al meme istantaneo, del nuovo boom del Twitter calcio, a volte succedono cose che sembrano veramente immaginate da un’entità superiore dotata di un livello di sarcasmo sorprendente.

A metà del secondo tempo di Fiorentina-Bologna, i viola, senza capo né coda, si ritrovano su un vulcano prossimo all’eruzione. Nel giro di 20 secondi, i rossoblù prima chiedono un rigore, poi vedono De Gea salvare in acrobazia su un colpo di testa di Orsolini, quindi trovano il gol dello 0-3 con il neo entrato Dallinga. Le telecamere, a quel punto, indugiano su Stefano Pioli. Il cronometro del match dice che è il 67', la Fiorentina è sotto di tre gol, il pubblico dà il via a una contestazione la cui ferocia pare semplicemente sacrosanta. Pioli ha le mani lungo i fianchi e l’occhio che pare sull’orlo del pianto.

Se qualcuno ha deciso di cambiare canale in quel momento, chissà che faccia ha fatto quando, aprendo le app di riepilogo, ha letto il risultato di Fiorentina-Bologna 2-2. Un pareggio che non ha risparmiato Pioli dalla contestazione, arrivato peraltro al termine di una serata in cui anche l'arbitro ci ha messo del suo. Ma è un pareggio che comunque tiene l’allenatore sulla panchina dei viola, e al momento di quell’inquadratura malandrina nessuno avrebbe potuto immaginare un epilogo del genere, figurarsi quello di Pioli disperato sulla ciabattata di Dodo a lato a porta vuota per il possibile 3-2 fuori tempo massimo.

A fine partita c’è chi ha chiesto a De Gea cosa ha pensato al momento dello 0-3, prima dell’annullamento. «Che avremmo perso 6-0», ha risposto con una limpidezza che fa pensare che effettivamente in casa viola qualcosa debba cambiare a livello profondo.

Ma Pioli è ancora lì, e non sembra esserci un tecnico capace di schivare le pallottole degli esoneri come lui, in una sorta di rimborso morale della sorte per uno dei rari casi di licenziamento arrivato ancor prima dell’inizio del campionato: erano bastati i due pareggi fatali contro il Thun, nel preliminare di Europa League in piena estate del 2011, per indurre Zamparini a promuovere alla guida del Palermo il rampante Devis Mangia, che qualche mese prima aveva portato il Varese a una clamorosa finale scudetto (persa contro la Roma) nel campionato Primavera. Proprio il DS del Palermo, Sean Sogliano, lo aveva portato con sé in Sicilia da Varese, per poi lanciarlo nel grande calcio.

Da quel momento, la carriera di Pioli ha preso strade impreviste e imprevedibili, vivendo momenti di gloria eterna e cadute rovinose. E nessuno pare avere la sua capacità di ballare tra le fiamme che lo circondano, imperturbabile, consapevole che a un certo punto, non si sa come, troverà il modo per uscirne.

LE PREMESSE: SALERNITANA E PIACENZA
Questa misteriosa attitudine a salvarsi nei momenti caldi, Pioli se la porta dietro fin dagli inizi della sua carriera. Il debutto con una prima squadra si concretizza nell’estate del 2003, dopo una buona trafila nelle giovanili del Bologna e del Chievo. A chiamarlo è la Salernitana, che avrebbe già in mano l’accordo con Eziolino Capuano.

L’annuncio di Aniello Aliberti, all’epoca patron del club, arriva in diretta televisiva, con la squadra appena retrocessa in Serie C. A ribaltare tutto è Carmine Longo, direttore sportivo dei campani, che chiede e ottiene un faccia a faccia con il presidente. Il succo del discorso è semplice: se arriva Capuano, me ne vado io. Un ribaltone sempre ricordato in futuro da Capuano, al quale viene preferito un allenatore ancora senza patentino. Ma il 20 agosto succede qualcosa: il polverone sollevato dal caso Catania fa diventare la Serie B un carrozzone sterminato e la Salernitana viene ripescata.

