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Calcio Fabrizio Gabrielli 8 maggio 2019 8'

Stanley Menzo e la scuola dei portieri dell’Ajax

La scuola ajacide dello sweeper-keeper moderno, da Stanley Menzo ad André Onana.

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Di questo Ajax già leggerndario, la squadra che sta giocando il calcio più bello della Champions League, André Onana è uno dei personaggi più interessanti, per quanto poco celebrato.

 

Il lungo documentario con cui la società ha festeggiato il suo rinnovo del contratto fino al 2022, pubblicato sul canale YouTube ufficiale qualche settimana fa, si intitola “Onana – The Boss” ed è un ottimo strumento per conoscere qualcosa in più di un calciatore il cui carisma, e la storia personale, finiscono in secondo piano rispetto a talenti più appariscenti. Ci chiediamo dove saranno, tra cinque anni, De Ligt o De Jong o Van de Beek. Mai, però, che fine farà Onana.

 

onana

Una delle scene che mi piace di più, nel documentario, è quella in cui, vicino alla sua casa in Camerun, Onana mostra il campo in cui gioca ogni volta che fa ritorno nel paese che gli ha dato i natali. «Questo stadio» dice indicando uno spiazzo sterrato, argilloso, tra casupole col tetto di lamiera e alberi del pane, «questo campo», si corregge poi, «per noi è… il “Giuseppe Meazza”».

 

Onana è cresciuto nella Samuel Eto’o Academy, prima di trasferirsi, nel 2010, nella Masia, la cantera del Barcellona. Il suo immaginario è diventato collettivo: tutto ciò che prima ruotava attorno alla figura quasi mitica di Eto’o, dal trasferimento in Europa ha preso a ruotare attorno ai colori blaugrana, al loro stile in campo, alla loro tradizione.

 

La traiettoria di Onana, come quella di un salmone, ha viaggiato a ritroso: dal Barcellona, dopo quattro stagioni, si è trasferito ad Amsterdam, controvento rispetto alla rotta battuta fin dai tempi di Cruyff. C’è una lista molto fornita, e non sempre brillante, di calciatori passati dall’Ajax al Barcellona: Onana è una delle rare eccezioni, insieme a Bojan, ad aver compiuto il tragitto inverso. Onana dice di interpretare il gioco come ha imparato a fare nella Masia, e si riferisce soprattutto alla sua posizione in campo, decisamente alta rispetto alla media, e alla propensione a giocare molto il pallone con i piedi, il che ne fa uno degli esempi più chiari di sweeper-keeper del calcio attuale. Ciò che Onana tralascia, forse dandolo per scontato e perdendo l’occasione di stupirsi di fronte alle coincidenze, però, è che il primo laboratorio di sviluppo dello sweeper-keeper è stato proprio l’Ajax.

 

Un giocatore di movimento con i guanti

Vedere Onana lanciato in anticipo sulla trequarti, dribblare un difensore, partecipare attivamente alla manovra, beh, non so a voi ma a me ha ricordato molto Stanley Menzo, ed è un peccato che finora non si sia parlato di più di questo parallelo. Così come Onana, Menzo non era la primadonna di una squadra che poteva contare, nei suoi anni di permanenza, su Van Basten, Bergkamp, Van‘t Schip o Litmanen. Eppure, il suo apporto è stato fondamentale, al punto che quando nel 1987, dopo aver rotto un digiuno durato quattordici anni, l’Ajax è tornato a vincere una competizione europea, la Coppa delle Coppe contro il Lokomotive Lipsia, durante le interviste post-partita Johan Cruyff non ha esitato nel riconoscere quale fosse stato il giocatore più importante della sua squadra. “Stanley Menzo”. E non per le parate, ma per la partecipazione al gioco della squadra.

 

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Con Muhren e Wouters dopo la vittoria ad Atene.

 

Cruyff si è seduto sulla panchina dell’Ajax, nel 1985, con l’idea fissa di voler provare ad imporre una filosofia chiara, caratteristica, rivoluzionaria, in cui – tra le altre cose – il portiere non sarebbe dovuto essere un elemento di decoro, ma – come sarebbe poi stato in seguito definito da Simon Kuper – un “giocatore di movimento con i guanti”.

 

Forse in Menzo Cruyff rivedeva Jan Jongbloed, il pittoresco portiere dell’Olanda nel 1974, che giocava con le ginocchiere e senza guanti, ma soprattutto spesso – molto spesso – con i piedi. Menzo aveva una buona tecnica di passaggio, era veloce, coraggioso, ambidestro, prono al passaggio di prima. A volte si perdeva in leziosismi o finiva per rivelarsi goffo. Eppure, ogni progetto di rivoluzione, nell’idea di Cruyff, sarebbe dovuto passare dal portiere. E quindi da Stanley Menzo.

