Siamo bombardati, praticamente in tempo reale, dalle statistiche. Non tanto da quelle relative alle partite, quanto da quelle che riportano alla mente eventi del passato. «Non succedeva da…», «l’ultima volta che…»: un flusso costante alimentato, come giusto che sia, da chi fa questo di mestiere: raccogliere dati, elaborarli, rievocare antiche nostalgie. Il calcio italiano che porta ai quarti di finale delle competizioni europee sei squadre come accaduto quest'anno (Milan, Napoli, Inter, Juventus, Roma e Fiorentina), invece del solito numero striminzito (un anno fa, di questi tempi, avevamo solamente l’Atalanta ai quarti di Europa League e la Roma destinata al trionfo in Conference League), è una notizia che ha richiesto un piccolo sforzo d’archivio per essere pareggiata.
Per ritrovare sei squadre italiane in Europa a questo punto della stagione, infatti, bisogna tornare indietro alla stagione 1998/99, anno di grazia per il calcio italiano: Parma e Lazio avrebbero vinto rispettivamente Coppa Uefa e Coppa delle Coppe, la Juventus avrebbe mancato di un soffio l’accesso alla sua quarta finale consecutiva di Champions League, un dato, quest’ultimo, a dir poco impressionante. La storia di quei quarti di finale comincia il 16 dicembre del 1998.
I sorteggi
Non è un giorno qualsiasi, questo 16 dicembre. La notizia clou è l’ordine, diramato da Bill Clinton, di attaccare Baghdad. Il presidente degli Stati Uniti parla di un attacco urgente, dovuto per tutelare «la sicurezza del mondo intero». Dal mese di ottobre, Saddam Hussein aveva sospeso ogni collaborazione con gli ispettori dell’Onu, chiedendo la fine dell’embargo e provocando, come reazione, la decisione statunitense di ammassare forze militari nel Golfo. Per Kofi Annan «è un giorno triste per il mondo». A Roma, invece, un edificio crolla in piena notte per motivi che hanno poco a che fare con un conflitto. Un palazzo di cinque piani collassa nel quartiere Portuense, provocando la morte di 27 dei 38 residenti, inclusi sei bambini: all’origine del disastro, errori progettuali, con un sottodimensionamento dei pilastri, e la scarsa qualità dei materiali utilizzati per la realizzazione dell’edificio.
Per chi è interessato alle notizie di colore, a Bologna si indaga sul caso dei panettoni avvelenati: Natale è dietro l’angolo e l’Animal Liberation Front decide di sabotare i prodotti di una nota multinazionale, accusata di usare ingredienti transgenici; Aldo, Giovanni e Giacomo presentano l’uscita di Così è la vita, nei cinema a partire dal weekend successivo, aprendo così il classico rush natalizio che vede il trio comico battagliare con La maschera di Zorro, Celebrity, Il mio West, un imperdibile Paparazzi e La gabbianella e il gatto. Intanto, sulla Stampa, esce un paginone dedicato a questa bestialità dell’Internet.
«È il borsello del 2000», dice Paolo Mieli, qualsiasi cosa voglia dire.
A Roma si gioca la sfida tra Italia e Resto del mondo, per festeggiare i cento anni della Figc, peraltro proprio nel giorno in cui Luciano Nizzola e Antonio Matarrese vengono indagati nell’ambito di una vicenda legata a dei presunti mancati controlli antidoping: negli edifici dell’Acquacetosa, qualche settimana prima, era stato scoperto un sottoscala nella zona caldaie che conteneva migliaia di risultati di test antidoping del passato. Gli azzurri vincono 6-2: Enrico Chiesa segna una tripletta entrando al nono della ripresa al posto di Totti, nel primo tempo erano arrivati i gol di Filippo Inzaghi, Di Francesco e Fuser. Siamo talmente carichi di portieri (si alternano Peruzzi e Buffon) da prestare Pagliuca al Resto del mondo, che si schiera poi con Ze Maria, Hierro, Nyathi, Rui Costa, Dunga, Zidane, Winter, Weah, Ronaldo e Batistuta. Non chiedeteci il modulo di questa roba, per pietà. Per trovare almeno una cosa che corrisponda alle fatiche dei giorni nostri, c’è la Sampdoria che si è appena infilata in uno strano imbuto: vuole portare in panchina David Platt, del quale ha annunciato l’ingaggio ma senza specificarne l’incarico. Non ha il patentino per allenare ed è chiamato a subentrare a Luciano Spalletti: ok, ci siamo di nuovo allontanati troppo dal 2023, torniamo ai sorteggi.
