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Riccardo Rimondi
Sprinter vecchia scuola
12 ago 2015
12 ago 2015
Ritratto di Kim Collins, re degli outsider dell'atletica moderna.
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Riccardo Rimondi
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Ai Mondiali di Pechino i 100 metri si disputeranno il 22 e il 23 agosto e tutti gli occhi saranno puntati sulla resa dei conti fra Usain Bolt e Justin Gatlin. Alcuni faranno il tifo per l’eterno perdente Asafa Powell, oppure per Tyson Gay, o per Travis Bromell e Jimmy Vicaut. Gli sprinter da podio sono questi, ce n’è per tutti i gusti. Ma anche chi sogna uno capace di ribaltare i pronostici può festeggiare, perché il re degli outsider è tornato: Kim Collins sarà a Pechino. A 39 anni, cercherà di estrarre l’ennesimo coniglio dal cilindro.

 

Kim Collins è uno sprinter che pochi conoscono, nonostante sia stato campione del mondo. Viene da Saint Kitts e Nevis, due scogli invisibili in mezzo ai Caraibi indipendenti dal 1983. Fino a 15 anni fa il suo Paese era conosciuto solo come paradiso fiscale con uno yacht registrato ogni 50 abitanti: 1.000 le imbarcazioni di lusso, 50.000 le anime. Poi, a inizio secolo, è arrivato Kim Collins. In dieci anni ha vinto cinque medaglie mondiali all’aperto, due iridate indoor e un oro ai Giochi del Commonwealth. Kim è uno sprinter proporzionato al suo Paese e quindi minuscolo: con i suoi 64 chili, distribuiti lungo un metro e settantacinque di ossa, nervi e pochi muscoli, ha fatto la guerra ad almeno tre generazioni di sprinter e, a quanto pare, non ha ancora finito. Vittoria dopo vittoria, è diventato un eroe nazionale e si è guadagnato l’intitolazione di una strada, di uno stadio e di una festa nazionale, oltre a un passaporto diplomatico per muoversi più facilmente da una gara all’altra.

 

Tutto questo non gli aveva risparmiato un’uscita di scena ignominiosa, tre anni fa. A Londra 2012 avrebbe dovuto correre la sua quinta Olimpiade di seguito, eguagliando il record di Pietro Mennea. Ma il giorno dell’esordio la federazione gli ha ritirato l’accredito. Aveva dormito una notte in albergo con la moglie, abbandonando il villaggio olimpico contro le direttive federali. A 36 anni Collins si sarebbe potuto aspettare tutto ma non un’espulsione disciplinare, e se n’è andato sbattendo la porta: «Persino i detenuti ricevono visite dalla moglie. Non correrò mai più per il mio Paese». Addio Londra, per lui che aveva conosciuto i cinque cerchi quando in pedana saltava ancora Carl Lewis. Da quell’episodio sono passati tre anni e un Mondiale che Collins ha visto in tv. Quest’anno, un disgelo durato mesi ha portato alla convocazione per Pechino. Kim Collins è ventitreesimo nelle liste mondiali stagionali, con 9’’98. Dovrebbe avere il diciassettesimo tempo di iscrizione tra i partecipanti ai 100 di Pechino. Arrivare in semifinale non sarà scontato, la finale è un sogno, la medaglia un miraggio. In teoria. Lui intanto ci prova e ci proverà anche l’anno prossimo, quando compirà quarant’anni nel corso della preparazione per le Olimpiadi di Rio 2016, vent’anni dopo Atlanta.

 



Nessuno, tra quelli che erano ad Atlanta, avrebbe mai detto che Collins, uscito nei 100 metri ai quarti di finale, avrebbe fatto qualcosa di memorabile nella storia dell’atletica. Non era forte, né in assoluto né per la sua età. Il mondo è pieno di gente che a vent’anni fa meglio del 10’’27 con cui riuscì a superare a fatica il primo turno. Nessuno lo notò, era solo una delle tante comparse che Olimpia offre come contorno ai suoi piatti pregiati. E la prova furono i Mondiali di Atene 1997 e di Siviglia 1999, dove uscì al primo turno.

 

Le cose cominciano a cambiare alle Olimpiadi di Sydney 2000. Collins arriva in Australia con un nuovo primato personale: 10’’13, trentaseiesimo nelle liste mondiali di quell’anno. Fortunatamente non tutti i 35 che lo precedono sono lì, così è facile approdare ai quarti come ad Atlanta 1996. Ma qui accade l’imprevisto: Kim non si ferma più. Supera il turno ed è in semifinale, dove riesce a strappare l’ultima corsia disponibile per la finale. Alla partenza, in mezzo ad avversari grossi il triplo di lui, sembra un turista. Presi dalla loro guerra psicologica, gli atleti degli anni Novanta si scambiano sguardi truci, insulti, intimidazioni. Il più forte, Maurice Greene, cammina avanti e indietro come un leone nella gabbia. Intanto il piccolo Kim se la ride davanti alle telecamere e saluta amichevolmente il pubblico. L’impresa è già fatta, l’arrivo al settimo posto è solo questione di dettagli. Il viaggio di Kim Collins, mina impazzita tra i mostri sacri dell’atletica, è iniziato.

