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Diego Guido
Via Filadelfia
16 nov 2015
16 nov 2015
Una passeggiata attorno allo stadio torinese un anno prima della sua sua nuova inaugurazione.
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Diego Guido
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Filadelfia non è Philadelphia. Sono due posti lontani, così distanti che tra di loro ci stanno un oceano intero, cinque meridiani, tre caravelle. Il senso di quella distanza è condensato dentro a quelle due "f". Filadelfia con le "f" non è Philadelphia. Filadelfia con le "f" è una cosa sola: lo stadio di Torino. Anzi del Torino.


 



Fino a poco tempo fa non capivo perché il Filadelfia si chiamasse così. Avevo sempre ignorato l'elementare sillogismo se A) l'ingresso dello stadio si affaccia su una via, e se B) la via è intitolata a Filadelfia, anacronistica italianizzazione dell'americana Philadelphia, allora C) quello stadio si chiama Stadio Filadelfia. Mi ero sempre accontentato di conoscerne il minimo indispensabile. Mi bastava sapere che il Filadelfia era stato lo stadio del Grande Torino e che da qualche anno era mezzo abbandonato. Poi però a luglio l'ho visto coi miei occhi. Allora ho capito che quel che sapevo non bastava più e che avevo domande che andavano fatte a chi quel posto lo conosce bene e gli dà del tu. A chi ha abbastanza confidenza per chiamarlo Fila. Quindi? Quindi mi sono rivolto a una chef.

 

Il potage è un meraviglioso stufato di carni e verdure al forno. Nelle domeniche d'inverno il suo profumo è perfino commovente. Lo cucinano in pochi e quei pochi vivono tutti a Monteu Roero, un paesino a meno di un'ora da Torino, appena sopra le Langhe. Il miglior potage di Monteu lo serve Paola Castigliano nel suo ristorante, proprio sulla strada che sale al paese. Le telefono e ci parliamo. La immagino immersa nella poesia che arriva dal potage in forno. Mi dice: «Quando ho perso mio padre a Superga avevo un anno. Tutte le cose che so del Filadelfia e di tutto il resto, le so perché me le hanno raccontate gli altri. Credimi, non ti sarei d'aiuto per il tuo articolo. Però conosco una persona che può aiutarti. Ti dò il numero».

 



 

Il padre della signora Paola era Eusebio Castigliano, il centrocampista del Grande Torino, probabilmente il giocatore più tecnico di quella squadra di fenomeni. La persona di cui Paola mi ha dato il numero è Domenico Beccaria, il presidente dell'Associazione Memoria Storica Granata, uno di coloro che hanno avuto l'incoscienza e la tenacia necessarie per non smettere mai, anno dopo anno, intoppo dopo intoppo, di martellare istituzioni e società sulla necessità della ricostruzione del Filadelfia.

 

Dovrà ripartire da tutto quel che è stato fino al 17 ottobre 2015, il giorno della posa della prima nuova pietra in mezzo alle altre pietre più vecchie. Il nuovo stadio sarà molto bello, ma anche molto nuovo. Gli servirà un'anima e dovrà trovarla dentro all'identità, alle storie, ai ricordi che dal 1926 il vecchio Fila ha scolpito nella città e nella sua gente. Ora che per il Filadelfia è iniziata la ricostruzione, più che mai c'è bisogno di ricordare com'era, come è stato e cosa ha passato.

 



Il Filadelfia ieri, prima del 17 ottobre, non aveva più nulla dello stadio che fu e non aveva nemmeno quasi più nulla di uno stadio in generale. Dopo l'abbattimento quasi integrale ordinato dal Comune nel 1997, trovarselo davanti era un'esperienza che aveva un'infinità di punti in comune con la visita a un sito archeologico. Si poteva vedere la cinta muraria e si poteva scorgere qualche mattone tra le erbacce. Magari si riusciva a trovare perfino qualche dettaglio ancora integro dell'architettura originaria, o qualche scritta leggibile; ma erano sempre posizionati in un punto apparentemente a caso, slegati da tutto il resto.

