“Un calcio diverso è possibile”. La scritta in lingua tedesca campeggia a caratteri cubitali all’entrata degli uffici del St. Pauli, dietro la curva sud dello stadio Millerntor. A testimonianza del fatto che non è solo un auspicio per romantici, la sede amministrativa della società si trova accanto al celebre asilo nel quale vengono accuditi i bimbi anche durante le partite: durante la settimana ne ospita 150 come servizio per le famiglie della zona.
Ovunque giri lo sguardo, in questo piccolo quartiere nel centro di Amburgo noto per la via a luci rosse Reeperbahn, si vede un graffito, un’insegna, un indumento che richiamano il St. Pauli. La squadra, promossa in Bundesliga alla fine della scorsa stagione, è conosciuta “semplicemente" per sostenere gli ideali dell’antifascismo e della lotta al razzismo, i cui tifosi sventolano bandiere con i colori dell’arcobaleno o con il volto di Che Guevara. Per questo “i Pirati” hanno sostenitori (e anche hater) in tutto il mondo, compresa l’Italia. Ma se si viene sul posto, come ho fatto alla fine di ottobre, ci si accorge subito che il St. Pauli è molto più di questo. “St. Pauli is a state of mind”, si legge sul cappellino di Lupo, soprannome italiano di Wolf Schmidt, allenatore della squadra di calcio per non vedenti del club. È una delle persone che dà sostanza all’ambizione del St. Pauli di fare un “calcio diverso” e d’altra parte un po’ tutto in questa piccola area urbana che si affaccia sul fiume Elba, davanti all’immenso porto di Amburgo, sembra intriso di impegno sociale e ricerca del bene comune, coniugati in un’alchimia intrigante fatta anche di leggerezza e divertimento.
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