Pioli non parte benissimo, soffre un po’ il primo incarico tra i grandi, dopo cinque giornate ha già tre sconfitte sul groppone. Poi la squadra si rianima, va bene in casa e male fuori. Il momento migliore arriva a cavallo tra il 2003 e il 2004, quattro vittorie e un pari in cinque giornate, Giorgio Di Vicino assoluto protagonista. Dopo il 3-2 al Cagliari di Zola e Suazo, la Salernitana è a tre punti dal sesto posto. Ma un campionato da 46 giornate nasconde imprevisti dietro ogni angolo. A innescare la crisi è una sconfitta in casa del Catania. Poi Livorno e Fiorentina, uno 0-0 striminzito col Piacenza. E il drammatico derby con l’Avellino: la Salernitana avanti fino al minuto 89 chiude gli occhi per 120 secondi e si ritrova ribaltata da due gol di Kutuzov.

Zeman, peraltro grande ex di giornata, rimane impassibile persino davanti a un pallonetto di Kutuzov al novantesimo di un derby campano.

La squadra imbocca un tunnel apparentemente senza via d’uscita: 0-3 col Messina, 1-2 col Pescara, poi due 0-0 con Verona e Napoli e tre sberle a Bari. La salvezza è ancora ampiamente alla portata, la Salernitana galleggia con sette punti di margine sulle due terzultime e sei sul Pescara quintultimo, piazzamento che conduce ai playout. Arrivano anche due vittorie, vitali, contro Como e Genoa, seguite però da un brutto rovescio interno con l’Albinoleffe (0-3) e da una caduta a Treviso così eclatante da portare Pioli a fare un passo indietro, sull’onda del 4-0 subìto.

La situazione di classifica non sarebbe drammatica, con ancora quattro punti da gestire sul Bari ventesimo, ma Pioli è convinto di non avere più il controllo del gruppo e presenta le proprie dimissioni. La dirigenza, però, decide di difendere l’allenatore ed esclude dalla rosa sei giocatori, inclusi nomi grossi per la categoria come Bogdani e Bombardini. A Terni, con una squadra ridotta all’osso, la Salernitana ribalta lo svantaggio con una doppietta di Alessandro Tulli. I punti sul Bari rimangono 4, per l’aritmetica c’è ancora tempo. Una settimana più tardi, con un rigore di Longo e la firma di Siyabonga Nomvethe, i campani si portano sostanzialmente in salvo.

Avanti veloce, così come va avanti veloce la carriera di Pioli, che passa per Modena e si ritrova a Parma, in Serie A: la 2006/07 è l’annata che rischia di affossare il tecnico parmense, esonerato con la squadra con un piede e mezzo in Serie B. A risollevare tutto ci penseranno un vecchio saggio, Claudio Ranieri, e un giovane attaccante incosciente, Giuseppe Rossi. Pioli riparte da Grosseto, club neopromosso in B che porta in salvo arrivando in corsa, dopo le tre sconfitte che erano costate il posto a Roselli. Una storia che ha a che fare con un patron vulcanico, Piero Camilli, e questa tendenza a misurarsi con presidenti ingombranti diventerà una delle costanti della parte centrale della carriera dell’allenatore. Le 39 partite trascorse indenni sulla panchina dei maremmani, aggrappato ai gol di Danilevicius, Andrea Lazzari e Graffiedi, rappresentano per Pioli un passaggio fondamentale, formativo.

Leggermente più accidentata è la parentesi alla guida del Piacenza, anche se la stagione è sostanzialmente serena. Il girone d’andata è quello che mette a dura prova la posizione di Pioli, che pure ha l’eccellente intuizione di consegnare in pianta stabile una maglia da titolare a un giovane Radja Nainggolan. Ma tra la fine di ottobre e la fine di dicembre, la squadra vive una crisi profonda: una vittoria in nove partite, con quattro sconfitte consecutive in cui si respira lo scoramento del tecnico.