 

L'approccio mentale era lo stesso che può valere per una passeggiata tra le strade di Ercolano, o tra le rovine di Segesta, o in chissà quanti altri luoghi che non ci sono quasi più. Di fronte a un impatto visivo per forza di cose tanto incompleto, il segreto è sempre lo stesso: pensare a come doveva essere.

 

Pensare ai mattoni rossi del muro tutto attorno e delle tribune. Allo stile liberty della grande gradinata coperta, alla sua raffinata struttura in ghisa a sostegno del tetto in legno. Immaginare le grandi finestre bianche sul retro, tutte rivolte al campo d'allenamento verso via Tunisi e tutte affacciate su un elegante e lunghissimo ballatoio, bianco anche quello. Immaginarsi le poltroncine in legno nei settori più costosi e i gradoni di cemento in quelli più popolari. Provare a figurarsi le giornate tutte uguali del custode: che viveva con la famiglia nell'appartamento nascosto dentro la pancia della tribuna principale, che sorvegliava sui campi, che si preoccupava che la bandiera sul pennone di via Filadelfia fosse sempre immacolata.

 

Immagini da proiettare dentro quell'isolato dalla geometria netta. Un grande rettangolo circondato di condomini e balconi, chiuso nell'abbraccio di quattro vie perpendicolari tra loro. In senso antiorario, via Tunisi, via Filadelfia, via Giordano Bruno e via Giovanni Spano. Quattro lati fatti di posteggi e poco traffico, dentro cui dormivano i due vecchi campi, affiancati tra loro per il lato lungo. Il campo accompagnato su tutta la fascia da via Tunisi, usato per gli allenamenti; quello appoggiato a via Giordano Bruno, usato per giocare. Per giocare a eccezione del periodo 1945-49, quando veniva usato solo per vincere.

 



Mentre percorrete a piedi via Tunisi, costeggiando il vecchio—e anche il nuovo—campo da allenamenti, qualcuno dovrebbe dirvi come stavano davvero le cose qui. «Lo sai che il Filadelfia in realtà si chiamava Campo Torino?», la voce interrompe la mia foto di un muro che non c'è più. Sul marciapiedi picchiato dal sole, ci siamo solo io e lui, uno dei volontari che da qualche tempo custodiscono l'ingresso al vecchio stadio, da quando non è più accessibile. Avrà sui 65 anni. Mi spiega che l'avevano inaugurato con quel nome, Campo Torino, ma che poi nessuno l'ha più pronunciato. «Ma una volta succedeva anche con le persone. Nasceva un bambino, lo battezzavano Antonio e poi chissà perché tutti iniziavano a chiamarlo Luigi. Capitava». Iniziamo a camminare insieme.

 

Qui, prima del Filadelfia, non c'era nulla. Nulla che non fossero campi e cascine di agricoltori. Nel 1926, l'anno della costruzione, il quartiere era una zona molto più periferica di quanto non lo sia oggi. Il conte Marone Cinzano—magnate del beverage per ereditarietà, presidente del Torino per passione—la scelse per contenere i costi dell'acquisto del terreno. Lo stadio si sarebbe fatto qui, e i soldi li avrebbe messi lui a fondo perduto. Parlare di scelta meramente economica non rende però il giusto merito all'intuizione di Cinzano. Vero: l'area costava meno che altrove. Ma chi riusciva a vedere lungo sapeva che da quelle parti il destino della campagna era ormai segnato.

 

L'inesorabile avanzata urbana era ufficialmente iniziata nel 1915, quando la Fiat aveva deciso di spostare il grosso della sua produzione non molto lontano da lì. Sette anni dopo quella scelta, nel '22, il Risiko torinese registra la decisiva offensiva della città (e degli Agnelli): il nuovo quartier generale del Lingotto raggiunge il suo definitivo sviluppo. Nuove fabbriche portano nuovo lavoro; nuovo lavoro porta nuovi operai; nuovi operai portano nuove abitazioni, il più possibile comode al luogo di lavoro. Era partita la corsa a tirare su condomini, fabbriche, stazioni. E anche stadi.