Abbiamo due squadre ai quarti di Champions League e la Juventus di Marcello Lippi pesca benissimo: c’è l’Olympiacos. Va decisamente peggio all’Inter, che ha da poco esonerato Gigi Simoni e trova il Manchester United. In Coppa delle Coppe c’è soltanto la Lazio, che dopo aver faticato non poco contro Losanna e Partizan Belgrado incrocia la formazione probabilmente più debole tra quelle rimaste, il Panionios, evitando le mine vaganti Chelsea e Mallorca. In Coppa Uefa ci sono solo italiane, francesi e spagnole: il Bologna di Carletto Mazzone se la deve vedere con il Lione, che in quei quarti di finale viene descritto come l’avversario più fiacco, il Parma con il Bordeaux, la Roma con l’Atletico Madrid, allenato da Arrigo Sacchi. Si giocherà a marzo, mandiamo avanti il nastro.
Coppa delle Coppe
Lazio-Panionios
Andata: Panionios-Lazio 0-4
Ritorno: Lazio-Panionios 3-0
Livello di pathos: 0/10
La Coppa delle Coppe è un gigante azzoppato. Dopo anni di nobiltà, accusa i segni del tempo e dell’apertura della Champions League, non più riservata ai soli campioni nazionali ma anche alle seconde classificate. Non a caso, la Uefa ha già deciso di mandarla in soffitta. Per la Lazio è la prima partecipazione: ci arriva dopo aver vinto la Coppa Italia l’anno precedente, il primo trofeo dell’era Cragnotti. Al momento del sorteggio, i biancocelesti erano una squadra ancora a caccia di una precisa identità, tormentata dai maxi-infortuni di Alessandro Nesta e Christian Vieri. Quando si torna in campo, all’inizio di marzo, è invece una corazzata che ha infilato nove vittorie consecutive in campionato e preso la vetta con personalità.
Il Panionios è un avversario che non preoccupa: l’unica nota di colore è la presenza in panchina di Ronnie Whelan, irlandese che ha legato il proprio nome all’epoca d’oro del Liverpool, che ha appena iniziato la sua avventura da allenatore e ha scelto la Grecia dopo un’esperienza maldestra al Southend come player-manager. Dopo neanche un quarto d’ora la Lazio è già avanti di due gol: corner velenoso di Mihajlovic e mischia furibonda in area risolta da Stankovic dopo 3’, quindi l’autogol di Gazis in tuffo di testa dopo uno slalom dirompente di Salas. Il turnover di Eriksson è ridotto all’essenziale: Lombardo dà respiro a Conceicao a destra, Fernando Couto si diletta da centrocampista centrale al posto di Almeyda. Chiudono i conti, nel secondo tempo, ancora Stankovic e Nedved. La partita di ritorno è un esercizio di stile di Eriksson, che fa riposare tutti i suoi attaccanti e si presenta con la coppia d’attacco Stankovic-De La Peña. Il piccolo Buddha, arrivato a Roma come uno dei pezzi pregiati del mercato, si era già rivelato un flop, vivendo proprio nel ritorno con il Panionios uno dei pochi momenti felici della sua avventura laziale, segnando il definitivo 3-0 dopo le reti di Nedved e Stankovic. Per il resto, in campo si vede di tutto: la presenza contemporanea di Lombardo (Attilio) e Lombardi (Stefano), quest’ultimo un terzino non ancora 23enne che avrebbe poi avuto una dignitosa carriera tra Serie A e Serie B, la conferma di Fernando Couto a centrocampo in coppia con Baronio, l’unico spezzone laziale di Federico Crovari.
Un’uscita disgraziata del padre di Strakosha, il colletto alla Cantona di Marco Ballotta, De La Peña che esulta felice come un bambino, la maglietta gialla con sponsor rosso che aveva creato scalpore in casa laziale: 4 minuti e 12 di grande calcio trash
Coppa Uefa
Bologna-Lione
Andata: Bologna-Lione 3-0
Ritorno: Lione-Bologna 2-0
Livello di pathos: 8/10
Il Bologna della stagione 1998/99 è una formazione di culto. Ha perso Roberto Baggio, andato all’Inter dopo un’annata di grazia, e ha messo la numero 10 sulle spalle di Beppe Signori, in cerca di riscatto al termine di una stagione tormentata dai problemi alla schiena. Carlo Mazzone ha preso il posto di Renzo Ulivieri e la squadra, soprattutto in Europa, vola, mentre in campionato fa più fatica. Tra i temi di attrazione troviamo il pizzetto da moschettiere di Michele Paramatti, il quasi trentacinquenne Giancarlo Marocchi che compone il tandem di centrocampo con Klas Ingesson; Jonathan Binotto e Carlo Nervo ad alternarsi sulla fascia destra; qualche sprazzo di un giovanissimo Eriberto, anche se la storia ci dirà che non è poi così giovane.