Sui giornali locali il resoconto è impietoso ("La Triestina danza al Garilli, Piacenza alla deriva", si legge dopo lo 0-2 del 6 dicembre, che vede Pioli assumersi la piena responsabilità della situazione davanti ai giornalisti), ma la squadra si ritrova, anche grazie a un ritiro che cementa il gruppo. Il clima aiuta il tecnico, che non sente mai sfiducia da parte della piazza, e con un paio di vittorie fondamentali firmate da Guzman Pioli può rialzare la testa. La squadra chiude decima, purissima metà classifica, e a fine anno arriva la separazione. Sente di meritare di nuovo la Serie A, ma la chiamata non arriva.

In compenso, c'è un’annata storica con il Sassuolo, portato al quarto posto in B, con tanto di semifinale playoff persa con il Torino. E allora Chievo, finalmente in A, e il pasticciaccio di Palermo. Un esonero rocambolesco, ma che Pioli ha sempre commentato con estrema serenità. L’unico al quale non ha osato ribellarsi sul campo: «C’erano state le difficoltà in Europa, dovevamo giocare a Novara sul sintetico ma non mi ero inserito nell’ambiente. Sarà che la squadra veniva da una finale di Coppa Italia persa un mese prima, sarà che c’era un nucleo da cambiare, ma sentivo di non essere entrato nella testa dei giocatori. Zamparini mi dice che c’è lo sciopero e non si gioca la prima di campionato. Giochiamo un’amichevole col Napoli di Lavezzi, Cavani e Hamsik, perdiamo. Torno al centro sportivo e vedo telecamere, giornalisti e magazzinieri. Entrato negli spogliatoi, mi abbracciano tutti. Zamparini mi raggiunge da Mondello e durante un aperitivo mi dice che aveva delle strane sensazioni, che mi avrebbe esonerato comunque, alla prima sconfitta. Meglio farlo subito per farmi trovare squadra. Gli ho detto che aveva ragione, un mese dopo mi ha chiamato il Bologna».

BOLOGNA, LAZIO, INTER
Dopo due buone stagioni alla guida del Bologna, la terza comincia subito con i contorni del calvario. La vittoria non arriva mai, nemmeno quando si trova avanti 3-1 contro il Milan fino all’89’: a gelare il Dall’Ara sono le reti di Robinho e Abate. Il 5-0 contro la Roma e soprattutto l’1-4 con il Verona, cui segue il KO in casa del Sassuolo, mettono Pioli sulla graticola quando è soltanto fine ottobre. A tirarlo fuori dei guai ci pensa un gol confezionato dai due esterni difensivi: cross da sinistra di Marek Cech, colpo orrendo di petto di Jose Angel Crespo a centro area, in mischia, e il Livorno va KO dopo soli tre minuti.

Il post partita è quello del classico allenatore a rischio: «Pensavo solo alla partita, testa e corpo. Questo è stato il primo passo per uscire da questa situazione, lotteremo con altre 10-11 squadre per la salvezza». Il Bologna fa tre gol a Cagliari e a questo punto Pioli, forte anche del buon lavoro fatto nei due anni precedenti, si sente al sicuro. Pareggia con Chievo e Inter, ma in mezzo perde una partita sanguinosa, ancora una volta in pieno recupero, a Bergamo, con gol di Livaja. A metà dicembre, dopo due sconfitte con Juventus e Fiorentina, Pioli è ancora lì, a respirare l’odore dello zolfo a bordo panchina. Ma per Bologna-Genoa scopre di avere tutta una piazza per lui. E ce l’ha nonostante siano già tutti certi del nome del sostituto, un nome che oggi ci sembra a dir poco lunare.

Il favorito per raccogliere l’eredità di Pioli, secondo alcuni addirittura prima della sfida contro il Genoa, è nientemeno che Roberto Baggio, che da un anno e qualche mese ha in mano il patentino Uefa Pro e a gennaio del 2013 ha lasciato l’incarico come presidente del Settore tecnico di Coverciano, tirando stracci nei confronti della Federazione: «Il mio programma di 900 pagine, presentato a novembre 2011, è rimasto lettera morta. E io non tengo alle poltrone». Sta di fatto che Baggio non ha una singola panchina all’attivo in carriera, e proporlo come alternativa a Pioli sembra surreale anche in quei giorni, in cui viene messo in ballottaggio con Zola e Malesani. Ma tant’è.