 



 

I palazzi che oggi si affacciano su via Tunisi—arteria fulcro di tutto Borgo Filadelfia—sono l'effetto di quella trasformazione. Per qualche anno ancora, la campagna attorno allo stadio ha resistito. Poi i condomini hanno iniziato a sorgere anche lì. Tra la fine degli anni '30 e l'inizio dei '40 sono arrivati alcuni degli edifici che si vedono ancora oggi. Nella trasformazione da rurale e residenziale dovevano essere disegnate e battezzate nuove vie. Qui la toponomastica, specie che spesso vive in branco, ha scelto nomi di città. C'è via Nizza, dove Rigamonti, Bacigalupo e Martelli—metonimie del Torino con il Grande davanti—a 5 minuti a piedi dal campo d'allenamento, dividevano assieme l'appartamento che li ha fatti diventare il trio Nizza. Ci sono anche via Montevideo, via Sebastopoli, via Genova. C'è perfino via Taggia. Nessuna sorpresa allora se, svoltando a sinistra da Tunisi vi ritrovate in Filadelfia. Dal Maghreb alla East Coast, in due passi.

 



Siete in via Filadelfia e, a questo punto, potete anche dimenticarvi del nome originario Campo Torino. Questa strada ha sempre avuto una personalità ingombrante. Ha battezzato il Borgo in cui è sdraiata e ben presto, per tutti, si è presa anche il nome dello stadio.

 

Continuo a passeggiare affianco al custode. Alla nostra sinistra, per qualche decina di metri, un paio di condomini ci impediscono di vedere il campo. Poi finiscono e di colpo ci siamo davanti. Un cancello color granata con due tori rampanti in rilievo e il pennone di cemento. L'ingresso del Filadelfia. «Quel container lì è dove stiamo noi. La nostra casa provvisoria. Siamo qui da un anno a controllare che nessuno entri senza permesso. Ché per troppo tempo chiunque poteva entrare e fare i comodi suoi». Poi mi saluta ed entra dagli altri volontari.

 

Sulle pareti esterne del loro ufficio, i volontari hanno fatto esporre alcune foto d'epoca. In una si vede un portiere completamente vestito di nero. È stata scattata il 3 maggio del 1949, a Lisbona, in Portogallo. Era lì a giocare un'amichevole di fine stagione. Nella foto è sospeso in aria mentre devia un tiro sopra la traversa. Ha ancora 25 anni compiuti da nemmeno due mesi, si chiama Valerio e gioca nella squadra di calcio più forte e famosa d'Italia e d'Europa. Forse del mondo. A guardare quella foto lui è ancora lui, ancora lì a parare. Non può sapere che il giorno dopo sarà Superga a immortalarlo, più di ogni fotografia. Davanti alla foto, prima che il Filadelfia venga ricostruito, si percepisce che al di là del cancello c'è un pezzo di città fuori dal presente. Come se qualcosa fosse ancora fermo lì da allora.

 

A pensarci bene, il Filadelfia di Torino e la Philadelphia americana una cosa in comune ce l'hanno: sono entrambi luoghi d'indipendenza. Posti in cui è stata dichiarata la fine di una sudditanza. A Philadelphia c'erano i coloni che non sopportavano più di avere al collo il guinzaglio di Londra. Al Filadelfia lo stesso: sempre indipendenza e sempre dagli inglesi. Se negli anni '40, per la prima volta, l'Italia ha potuto esibire all'estero una sua dignità calcistica, un suo stile, una propria identità vincente, è stato grazie al Grande Torino. La squadra costruita e ammirata al Filadelfia, celebrata in tutto il continente, la cui fama arrivava fino al Sud America, era il segno che il calcio italiano ora camminava con le proprie gambe. Non c'era più alcuna soggezione verso i padri inglesi arrivati 50 e 60 anni prima per impiantare il calcio al di qua delle Alpi.

 

Una dichiarazione d'indipendenza va fisicamente collocata da qualche parte. Un punto di riferimento spaziale, una meta di pellegrinaggio, un simbolo. Per la prima affermazione internazionale di una grande squadra italiana, quel simbolo è senz'altro il Filadelfia.