 

All’Ajax di Cruyff, come a quello di Ten Hag, piaceva giocare nella metà campo avversaria, tenere la linea difensiva altissima: in un contesto del genere, Menzo era chiamato – come lo è oggi Onana – a ridurre il gap con la difesa, ma anche a dare manforte nella circolazione del pallone. “Esci e commetti errori”, lo esortava Cruyff. Menzo usciva, magari con il cuore più leggero: si assumeva i suoi rischi, perché al rischio maggiore è collegata la ricompensa più grande, o almeno questo era il messaggio che gli trasmetteva il suo allenatore.

 

The Ajax #passmap is actually pretty decent.
Important role for Ziyech, Schöne a bit high up perhaps.
Lot of build-up through de Ligt. pic.twitter.com/tyln6LIDNM

— 11tegen11 (@11tegen11) August 3, 2017


A proposito di posizioni medie altissime.

 

 

Per affinare un’interpretazione del ruolo così innovativa, Menzo ha sempre fatto tesoro degli insegnamenti di Frans Hoek. Hoek, ex portiere lui stesso, è stato il primo estremo difensore ad alzare l’asticella del livello di analisi del suo mestiere: si è concentrato sull’interpretazione dei dettagli più minuti, e nell’elaborazione di un metodo di allenamento che a un certo punto ha anche cominciato a pubblicare su vhs, godendo di un discreto successo commerciale.

 

Cruyff lo aveva voluto nel suo staff perché «quando alleni un top club non puoi essere esperto in tutto, e il trucco è farti un team dei migliori specialisti in circolazione che ti circondi». A metà degli anni ‘80, Hoek era quanto di meglio ci fosse in circolazione; e Stanley Menzo, la personificazione di ogni sua teoria sul portiere moderno.

 

«Non ho mai avuto l’ambizione di fare il portiere», dice Menzo in una lunga intervista del tempo. «Normalmente sono i coglioni che stanno in porta. […] Sono letteralmente l’ultima ruota del carro. Anche all’Ajax: fino a cinque anni fa non c’era neppure un allenamento specifico. Nessuno analisi delle tue qualità, niente di niente». Ad averlo colpito, di Cruyff, era l’atteggiamento spregiudicato, che in qualche maniera controintuitiva finiva però anche per essere decisamente lungimirante: «secondo lui riesci a contenere meglio gli avversari se non sei costretto a contenerli, si capisce che intendo? […] Il mantenimento degli avversari è fisica, una regola sullo spazio: chiudere angoli, uscire, intercettare il pallone».

 


A Menzo non era concesso rimanere sulla linea di porta: doveva essere l’uomo in più, tanto in fase di costruzione quanto di interdizione. Le sue proiezioni in avanti non sono mai state un lusso o un vezzo, ma una necessità.

 

Devi buttarti alle spalle tutte le miserie

A differenza di Onana, che dà l’impressione di essere un ragazzo inquadrato, con la testa sulle spalle, come si dice, Stanley Menzo era anarchico, fumantino, arrogante, irrispettoso. Una volta, in una trasferta a Tilburg, al termine della partita stava uscendo dal campo con una scatola tra le mani. «Cosa c’è là dentro, banane?» lo apostrofa un tifoso dalla parte più bassa delle gradinate. Lui si avvicina. «Ripetilo, se hai coraggio». Il tifoso lo ripete, e Menzo lo atterra con un gancio. «È stato sfortunato, mi ha trovato proprio nel momento in cui stavo prendendo lezioni di boxe».

 

Parlando dell’evoluzione del ruolo, un processo di cui  si sentiva un portabandiera, diceva frasi tipo «con tutto il rispetto per Piet Schrijvers, un portiere ciccione che rimbalzella fuori dai pali non avrebbe mai potuto incarnare quest’idea». Menzo era emotivamente instabile: si irritava spesso, si intristiva con la stessa facilità. «Per evitare di incappare in errori e brutti momenti tra i pali devi buttarti alle spalle tutte le miserie, non puoi startene con le mani in mano».

 

La stabilità emotiva di Stanley Menzo, andrebbe detto a questo punto, aveva subito un bruttissimo colpo proprio nel momento di massimo picco della sua carriera. Nel 1989, quando aveva 26 anni e aveva già alzato una Coppa delle Coppe e due campionati olandesi, si era trovato coinvolto, per quanto si possa usare il termine indirettamente, nella tragedia del Kleurrijk Elftal, il disastro aereo in cui molti suoi compagni di origine surinamese erano morti. Una tragedia che Menzo aveva scampato per una questione di istanti, coincidenze, e per aver preso la decisione di anticipare il resto del gruppo, raggiungendo Paramaribo per conto suo. Si era salvato per il suo spirito di iniziativa, e dello spirito di iniziativa avrebbe fatto il suo mantra.