Dopo aver eliminato Sporting, Slavia Praga e il Betis di Denilson, pagato 63 miliardi di lire dagli andalusi dopo un lungo inseguimento della Lazio di Cragnotti, il 2 marzo 1999 il Bologna ospita il Lione al Dall’Ara. Si gioca di martedì alle 17.30 – in quegli anni il martedì era il giorno dedicato alla Coppa Uefa – e i tifosi rossoblù si godono un Signori pienamente performante, che a Bologna inizia a realizzare tutti quei gol europei che non aveva praticamente mai trovato ai tempi della Lazio, quando era un formidabile bomber di Serie A che in Europa doveva fronteggiare una sorta di maledizione.
Quando arriva il Lione, il Bologna è sotto shock: ha appena preso cinque gol a Piacenza, tre dei quali da Simone Inzaghi. Il Lione, invece, dopo settimane difficili è ripartito di slancio e preoccupa più di quanto facesse il giorno del sorteggio. È un Bologna incerottato, senza Maini ed Eriberto e con Nervo arruolabile solo per la panchina. Paramatti stringe i denti ed è titolare a destra, per il resto il 4-4-2 dei rossoblù sprizza calcio anni Novanta da tutti i pori: Binotto e Fontolan esterni di centrocampo, la pertica Kennet Andersson a fare il lavoro sporco anche per Signori. Beppe-gol si inventa il vantaggio andando ad arpionare al volo il cross da destra di Binotto: è come se cambiasse idea mentre si sta coordinando. Mi sembra che parta per calciare forte sul primo palo, poi vede il posizionamento di Coupet e sceglie di andare di precisione sull’angolo più lontano. Il secondo, invece, è un gol così tanto «da Signori» che me lo farebbe riconoscere all’istante anche se fosse sceso in campo indossando un sacco di iuta. Binotto segna il terzo gol e il Bologna si sente già in semifinale, ma non ha fatto i conti con la tenacia del Lione.
In Francia, dopo 39 minuti, i padroni di casa sono avanti 2-0. Lacombe vara un Lione iperoffensivo, con Cocard e Malbranque a sostegno del duo Caveglia-Job, entrambi a segno. Mangone si fa male e nel secondo tempo servono le parate di Antonioli per tenere il Bologna a galla: i rossoblù non raggiungevano una semifinale europea dalla stagione 1967/68, nell’allora Coppa delle Fiere. «Siamo duri a morire», dichiara uno stravolto Mazzone a fine partita. La semifinale, con l’Olympique Marsiglia, rappresenterà una delle sfide più tirate e discusse della storia del torneo.
Parma-Bordeaux
Andata: Bordeaux-Parma 2-1
Ritorno: Parma-Bordeaux 6-0
Livello di pathos: 4/10
Juan Sebastian Veron ce la fa. Alberto Malesani incassa la bella notizia alla vigilia della partenza per la Francia. Il suo Parma è scintillante, è forse la squadra più forte tra quelle allestite nel corso dell’era di Calisto Tanzi, un’epopea della quale, nel marzo del 1999, ancora non si conoscono i lati oscuri. Dall’altra parte, però, c’è una formazione solida. La Ligue 1 vive quella lunga fase in cui non ha alcun padrone: il ciclo dell’Olympique Marsiglia di Bernard Tapie si è schiantato nel peggiore dei modi con lo scandalo OM-VA del 1993, da quel momento hanno vinto tutti. Il PSG di Valdo, Weah e Ginola nel 1994, il Nantes di Pedros, Loko, Karembeu, Ouedec e un giovanissimo Makelele l’anno successivo, quindi l’Auxerre, giunto all’apice della lunghissima epoca segnata da Guy Roux, con i vari Lamouchi, Diomede, Guivarc’h e Laslandes; e poi ancora il Monaco, con la leggendaria coppia gol Ikpeba-Sonny Anderson, con Barthez in porta, Petit e Benarbia a centrocampo e la prima grande stagione di Thierry Henry; infine, l’acuto del Lens, campione di Francia nel 1998 per differenza reti sul Metz, con Ziani, Vairelles e Smicer al servizio di Drobnjak.