 



Phil Alden Robinson è uno sceneggiatore e un regista. Alle spalle una carriera hollywoodiana sonnecchiante, con il solo sussulto delle 3 nomination Oscar per

. Chiunque abbia visto quel film ricorda che a un certo punto Kevin Costner si mette a costruire un campo da baseball nel giardino della sua casa di campagna. Un campo vero, con la terra battuta, l'erba, il monte di lancio, una piccola tribuna. Persino i riflettori per le partite in notturna. E quando il campo è pronto, lì in mezzo al nulla delle sconfinate distese dell'Iowa, succede l'inimmaginabile. Dal granoturco alto ai bordi del campo, escono dei giocatori. Sono in tutti in divisa e sono anche tutti già scomparsi da un pezzo. 70 anni prima giocavano nei White Sox. Arrivano chissà come, da chissà dove, con le loro divise bianche rigate di blu. Sono come erano da giovani e sono tornati per giocare.

 

Non avevo mai più ripensato a

fino a quando non mi sono ritrovato sul marciapiede di via Giordano Bruno, in piedi sopra uno spartitraffico. Oltre la recinzione di lamiera, c'è il campo che una volta era circondato da 20.000 posti a sedere. Su questo lato si alzavano i popolari, su quello di fronte la tribuna coperta: sono rimasti i tre triangoli che la sostenevano. Da questo spartitraffico alle scale che dagli spogliatoi salivano sul campo, c'è la distanza di un lungo lancio orizzontale a cambiare il gioco. Anche qui ci sono dei giocatori di 70 anni fa che avrebbero una gran voglia di spuntare di nuovo fuori, di mettersi a palleggiare, di guardare Castigliano fare i suoi numeri con il pallone e le monetine sul tacco. Le distese di granoturco sono sostituite da un muro di lamiera, ma non fa molta differenza. Dal campo trasandato, alla fine dell'estate del 2015, la sensazione di essere separati dal resto del mondo, fuori dal tempo, dev'essere la stessa.

 



 

Sulla metà di via Giordano Bruno, si notano ancora i due pilastri dell'ingresso ai popolari. Per un attimo si vede Bolmida entrare da lì. Chi scambia qualche parola con lui, chi lo saluta, chi finge di conoscerlo per darsi delle arie. Era famoso. Negli anni è finito anche lui incastonato nella simbologia del Filadelfia. Si chiamava Oreste ed era un capostazione delle Ferrovie. Nessun fischietto: come tutti i capistazione di allora, soffiava in una cornetta. La sola enorme differenza tra Oreste Bolmida e gli altri colleghi degli anni '40, era che lui, il suo piccolo corno d'ordinanza, se lo portava anche allo stadio. In caso di necessità, con il Toro a giocar male, si metteva a suonare il richiamo all'ordine. Lo chiamano il trombettiere anche se non aveva una tromba. Non è questione di strumenti, è questione di fiato, e il suo doveva essere tosto, se dai popolari arrivava in campo tanto forte da far arrotolare le maniche a Mazzola e agli altri. Lui soffiava e loro correvano e battagliavano e segnavano più di prima.

 



Dopo via Tunisi, via Filadelfia e via Bruno, in via Giovanni Spano si ha la sensazione che si chiuda un cerchio—e pazienza se la geometria vorrebbe fosse un rettangolo. Ciò che era iniziato con il buongiorno di una Principessa, finisce poi con la buonanotte di un argentino.

 

Tra la primavera e l'estate del 1926, in mezzo alla campagna del nascituro Borgo Filadelfia, erano atterrate due tribune. Una più corta e coperta, una più lunga e scoperta. Le avevano sedute una di fronte all'altra, e in mezzo un campo da calcio. Il Filadelfia nasceva con quella strana forma da anfiteatro irrisolto. 15.000 posti nell'attesa di raggiungere la sua definitiva forma ottagonale e la capienza ultima di 30.000 spettatori—entro la fine di quel decennio.

 

Il 17 ottobre di quell'anno—un 17 ottobre come quello dell'inizio della rinascita—era stata programmata l'inaugurazione. Per vedere il nuovo stadio erano arrivati da tutta Torino e provincia. Per giocarci, addirittura dalla capitale. Il cerimoniale prevedeva l'amichevole contro la Virtus Roma.