 

«Un mese dopo la tragedia del Suriname ho cominciato a prendere lezioni di volo. Ora sto imparando ad andare da solo – è molto più bello del calcio. Sei libero, nessuno può farti pressione, sei in controllo di tutto. Di tutto».

 

Menzo sentiva di dover portare sulle spalle tutto il carico delle responsabilità, e soprattutto delle aspettative, tra cui – per prime – quelle che nutriva in se stesso. «Ogni volta, per esempio, che non vengo convocato in Nazionale: mi viene voglia di smettere di giocare».

 

Uno degli antidoti alla malanima, e dei principali propellenti al suo egocentrismo, era lo stile ricercato delle divise. «Ricordo che sono venuti da me con questa divisa da portiere inglese, tutta verde. La trovavo offensiva alla vista. C’era qualcosa che non andava». «L’apparenza è importante: il calciatore è essenzialmente un artista che va sul palco, deve brillare, deve essere scintillante». «Sono stato il primo a sperimentare, a indossare divise dai colori brillanti che oggi sono la norma. Eppure hanno scritto che Menzo stava tra i pali con un pigiama addosso».

 

 

 

In sé Menzo concentrava tutti i cliché sulla solitudine – e la pazzia, o almeno la stravaganza – del portiere; ma anche elementi abbastanza inediti, come uno sfogo disinibito delle proprie frustrazioni, e una coscienza di classe granitica.

 

«Sono solo: so di essere solo, perché il portiere è solo per definizione. Se segniamo un gol devo farmi un party per fatti miei. Non correranno mai ad abbracciarti. E se invece prendiamo un gol: allora è colpa mia. Ti girano le spalle, lo sai, scuotono la testa. Nonostante sia io che in decine di occasioni mi trovo a salvare errori che hanno fatto per pigrizia, inedia, le loro disattenzioni». «Il calcio, semplicemente, è del tutto anti-sociale, tra compagni di squadra».

 

L’inizio della fine

Errori, talvolta buffi, incomprensibili, Menzo ne faceva – così come Onana, dopotutto. Lo chiamavano “De vliegende kiep”, che significa “il bassotto volante”: già dal soprannome si avvertiva quanta poca autorevolezza gli conferissero i suoi stessi tifosi.

 

L’inizio della sua fine, con la maglia dell’Ajax, è stato una partita di Coppa UEFA, nella stagione ‘92-’93, in casa dell’Auxerre. L’anno prima era stato uno dei protagonisti della doppia finale con il Torino. Ad Amsterdam i granata avevano colpito tre pali; lui, a fine partita, aveva baciato il suo compagno di campo silente (o almeno è quello che racconta Luciano Moggi).

 

L’autogol subito sul campo dei francesi è deprimente: la parabola di Vahirua, direttamente da calcio d’angolo, lo sorpassa beffarda. Lui calcia il vuoto, scuote la testa. L’arbitro lo carezza compassionevole.

 

Dopo quella partita, Menzo perse il posto da titolare. Van Gaal lo sostituì con il giovane secondo portiere, Edwin van der Sar. Con Menzo caduto in disgrazia, Hoek concentrò tutti gli sforzi sul giovane rincalzo, rendendolo quello che sarebbe poi diventato, affindando un insegnamento che Menzo aveva già introiettato: quando l’avversario mette pressione ai difensori, è giusto che giochino la palla su di te, e che tu sia pronto a giocarla su un compagno. In assenza di un’opzione valida, prima, il portiere avrebbe rilanciato lungo. All’Ajax, la prima legge è cercare la linea di passaggio.

 

La carriera di Menzo, decontestualizzata, cominciò a imbarcare acqua. Si trasferì al PSV, poi in Belgio, al Lierse. Eppure la sua anima è rimasta piuttosto viva all’interno dello spirito ajacide, e i tifosi nutrono ancora per lui un affetto caloroso.

 

E noi, se in qualche modo volessimo risalire alla fonte dalla quale è sgorgata la prima goccia della tradizione degli sweeper-keeper dell’Ajax, rappresentata oggi da Onana e passata per van der Sar, dovremmo cercarla proprio in lui, in Stanley Menzo.

 

Quando è sceso in campo per la sua prima finale europea, Menzo aveva 24 anni. Onana, due anni fa, nella finale di Europa League con il Manchester United, 21. Quando gli chiedono cosa sente di avere in comune con Menzo, Onana glissa. Forse, semplicemente, non lo conosce così bene. «Ma se mi paragonate a un portiere così stiloso, che ha vinto tanto con l’Ajax, deve essere qualcosa di positivo, per me».

 

  

Tags : ajaxandré onanastanley menzo

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.

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