In attesa dell’arrivo del super Lione degli anni 2000, c’è ancora spazio per qualche incursione. Il Bordeaux sembra la squadra meglio attrezzata: ha una coppia gol letale con il già citato Laslandes e Sylvain Wiltord, ispirati alle spalle da un trequartista che rispecchia pienamente i canoni estetici del calcio francese. Johan Micoud è alto, magro, elegante. Non è velocissimo, ma è perfetto per ricoprire il ruolo di play avanzato. Ha un solo problema: Zinedine Zidane, che gli toglie, e non potrebbe essere altrimenti, ogni speranza di fare strada in Nazionale. Ne ha seguito le orme a lungo: il Cannes lo ha prelevato nel 1992, dopo aver ceduto Zizou, e il Bordeaux ha fatto lo stesso nel 1996 dopo aver contato i miliardi incassati dalla Juventus. Contro il Parma si presenta con un «paglia e fieno» in testa che grida vendetta.
Ma il Parma sembra di un altro pianeta. Può presentarsi in Francia con la coppia-gol Chiesa-Crespo: il centrocampo è un po’ in emergenza, ma con il ritorno di Veron potrebbero comunque agire Baggio e Fuser in mezzo, con Benarrivo e Vanoli sulle corsie. In difesa, con Thuram e Cannavaro a protezione di Buffon, il favorito è Sensini. Ma Alberto Malesani sceglie di varare un maxi turnover. Affida la fascia destra a Stanic, e fin qui ci siamo: tiene però fuori Baggio, scegliendo Longo, e soprattutto vara la coppia Balbo-Asprilla. Se fossimo nel 1993, sarebbe un duo esplosivo: ma l’argentino va per i 33 anni e il colombiano, fino a quel momento, ha giocato pochissimo.
Micoud e Wiltord portano avanti il Bordeaux con due schiaffoni in chiusura di primo tempo e a quel punto Malesani deve correre ai ripari, inserendo Chiesa e Crespo, ringraziando Buffon per due parate miracolose. Il Parma resta pure in dieci per l’espulsione di Benarrivo, poi però, come d’incanto, si manifesta quello che potremmo definire un momento Crespo. Fuser lancia un pallone sulla destra e all’inizio non si capisce nemmeno per quale motivo l’abbia fatto, poi però scorgiamo la figura di Chiesa e allora tutto sembra più chiaro. La carriera di Chiesa è un inno al sacrificio: era dotato di una secchezza e una facilità di calcio che gli avrebbero consentito tranquillamente di diventare un attaccante da 25 gol a stagione, eppure si è quasi sempre messo al servizio degli altri. Alza la testa e mette in mezzo un cross rasoterra perché ha visto il taglio di Crespo sul primo palo, nei pressi del vertice dell’area piccola. Per l’argentino, quel tipo di cross, è un invito a eseguire uno dei gesti tipici del suo bagaglio tecnico: il braccio destro che si alza per equilibrare il saltello, quindi lo schiaffetto alla palla con il tacco. Se esiste un gol alla Crespo, è questo. Il 2-1, per quello che è stato l’andamento del match, è un affare.
Al ritorno, non c’è storia. Il Parma si presenta con il suo abito migliore, torna anche Alain Boghossian a dirigere le operazioni nel cuore del centrocampo. Il Bordeaux è frastornato dal talento dei ducali, che con due doppiette di Chiesa e Crespo e la rete di Sensini seppelliscono i francesi. Sono così frastornati che all’88esimo succede qualcosa di totalmente insensato: c’è un pallone che si impenna in area di rigore, forse Saveljic sente un fischio che arriva dagli spalti e blocca la sfera con entrambe le mani. L’arbitro, stralunato, non può fare altro che assegnare il rigore del 6-0, trasformato da Balbo.
Il video è settato per farvi vedere direttamente il fallo di mano, ma insomma, potete anche vederlo tutto se volete.