Pioli, in conferenza stampa pre-Genoa, si presenta con un taglio in fronte provocatogli dal cane e parla già da esonerato: «Sono qui per rispetto verso l’ambiente e dei tifosi che continuano sostenerci e a sostenermi. So che tutti voi siete molto curiosi di vedere quella che sarà la prestazione della mia squadra domani, tra le tante cose che sono capitate in questa settimana abbiamo avuto anche un incontro con i nostri tifosi, che continuo a reputare un valore aggiunto, che ringrazio per la fiducia che continuano ad avere nella mia professionalità e nel mio lavoro, e che però credo che ci abbiano mandato un messaggio chiaro: il sostegno non è più incondizionato, il sostegno dipende dalle nostre prestazioni. Per quanto riguarda me, che io venga cambiato prima della partita di domani o che la mia esperienza a Bologna finisse dopo la gara o a fine stagione o alla fine del mio contratto, io sono questo, sono un allenatore, un professionista».

A salvare la panchina di Pioli è la solita punizione a giro di Alino Diamanti. Il presidente Guaraldi, che secondo i ben informati aveva già incontrato Baggio a cena, a fine partita si espone: «Questo è il Bologna che sogno, andiamo avanti con Pioli». Abbracci da parte di tutti, cori dei tifosi, sembra la rinascita definitiva, alla faccia di chi aveva ipotizzato un ammutinamento del gruppo nei confronti dell’allenatore. Quanto dura? Il tempo di mangiare il panettone. Il Bologna cade a Catania il 6 gennaio e al posto di Pioli arriva Davide Ballardini, che prende la squadra un punto sopra la zona calda e finirà retrocesso in B.

Quando firma con la Lazio, è ancora difficile individuare il posto di Pioli nel mondo. La prima stagione in biancoceleste è quella che lo porta a essere considerato in maniera stabile per squadre che sognano un posto in Europa: si ritrova per le mani il miglior Felipe Anderson della carriera e per alcuni mesi la formazione biancoceleste gioca un calcio sontuoso, manderà quattro giocatori in doppia cifra e Mauri si fermerà a nove reti. La stagione rischia però di finire nel dramma allo sprint: la sconfitta nel derby con la Roma consolida il secondo posto dei giallorossi alla penultima giornata, quando il sorpasso sembrava ormai cosa fatta; è un ko che arriva soltanto cinque giorni dopo la caduta ai supplementari in finale di Coppa Italia contro la Juventus, partita che ancora agita gli incubi del tifo laziale per il doppio palo colpito da Djordjevic. Avanti di due gol a Napoli, all’ultima di campionato, per cercare di blindare almeno il terzo posto che varrebbe il preliminare di Champions, la Lazio si fa rimontare nella ripresa nel giro di nove minuti da Higuain. Il Napoli avrebbe pure il rigore del 3-2, ma "el Pipita" lo spara alle stelle e i biancocelesti, con un’inusitata zampata di Onazi e la firma conclusiva di Klose, ottengono la terza piazza.

L’annata successiva è un’agonia, caratterizzata dal solito mercato al risparmio di Lotito, che aspetta il risultato del preliminare prima di aprire il portafoglio: a Leverkusen finisce male, qualche giorno più tardi de Vrij deve fermarsi (salterà tutta la stagione) e la Lazio si barcamena per mesi tra saliscendi che non portano da nessuna parte. Il periodo della crisi è sempre lo stesso: fine ottobre, metà dicembre. C’è un qualcosa di sinistramente ricorrente nelle fatiche di Pioli.