 

Ma più del 4 a 0 finale in favore dei granata, l'importanza dell'evento la possono meglio fotografare altri dettagli. Uno è l'arrivo davanti all'ingresso dello stadio di una meravigliosa auto. La partita doveva ancora cominciare. Una lucidissima Fiat 519 nera, lunghissima.

dice qualcuno,

. Lo chauffeur scende, fa il giro dell'auto e apre la portiera posteriore. All'inaugurazione del Filadelfia erano arrivate anche la Principessa Maria Adelaide e la sua elegante coda di volpe bianca. Nell'ottobre del 1926 il calcio era già una cosa seria. O perlomeno tanto seria da meritare che Casa Savoia inviasse un proprio rappresentante.

 

37 anni dopo, la serietà della questione calcio in Italia non sollevava più alcun dubbio. In quell'intervallo, il Filadelfia ne aveva già viste di belle e di brutte. Sopra Torino erano cadute le bombe alleate della seconda guerra: e avevano aperto enormi buchi anche nelle tribune del Fila. Sopra Torino, a Superga, erano caduti anche gli invincibili: e avevano lasciato dei vuoti che nessuna ricostruzione aveva potuto sistemare. 37 anni di Filadelfia iniziati il giorno di Maria Adelaide, finivano tutti una calda sera del giugno 1963. In una seminifinale di ritorno di Coppa Mitropa.

 



 

La Mitropa era ancora la coppa dell'Europa Centrale, bisnipote di quella sorta di Champions voluta da Vienna a inizio secolo per eleggere il club campione dell'Impero austro-ungarico. Solo nelle sue ultime edizioni, negli anni Ottanta, la trasformarono nella coppa delle Serie B europee. Nel '63 tutti sapevano che dalla stagione successiva il Torino si sarebbe trasferito al Comunale.

 

Mercoledì 19 giugno, tutti sapevano anche che Torino - Vasas sarebbe stata l'ultima partita giocata al Filadelfia: l'andata in Ungheria era stata persa 5 a 1. Nel Toro di allora c'era anche Bearzot, ma dell'inutile gol vittoria se ne occupa un attaccante di Mar del Plata. Si chiama Marcos Locatelli, il

. Era arrivato tre anni prima dall'Independiente. Il suo 2 a 1 è il regalo d'addio prima di andare al Genoa e diventare una bandiera rossoblù. Anche senza portare il Torino alla finale della Coppa, quel mercoledì sera il

Locatelli scrive e chiude un pezzetto di storia granata. L'ultimo pallone a valere un boato del Filadelfia è il suo.

 



In greco "skandalos" vuol dire ostacolo. Qualcosa che è meglio evitare se non si vuole inciampare e finire faccia a terra. Lungo la sua vita, il Filadelfia ne ha trovati molti di scandali in cui inciampare.

 

I problemi—o gli inciampi, a questo punto—sono cominciati poco dopo Superga. Il presidente Novo aveva pensato di farlo abbattere. L'idea sarebbe stata tentare di rivendere il terreno rivalutato dalla sua posizione centralissima nel cuore della nuova zona residenziale che si era alzata tutta attorno. Gli invincibili se ne erano andati e la plusvalenza sembrava poter dare ossigeno alle casse e una qualche confusa speranza di ripartire in un momento in cui il futuro sembrava solo un grosso buco nero. Ma non lo fece. Forse perché il nuovo piano regolatore del comune definiva l'area “verde pubblico”. Forse per il terrore dei rimorsi.

 

Nei decenni successivi il calcestruzzo del Filadelfia ha cominciato a sfaldarsi imitando il progressivo disfacimento della struttura economica e societaria del club. Cambiavano i presidenti, si proponevano molte cordate. Ogni volta con una visione differente sulla questione del vecchio stadio. I pensionati e i ragazzini che a metà degli anni '70 scendevano dai condomini per andare a vedere allenarsi lo squadrone dello scudetto di Pulici e Graziani—e Sala e Radice e Zaccarelli—stavano in piedi, fuori dalla recinzione. Gli spalti erano già vuoti di tifosi e pieni di crepe. Inagibili.