Roma-Atletico Madrid
Andata: Atletico Madrid-Roma 2-1
Ritorno: Roma-Atletico Madrid 1-2
Livello di pathos: 7/10
Se volete veramente far arrabbiare un tifoso romanista nato orientativamente prima del 1985, vi basterà sussurrargli all’orecchio tre parole: van der Ende. Ma prima di arrivare all’arbitro olandese, dobbiamo assimilare alcune informazioni. La prima è che Arrigo Sacchi non è più l’allenatore dell’Atletico Madrid. Il tecnico italiano, che aveva fatto includere nel contratto con la famiglia Gil una penale di 10 miliardi di lire in caso di esonero, alla fine accetta la rescissione consensuale. Dopo la sconfitta patita in casa con l’Espanyol, i tifosi lo hanno aspettato all’uscita del Vicente Calderon per invitarlo ad andarsene. L’Atletico è a distanza siderale dal Barcellona capolista, settimo in classifica, il suo presidente Jesus Gil y Gil, che a tempo perso è anche sindaco di Marbella, è libero su cauzione dopo aver intascato cinque miliardi provenienti dalla società che sponsorizzava l’Atletico Madrid: la scritta MARBELLA sulla maglia dei colchoneros dovrebbe farvi capire in fretta da dove arrivavano quei soldi. Sacchi non si limita ad andarsene, ma nella pancia del Calderon annuncia che intende ritirarsi dal calcio. «Oggi lascio il calcio per sempre, non farò più l’allenatore», dice ai giornalisti, che aveva accolto chiedendo di non essere fotografato in maniera troppo insistente: «Non sono mica Claudia Schiffer». Due anni più tardi farà marcia indietro accettando la chiamata del Parma: durerà meno di un mese, rendendo definitivo il ritiro. Jesus Gil y Gil lo attacca in maniera manifesta, ammiccando peraltro a Zeman, tecnico giallorosso: «Il dopo Sacchi sarà una ricostruzione, siamo circondati dalle macerie. Gli si è rotto l’orologio, non ha capito che il suo sistema non funziona più. Ha avuto il suo momento grazie a giocatori irripetibili, qui ha fracassato la squadra. Zeman? La Roma ha un gioco impressionante».
L’Atletico è una piccola colonia di italiani o stranieri già passati nel nostro Paese: da Chamot a Jugovic, passando per Michele Serena, Torrisi e Venturin. La classe di Juninho Paulista e Valeron ha il compito di innescare Jose Mari. Dall’altra parte, la Roma di Zeman, perennemente protesa verso la porta avversaria. Il tridente Paulo Sergio-Delvecchio-Totti è ispirato dalla mediana Tommasi-Di Biagio-Di Francesco. Sono settimane in cui la curva romanista ha preso di mira Delvecchio, fischiato praticamente ogni volta che tocca il pallone. A Madrid non va tanto diversamente. L’Atletico si porta sul 2-0 con i gol di Jose Mari e Roberto, a tenere a galla la Roma è una punizione supersonica di Di Biagio, con Delvecchio già in panchina, travolto dai fischi, per fare spazio al maxi-investimento invernale di Franco Sensi: 31 miliardi e mezzo per portare in Italia, dal Cruzeiro, il nuovo Fenomeno, Fabio Junior. Il riferimento è ovviamente a Ronaldo, per provenienza, nazionalità e acconciatura, anche se al Cruzeiro era stato ribattezzato uragano azzurro. L’ingresso di Fabio Junior, almeno, porta bene a livello scaramantico: il gol di Di Biagio arriva una manciata di minuti dopo il suo ingresso.
Il 16 marzo c’è la gara di ritorno e Delvecchio sembra aver fatto pace con il pubblico: in mezzo, infatti, ha segnato due gol contro il Bologna, esultando polemicamente verso la Sud, mostrando le orecchie. È la sua esultanza tipica, ma in quel momento è un messaggio esplicito. Il centravanti è convinto di aver guadagnato il rigore del possibile 1-0 dopo due minuti di gioco: il contatto con Santi sembra dargli ragione, ma Mario van der Ende, un arbitro che si ritrova costantemente lontanissimo dalle azioni anche per uno stato di forma che definire approssimativo è riduttivo, lascia correre. È il primo atto di una guerra che dura 90 minuti. Zeman, imperturbabile, fuma in panchina: siamo nel 1999 e si può ancora fare. Delvecchio scheggia un palo di testa, la partita cambia drasticamente quando viene espulso Wome, titolare per l’assenza di un principe della fascia sinistra come Vincent Candela, con oltre un’ora da giocare: qualche istante prima, Totti aveva chiesto invano un rigore.
Ma la Roma gioca benissimo, Delvecchio raccoglie un filtrante di Totti e infila Molina con un diagonale vincente sotto la Nord. Totti deve ancora compiere 23 anni ed è già capitano della Roma, Zeman lo ha collocato esterno sinistro del suo tridente ma con l’espulsione di Wome cambia tutto: il boemo forza il rientro di Candela, che era stato portato in panchina quasi solo per onor di firma, inserendolo al posto di Paulo Sergio. A quel punto, Totti è libero di svariare ovunque. Ha i capelli corti, il ciuffo tenuto in piedi da un quintale di gel, il colletto tirato su. L’1-0 qualificherebbe la Roma, ma le squadre di Zeman non sono portate a gestire: durante la sua esperienza laziale, riuscì a farsi eliminare dalla Coppa Uefa dal Tenerife, perdendo 5-3 nelle Canarie partendo dall’1-0 dell’Olimpico e trovandosi, in terra spagnola, prima avanti 0-1, quindi in parità sul 2-2 e sul 3-3. Nella ripresa Delvecchio sfiora il bis, negato da un miracolo di Molina, quindi Aguilera inventa il gol dell’1-1. La Roma si riversa ancora in avanti, Delvecchio chiede un altro rigore per una sbracciata di Chamot e in cambio ottiene un giallo per proteste. Poi segna, di testa, un gol bellissimo, che van der Ende cancella per un suo presunto fallo in attacco. Zeman non fa un plissé mentre l’arbitro spedisce negli spogliatoi il medico sociale romanista, Ernesto Alicicco.