Con Atalanta, Milan, Roma, Palermo, Empoli, Juventus e Sampdoria ottiene la miseria di due punti. Le voci sono quelle di uno spogliatoio in ebollizione per via della decisione, a inizio stagione, di dare la fascia da capitano a Lucas Biglia, quando tutti, interessato compreso, erano convinti che sarebbe toccato ad Antonio Candreva. Voci striscianti che sarebbero state confermate dall’esterno qualche anno più tardi: «Ci tenevo molto a quella fascia, quando Pioli mi incaricò del ruolo di vice rifiutai perché pensavo che fosse giusto lo facesse chi, per anzianità, era da più tempo di me alla Lazio. Scegliendo Biglia, il tecnico non mi diede spiegazioni. Io non dissi nulla, tornai nella mia camera e ci ragionai un po'. Quindi chiamai Pioli per dirgli che, se non potevo essere il capitano, non sarei stato pronto neanche per fare il vice. Ci rimasi molto male, non sono riuscito a spiegarmi questa decisione ma può darsi anche che non fosse una scelta presa dal mister. Magari è stata una decisione di qualcun altro e lui si è preso tutta la responsabilità. Da quel momento la mia storia alla Lazio è cambiata, avevo perso qualcosa a livello inconscio e non ero più lo stesso».

Pioli traballa a più riprese, prima e dopo Lazio-Samp 1-1 (pari di Zukanovic subito al 93’) il nome più accreditato è quello di Cristian Brocchi, allenatore della Primavera milanista, fortemente legato all’ambiente biancoceleste. Gli altri nomi sul tavolo sono quelli di Francesco Guidolin e Simone Inzaghi, all’epoca tecnico della Primavera laziale. Dalla Svizzera giunge persino l’avvertimento di Vladimir Petkovic, esonerato in circostanze simili due anni prima: «Il secondo anno a Roma è una trappola». Il 20 dicembre, dal cilindro di Pioli, esce però un clamoroso successo contro l’Inter capolista a San Siro, firmato, ironia della sorte, proprio da una doppietta di Candreva. A tenere Pioli aggrappato alla panchina è soprattutto il cammino europeo, che però si interrompe in maniera clamorosa agli ottavi di finale di Europa League, con uno 0-3 con lo Sparta Praga che lo rende un dead man walking. A mettere la parola fine sulla sua esperienza laziale è un 4-1 nel derby.

Chiamato al capezzale dell’Inter post de Boer nel novembre 2016, a Pioli viene appiccicata la bizzarra etichetta di normalizzatore e di restauratore, quando in realtà i principi di gioco imposti soprattutto a Roma sono decisamente lontani da quelli di un profilo portato a piccoli ritocchi. Eppure, a un certo punto, l’interista Pioli – per fede dichiarata – piazza un filotto di vittorie consecutive tra campionato e coppa che fa sognare in grande.

Dopo Inter-Pescara 3-0, a fine gennaio, i nerazzurri mettono la testa al quarto posto scavalcando la Lazio, e la Roma seconda in classifica dista soltanto cinque lunghezze. A fiaccare il momento positivo arrivano però i ko nei due scontri al vertice: 1-0 a Torino con la Juve, 1-3 contro la Roma a San Siro. L’Inter rimane in scia al quarto posto vincendo in maniera tonante contro Cagliari (1-5) e Atalanta (7-1), poi di colpo finisce tutto. Tre sconfitte in quattro partite, il 5-4 di Firenze è quello che fa scattare nella testa di Pioli la necessità di rassegnare le dimissioni, credendo di non avere più la piena fiducia del gruppo. Ausilio e Zhang dicono no, ma il tracollo prosegue anche contro Napoli e Genoa e l’esonero si concretizza a tre giornate dalla fine, nonostante un bilancio complessivo da 39 punti in 23 partite di campionato. In mano ha già il contratto con la Fiorentina.

MILAN
La prima avventura di Pioli a Firenze meriterebbe da sola un articolo a parte, anche perché segnata dalla drammatica vicenda Astori. Meglio fare un salto in avanti e passare al luogo dove il parmense ha consolidato la sua fama di uomo capace di schivare esoneri in serie sempre al momento giusto. Persino il suo arrivo in rossonero è rocambolesco. Il Milan, dopo aver silurato Giampaolo in seguito alla vittoria (ebbene sì) contro il Genoa, è convinto di poter mettere le mani su Luciano Spalletti. Ma il toscano non intende favorire il divorzio dall’Inter, che lo ha tenuto sotto contratto dopo averlo esonerato per dare la squadra ad Antonio Conte, e chiede tutti i soldi dovuti dal contratto con i nerazzurri. In quelle ore, Pioli è a un passo dalla panchina della Sampdoria, che langue sul fondo della classifica con tre punti in sette giornate figli della gestione Di Francesco. L’altra possibile pretendente sembra essere il Genoa, a sua volta alle prese con la crisi di Andreazzoli. Nell’autunno del 2019, dunque, Pioli non solo è un tecnico che pare destinato di nuovo a sgomitare nella metà destra della classifica, ma secondo i ben informati piace alla Sampdoria in quanto alternativa meno costosa rispetto all’altro nome sul tavolo, quello di Claudio Ranieri.