 

Per sistemarlo mancava sempre qualcosa. I soldi, oppure l'accordo con il comune, oppure l'autorizzazione da piano regolatore. Certamente mancava la serietà. Si prometteva molto e non si risolveva nulla. E intanto il Fila cadeva sempre più a pezzi.

 

Gli ultimi a giocarci sono stati Vieri, Pancaro, Delli Carri e gli altri della fortissima Primavera dei due scudetti consecutivi del '91 e del '92. Ultimi giorni felici per il Filadelfia prima che la parola ristrutturazione passasse del tutto di moda. Ormai l'inagibilità era totale e i cedimenti strutturali molto frequenti; era diventato pericoloso anche scendere in campo.

 

Il 30 giugno del 1994 è la data dell'ultima corsa sul prato di qualcuno che indossasse una divisa e un paio di scarpini. Due anni di invasione di senzatetto hanno fatto apparire il totale abbattimento dello stadio una scelta obbligata, obbligata da anni di inconcludente ignavia. Due sessioni di intervento a suon di ruspe, una nel '96 e una nel '97, hanno risolto il problema. Dopo settantuno anni il Filadelfia era morto.

 



 



Dopo anni e anni passati a sentire centinaia di esperti ognuno con il suo parere, ognuno inconcludente, ora il Filadelfia sembra in buone mani. Se non altro sembrano tutti quanti convinti di quel che va fatto per continuare a far vivere al presente una cosa finora costretta al passato.

 

Il Grande Torino è una bellissima pagina della storia. Capire davvero quel posto serve per comprendere come in pochi anni il calcio in Italia sia passato dalle divise con berretti e camicie al potente fenomeno culturale e sociale che conosciamo.

 

I greci lo chiamavano

, i romani

, quelli del Medioevo

. Noi e i nostri nonni, creature del '900, il luogo in cui incontrare altre persone, avere il polso dell'opinione pubblica e lasciarci andare ai luoghi comuni lo potremmo chiamare anche

.

 

Gli stadi in Italia hanno iniziato a giocare il loro ruolo di aggregatori sociali negli anni '20. Il Filadelfia, inaugurato nel 1926, è uno dei pochi stadi che—suo malgrado—ha cristallizzato per decenni il suo aspetto e che può restituirci quello status di agorà tra le due guerre. Oltre a questo, è stato il primo stadio italiano ad assorbire su gradinate e muri le gesta gloriose della squadra che correva nel suo campo. Il primo a vestirsi di un alone di leggenda. Il primo a seminare rispettoso timore negli avversari.

 

Può sembrare strano, ma il Filadelfia ha qualcosa che va oltre lo status di stadio. Nelle risposte che Domenico Beccaria ha dato a tutte le mie domande di queste settimane—così come nelle chiacchiere fatte con il volontario davanti allo stadio—esce affetto. La gente del Toro non lo vede come un posto sacro. Lo vede come un posto proprio, famigliare, intimo. Quasi come se, in tutti questi anni prima della ricostruzione, fosse stato un parente anziano. Di quelli a cui si vuol bene, che si cerca di andare a trovare, ma che se poi non ci si riesce si sa che in qualche modo resiste. Ora che stanno per ricostruirlo, nelle parole di tutte quelle persone si sente un'emozione sincera. Sono orgogliosi di avercela fatta e di averci creduto. Anche se magari la gran parte di loro non ci ha mai visto dentro nemmeno una partita, o non l'ha mai visto tutto intero.

 

Se è vero che l'indifferenza, dopo decenni di regno incontrastato, sta per essere spodestata, presto su quel prato giocherà la Primavera del Torino. Qualche volta, per una sgambata o un'amichevole, arriverà anche la prima squadra.

 

Non sarà com'era, certo, ma almeno sarà. A scaldare i cuori resteranno due angoli delle vecchie gradinate. Li avevano costruiti per sorreggere la tribuna coperta; li lasceranno per dire che loro c'erano. Che loro ci sono sempre stati.

 

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