A questo punto la partita diventa una corrida. Totti, già ammonito, rischia il rosso per un’entrata folle su Jugovic. E si arriva all’occasione, gigantesca, sprecata da Fabio Junior su invito di Cafu: il brasiliano liscia un pallone che andava solamente sospinto in rete. Come se non bastasse, se ne divora anche un’altra, nella stessa, identica e perversa modalità. Chimenti, dopo un paio di interventi salva-risultato, si fa bucare da una conclusione centrale di Roberto. Totti trova l’agognata espulsione soltanto nei minuti di recupero. Nel tunnel, secondo le cronache, van der Ende scappa via mentre qualcuno gli lancia degli scarpini. Intanto scatterebbe una rissa tra Vincenzo Pincolini, preparatore dell’Atletico lasciato in dote da Sacchi, e Gigi Di Biagio. Un mischione nel quale si getterebbero Petruzzi, Jugovic e Baraja.
Un’ampia sintesi della gazzarra dell’Olimpico: mancano, purtroppo, le immagini del tunnel.
Champions League
Juventus-Olympiacos
Andata: Juventus-Olympiacos 2-1
Ritorno: Olympiacos-Juventus 1-1
Livello di pathos: 9/10
Un abbinamento facile, l’Olympiacos teorico vaso di coccio tra le migliori otto d’Europa contro la Juventus tre volte di fila finalista. Ma a ridosso della fine della fase a gironi, la Juve aveva dovuto fare i conti con il ginocchio sinistro di Alessandro Del Piero, esploso nei minuti di recupero di una trasferta in casa dell’Udinese: lesione del legamento crociato anteriore e posteriore, una tragedia sportiva. Sul campo del Friuli, oltre alla sua stella, la Juventus aveva perso anche il primato, colpita al cuore una manciata di secondi dopo l’infortunio, e quindi a un passo dagli spogliatoi, da una zampata mancina del Pampa Roberto Sosa per il definitivo 2-2. I bianconeri si erano sfaldati di colpo: sei partite senza vincere, 511 minuti senza segnare. Il girone era stato superato all’ultimo respiro, con un arrivo a tre squadre a pari punti deciso dalla classifica avulsa.
Il mercato di riparazione era stato infiammato dagli arrivi di Esnaider e Thierry Henry, ma il 7 febbraio Marcello Lippi, dopo la sconfitta interna con il Parma, aveva preferito rassegnare le dimissioni: «Se il problema è Lippi, come molti dicono da quando ho annunciato che a fine campionato me ne sarei andato, allora Lippi si dimette: arrivederci», aveva detto usando il tono passivo-aggressivo tipico degli allenatori che usano la terza persona per aumentare il distacco dall’interlocutore. La dirigenza aveva dunque dovuto scegliere come impostare il resto della stagione: anticipare l’arrivo di Carlo Ancelotti, già bloccato per il campionato 1999/00, o affidarsi a un traghettatore di prestigio come Vujadin Boskov? Moggi, Giraudo e Bettega non avevano avuto dubbi: squadra ad Ancelotti da subito, accolto dai tifosi bianconeri con il celeberrimo «Un maiale non può allenare» mostrato sugli spalti del Garilli di Piacenza, luogo del debutto da allenatore juventino.
A rileggere una delle primissime interviste rilasciate da Ancelotti come tecnico della Juventus, quasi non sembra la persona che abbiamo imparato a conoscere negli anni successivi. Di seguito, alcuni dei virgolettati: «Mi piace il calcio agonistico. L’Ancelotti allenatore sa che si vince attraverso la difesa. […] Non sono andato in Turchia perché non amo l’avventura, penso che non andrò mai a lavorare all’estero. Meglio guadagnare meno e restare qui, con la possibilità di tornare a casa se ne ho voglia. […] La prestanza fisica dei giocatori è fondamentale. Non dico che bisogna essere grossi, ma molto più potenti, reattivi e capaci di sforzi superiori».