Da Firenze, almeno questo va ricordato, Pioli era andato via in maniera decisamente polemica, rassegnando le dimissioni: «Sono stato costretto a lasciare: sono state messe in dubbio le mie capacità professionali e, soprattutto, umane», aveva detto dopo la pubblicazione di una nota ufficiale della società viola, vergata in seguito a una sconfitta con il Frosinone, in cui il club metteva nero su bianco la richiesta al tecnico "di gestire questo momento con la competenza e la serietà che ha dimostrato nella prima parte del campionato. L’impegno deve essere totale da parte di tutti. La proprietà non è assolutamente disposta ad accettare quello che sta accadendo da qualche mese a questa parte".

Spalletti tratta con l’Inter, prova a negoziare, scende a un solo anno di contratto da saldare. Ma i nerazzurri non mollano e Pioli, con un colpo di scena, viene chiamato dal Milan. Sono i giorni della ribellione su Twitter, l’hashtag #pioliout che diventa un trend a livello nazionale, anche per via della dichiarata fede interista del tecnico: «Ero un bambino timido e paffutello, ora sono un uomo maturo e pelato. Sono un professionista e voglio essere giudicato solo per quello che farò con il Milan e non per il passato, quando non avevo ancora le idee chiare», deve dire nella conferenza stampa di presentazione.

Scelto a ottobre 2019, a fine dicembre sembra già avere la valigia pronta: Atalanta-Milan 5-0 viene vista come una macchia troppo grossa per poter pensare di andare oltre. Zvonimir Boban, a quel punto, alza la cornetta per sentire se dall’altra parte dell’Atlantico c’è qualcuno che vuole tornare a Milanello. Con il ritorno in rossonero di Zlatan Ibrahimovic, il Milan prova l’ultimo colpo di coda per salvare Pioli. Arriva qualche vittoria, poi la sconfitta, ancora una volta nel derby, da 2-0 a 2-4 nel giro di 45’.

Il coronavirus è soltanto un’eco lontana proveniente dalla Cina quando Boban, ancora lui, dalle pagine della Gazzetta accusa la proprietà milanista, per la quale ancora lavora, di avere incontrato più volte Ralf Rangnick con l’obiettivo di farne l’architetto del Milan del futuro. «La cosa peggiore è che questo evento destabilizzante avviene in un momento durante il quale la squadra sta crescendo e si vede un grande lavoro di Pioli, in un momento dove si percepisce che si sta formando un percorso nettamente migliore. Non avvisarci è stato irrispettoso e inelegante. Non è da Milan. Almeno quello che ci ricordavamo fosse il Milan», tuona il croato.

Il 7 marzo, con l’Italia che sta per chiudersi tra le mura di casa per via del lockdown, il Milan licenzia Boban, che ha preso la pallottola in petto al posto di Pioli. La replica del croato non si lascia attendere: «Non sapevo fossimo in Corea del Nord». Pioli rimane in sella, ma per quanto? Rangnick a inizio maggio esce allo scoperto: «L’interesse del Milan c’è, ma col coronavirus ci sono state altre cose da considerare. Per me si tratta di aver una certa influenza, che non c'entra col potere, anche se in certe situazioni ne hai bisogno per portare avanti certe cose». Boban non c’è più, ma Paolo Maldini sì: «Non avendo mai parlato con Rangnick non capisco su quali basi vertano le sue dichiarazioni, anche perché dalla proprietà non mi è mai stato detto nulla. Alcune considerazioni secondo me però vanno fatte, il tecnico tedesco infatti, parlando di un ruolo con pieni poteri gestionali sia dell'area sportiva che di quella tecnica, invade delle zone nelle quali lavorano dei professionisti con regolare contratto. Avrei dunque un consiglio per lui, prima di imparare l'italiano dovrebbe dare una ripassata ai concetti generali del rispetto, essendoci dei colleghi che, malgrado le tante difficoltà del momento, stanno cercando di finire la stagione in modo molto professionale, anteponendo il bene del Milan al proprio orgoglio».