Come detto, il sorteggio viene accolto con favore dall’opinione pubblica, anche perché dai gironi si salta subito ai quarti di finale e nell’urna erano rimaste quasi esclusivamente corazzate. L’andata si gioca a Torino. Il vantaggio è un gioiello di Inzaghi, che calcia al volo di sinistro un cross poco ispirato di Davids. Antonio Conte cala il bis, raccogliendo un tocco geniale di Zidane e battendo Eleftheropoulos sul suo palo. La Juve si sente già in semifinale e presta il fianco alla reazione dei greci, a segno con Niniadis su calcio di rigore a recupero abbondantemente scaduto.
Il 2-1 non lascia affatto tranquilli in vista della trasferta al Pireo. Lo scudetto è un’utopia e alla Juve non rimane che l’Europa per darsi una ragione di vita. I bianconeri arrivano ad Atene in emergenza, con Di Livio confermato terzino sinistro, il centrocampo a rombo per assecondare il genio di Zidane, Rampulla tra i pali visto il forfait di Peruzzi. L’avvio è da incubo, Gogic prende a pallonate la porta bianconera e trova il gol al terzo tentativo, dopo 12 minuti. L’Olympiacos, finisse così, sarebbe in semifinale. La partita torna equilibrata con una Juve che pian piano entra nel match, anche se Esnaider, in coppia con Inzaghi, non vede un pallone. Nella ripresa Rampulla salva i suoi su colpo di testa di Amanatidis, poi l’illuminazione di Zidane, che a 5’ dalla fine trova la discesa del neo-entrato Birindelli. Sul cross dell’esterno Eleftheropoulos esce malissimo, il pallone galleggia in area e capitan Conte, ancora lui, lo sbatte in porta, intimando al pubblico del Pireo di tacere. «Ci chiediamo quale mano benedetta stia sulla testa dei bianconeri in questa competizione, con sei pareggi in otto partite: la Juve non entra in carrozza tra le quattro più forti d’Europa, ma anche se quest’anno ci è arrivata col carretto l’importante è esserci», scrive Marco Ansaldo sulla Stampa.
Gli highlights della sfida di ritorno, compresa l’esultanza assatanata di Conte.
Inter-Manchester United
Andata: Manchester United-Inter 2-0
Ritorno: Inter-Manchester United 1-1
Livello di pathos: 7/10
L’Inter dei primi mesi del 1999 è un cantiere aperto, i cui ritardi nei lavori sono dovuti in parte a una delle più grandi gioie dell’era Moratti. La vittoria della Coppa Uefa, nel maggio del 1998, ha infatti convinto il presidente a confermare sulla panchina nerazzurra Gigi Simoni: prima della finale, contro la Lazio, circola insistentemente il nome di Alberto Zaccheroni, che avrebbe anche avuto un incontro con il patron. Nel discorso prepartita, Simoni avvisa i giocatori: «Il presidente ha scelto di prendere un altro allenatore, giocate per me». L’Inter non solo vince, ma stravince e Moratti sceglie di tenere Simoni per la stagione 1998/99. Ma è come uno di quei matrimoni che si prolungano oltre la data di scadenza, magari perché di mezzo c’è un figlio. La rottura arriva all’improvviso alla fine di novembre, dopo che l’Inter ha appena vinto due partite, non convincendo più di tanto, contro Real Madrid e Salernitana. Simoni sta ritirando la panchina d’oro a Coverciano per la stagione precedente, poi sale in macchina per tornare da Firenze e riceve la notizia al telefono da Sandro Mazzola. Durante il discorso per il premio, il tecnico parla di un riconoscimento alla pazienza. Ci torna subito, su quel termine, parlando con i giornalisti a poche ore dall’esonero: «La pazienza di cui ho parlato era quella necessaria a sopportare quello che ho sopportato negli ultimi mesi. Sono stato maciullato da tutti».
Al suo posto arriva Mircea Lucescu, che in Italia aveva guidato con alterne fortune Brescia e Reggiana, reduce da una coppa di Romania vinta alla guida del Rapid Bucarest. Ed è lui, sulla panchina nerazzurra, a ottenere la vittoria che blinda il passaggio ai quarti: 0-2 a Graz, lo Sturm si arrende a Zanetti e Baggio. L’Inter di Lucescu alterna risultati larghissimi (4-1 alla Roma, 6-2 al Venezia, 5-1 a Cagliari ed Empoli) a rovesci pesanti e inaspettati: 2-1 a Perugia, 1-0 a Bari. Si arriva alla sfida di Manchester in un clima strano: difficile aspettarsi il passaggio del turno contro una squadra che sembra una corazzata. Ma i nerazzurri sono così indietro in campionato da riporre tutte le speranze sull’Europa (vi ricorda qualcosa?) e la vigilia viene montata da un’aspettativa quasi illogica. Un po’ di dichiarazioni preparatorie. Baggio: «Spero che in Inghilterra ci sia la svolta della stagione». Pagliuca: «Puntiamo sulla Coppa dei Campioni». Lucescu: «Andiamo lì per giocarcela».
I nerazzurri, inoltre, sono senza Ronaldo, che sta cercando di recuperare la migliore condizione, vittima di problemi continui ancora ben lontani dalla drammatica deflagrazione che ci sarà nell’anno successivo. E non si può trascurare il fattore mentale: «Voglio tornare quando sarò perfetto. Ero talmente depresso e spaventato che mi ero messo a mangiare tutto quello che mi capitava a tiro. Poi mi sono sottoposto a numerosi controlli e consulti, sono stato rassicurato. Ora sono tranquillo e sereno». Il riferimento non è soltanto ai problemi fisici dell’ultimo periodo ma guarda anche a quanto accaduto alla vigilia della finale del Mondiale 1998 con la Francia, il momento più oscuro della vita del brasiliano.
Lucescu sceglie una sorta di 3-4-1-2 con Winter largo a sinistra e Djorkaeff a ridosso di Baggio e del recuperato Zamorano. Dall’altra parte, il granitico 4-4-2 di Ferguson, con Beckham e Giggs esterni e il duo Yorke-Cole in mezzo. Il vantaggio arriva nella maniera più prevedibile: cross di Beckham da destra per la torsione in tuffo di Yorke. Beckham è in una di quelle serate in cui sembra una macchina spara-palloni: i cross che gli escono dal destro finiscono sempre sulla testa di qualcuno vestito di rosso in area di rigore. Il copione si ripete più volte fino al raddoppio: ancora Beckham a pennellare per la capocciata di Yorke, stavolta comodissima. All’inizio del secondo tempo, l’Inter ha l’occasione per riaprire il discorso qualificazione. Su un cross da sinistra, Zamorano si allunga in tuffo di testa, impattando all’altezza dell’area piccola. Schmeichel, però, ha un riflesso quasi inumano.
Il ricordo che abbiamo di Schmeichel è quello di un portiere enorme, capace di occupare buona parte della porta solo allargando le braccia. La sua stazza era certamente imponente per gli standard degli anni Novanta (gli almanacchi lo accreditano di 193 centimetri per 96 chili) ma in questa occasione sembra più un portiere di hockey che di calcio. Vista in prima battuta, la sua parata sembra soltanto bella, non straordinaria. Sono i replay a esaltarla: Schmeichel allarga il braccio in salto e la cosa impressionante è che riesce a respingere il colpo di testa di Zamorano con uno sforzo mostruoso del braccio sinistro, utilizzato come una clava. Nel finale salva ancora, stavolta in maniera più ordinaria, su Ventola.
Il 2-0 sa di condanna ma Lucescu si prospetta ottimista: «Non siamo ancora morti, a San Siro con Ronaldo possiamo fare il miracolo». E poi, come se non bastasse, va allo scontro in pubblica piazza con i suoi attaccanti: «Il tridente? Mi aspettavo di più. Ventola deve smetterla di cadere prima di tirare. Baggio è stanco, deve riposare». E se la prende anche con l’arbitro, che ha annullato un gol di Simeone. L’Inter non segna più: in cinque partite, ha trovato la rete soltanto su rigore nella perdente trasferta di Perugia. Prima del ritorno c’è il derby, i nerazzurri lo pareggiano 2-2, Paulo Sousa provoca apertamente Lucescu: «Giocando così con il Manchester, non abbiamo chance di passare il turno». Il tecnico lo esclude e sbotta: «Qui si credono tutti Ronaldo». Il brasiliano è in campo nella sfida di ritorno, chiede invano un rigore, ma dopo un’ora non ne ha più. Entra Ventola, che in tre minuti trova subito la rete dell’1-0. Ventola era arrivato all’Inter ventenne, dopo aver bruciato le tappe a Bari, trovando l’esordio in Serie A a 16 anni. Era ritenuto uno degli attaccanti più promettenti del nostro calcio, califfo delle Nazionali giovanili, ma la sua carriera fu poi frenata in maniera decisiva dagli infortuni. L’Inter spaventa Schmeichel soltanto con conclusioni da lontano e alla fine arriva la zampata di Paul Scholes, che gela i quasi ottantamila di San Siro e regala la semifinale al Manchester United. I Red Devils troveranno la Juventus e la elimineranno in maniera bruciante, imprimendo alla gestione Ancelotti un primo passo falso sanguinoso.