Sta di fatto che il Milan torna in campo dopo la sosta forzata e si scopre fortissimo, quasi invincibile. Con enorme sorpresa di tutti, il 21 luglio arriva la notizia del rinnovo di contratto.

Seguono due stagioni in cui Pioli prende per mano la squadra e la trascina fuori dalla banter era: un secondo posto nel 2021, lo scudetto nel 2022, Pioli out che diventa Pioli is on fire, una storia nota. A febbraio del 2023 può festeggiare la Panchina d’oro, ma sono i mesi in cui la sua panchina ha ripreso a traballare. Una slavina emotiva innescata a inizio gennaio dalla Roma, che tra l’87’ e il 93’ recupera una partita in cui non aveva visto palla con i gol di Ibanez e Abraham. Due settimane più tardi, la Lazio passeggia sui resti del "Diavolo" (4-0). Passano cinque giorni e il ruolino, se possibile, peggiora: Milan-Sassuolo 2-5 riporta alla mente il tracollo di Bergamo. All’orizzonte c’è un derby con l’Inter che Pioli affronta mettendosi il cappotto, avendo ancora sulla pelle le cicatrici della Supercoppa persa nettamente a metà gennaio (3-0 in Arabia Saudita): tutti dietro, difesa a tre, nell’obiettivo di non prenderne troppi. È un paradosso, ma così come era arrivato ad allenare il Milan dopo una vittoria del suo predecessore, ora salva la panchina con una sconfitta, perché l’1-0 viene ritenuto dignitoso.

Fondamentale è anche il doppio scontro con il Tottenham, che porta i rossoneri ai quarti di Champions League. Con la politica dei piccoli passi, Pioli rimette piano piano la squadra in carreggiata, eliminando il Napoli e presentandosi alla semifinale con l’Inter in maniera forse fin troppo baldanzosa, rimediando una dolorosissima eliminazione senza mai dare l’impressione di poter competere.

In molti ritengono che l’esperienza di Pioli sia comunque destinata a esaurirsi a fine stagione. Non va così. Il 2023/24 è un viaggio al termine della notte, in cui affronta fantasmi sempre più spaventosi. Anche stavolta, tra ottobre e dicembre succede di tutto. In campionato arrivano le sconfitte interne con Juventus e Udinese, tre giorni dopo il ko con i friulani a San Siro arriva il Paris Saint-Germain, che a Parigi aveva rifilato tre gol al "Diavolo", e i giornali sono già pronti con le paginate sull’esonero di Pioli. Ma Leao si mette il vestito buono, i rossoneri battono il PSG, salvano la panchina dell’allenatore e riaprono persino il discorso qualificazione, che sfumerà poi per la sconfitta col Dortmund. L’esonero sembra solamente rimandato, vista la sconfitta di Bergamo e il pareggio con la Salernitana rimediato all’ultimo respiro con Jovic. Il reset è improvviso ed efficace: quattro vittorie di fila tra il 30 dicembre e il 20 gennaio gli regalano di fatto la conferma fino a fine anno.

Contro il Bologna, passando dal virtuale 0-3 al 3-2 sfiorato, Pioli si è concesso l’ultima impennata. Si gioca una bella fetta di futuro a San Siro, alla ricerca dell’ennesima acrobazia. I nomi dei sostituti circolano già, ma è una trama che conosce a memoria. Chissà se anche stavolta avrà la capacità e la fortuna necessarie per uscire dalle fiamme senza conseguenze, solo qualche piccola bruciatura sul completo, tanto per ricordarsi di essere scampato all’esonero un’altra volta.

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