 


La finale dei 100 metri uomini a Sydney 2000.




 



Nel 2001 ci sono i Mondiali di Edmonton. Il primo atto dell’avventura canadese è la conquista di una nuova finale dei 100, molto meno sofferta rispetto all’anno prima. Arriva sesto, futuro quinto per la squalifica postuma dell’americano Tim Montgomery. Nessuno si stupisce: nelle liste 2001 è settimo con il nuovo personale di 10’’04, la finale era assolutamente pronosticabile. Ma ci sono ancora i 200. Collins passa agilmente il primo turno e si supera nel secondo, portando il primato nazionale a 20’’25. In semifinale ottiene l’ultimo posto disponibile della sua serie, il quarto, con 20’’26. Alla gara decisiva è in prima corsia, quella con la curva più stretta. Una corsia poco amata da duecentisti e quattrocentisti. L’unica cosa bella di correre all’interno è che col decalage nessuno ti vede in curva. E quando ti vedono è troppo tardi per rimediare. Collins fa una curva meravigliosa ed esce leggermente in testa sul rettilineo. Viene ripreso e superato dal greco Kostantinos Kenteris, campione olimpico e mondiale che va a vincere (e tre anni dopo diventerà protagonista di un caso-doping clamoroso alla vigilia delle Olimpiadi di Atene). Alle spalle di Kenteris ci ci sono tre atleti con 20’’20. L’argento va al giamaicano Christopher Williams, mentre Kim Collins e l’americano Shawn Crawford vincono il bronzo ex-aequo. Si tratta della prima medaglia di Saint Kitts e Nevis nella storia dei Mondiali di atletica. È solo l’antipasto.

 


La finale dei 200 metri uomini ai Mondiali di Edmonton nel 2001.


 


 

Nel 2002 ci sono i Giochi del Commonwealth, una specie di Olimpiade aperta solo alla Gan Bretagna e alle sue ex colonie. I favoriti sono il britannico Dwain Chambers, futuro autore di un libro in cui narrerà come è riuscito, in una vita sola, a trangugiare più di trecento sostanze illecite, e il suo connazionale Mark Lewis Francis. Ma a precedere tutti è Kim Collins, con il suo nuovo primato personale di 9’’98. Un tempo che riuscirà a fare altre due volte nel 2002. È la consacrazione, soprattutto in patria. Un ragazzo, partito da uno degli angoli più remoti dell’Impero, vi torna con una medaglia al collo dopo aver sconfitto gli sprinter di Sua Maestà. Quanto basta per intitolargli una strada, la Kim Collins Highway, e assegnargli un autista che lo porta a casa tutte le volte che si presenta all’aeroporto di ritorno dalle sue imprese. Non male, per uno che aveva cominciato a correre – ammetterà candidamente anni dopo al

– perché «scoprii che alle ragazze piacciono i ragazzi che corrono forte». Sa quello che dice, visto che di fidanzate ne ha due: una, a Saint Kitts e Nevis, lo ha reso padre. L’altra sta negli Stati Uniti. Piccolo problema, i test antidoping lo trovano positivo al salbutamolo. È asmatico e a tradirlo sono stati l’inalatore e il fatto che la sua federazione si sia dimenticata di renderlo noto prima della gara. I giudici della Commonwealth Games Federation lo assolvono all’unanimità, lui si lascia andare a un comunicato molto diplomatico: «Ciò che è successo è stato un’importante lezione per me, una lezione da cui dovrebbero imparare tutti gli atleti». Due anni dopo, nella stessa intervista in cui spiegherà le nobili ragioni che l’hanno spinto a correre, sarà più diretto: «Man, I tell you, I was crying like a little bitch». Resta la sua unica ragione di attrito con l’antidoping.

 



Nella storia ci entra a Parigi, il 25 agosto 2003. Durante l’inverno, ha già portato a casa un argento sui 60 metri ai Mondiali indoor. In estate ci sono i Mondiali all’aperto. Allo Stade De France sono giornate piuttosto strane, perché una nuova regola sulla falsa partenza preoccupa tutti. A farne le spese sono l’americano Jon Drummond, che inscena una protesta clamorosa, e un giovane giamaicano di nome Asafa Powell. Maurice Greene, campione olimpico e vincitore delle ultime tre edizioni dei Mondiali, viene eliminato in semifinale, così come Ato Boldon. Anche Collins fatica in semifinale, come due anni prima nei 200. E, come allora, in finale si prende la prima corsia. Probabilmente è il più tranquillo di tutti: i due favoriti sono Dwain Chambers e l’americano Tim Montgomery, che l’anno prima ha fatto il record del mondo ma di lì a poco sarà squalificato per doping. Entrambi mancheranno il podio. Sono tutti tesi, impauriti dalla possibilità di fare una falsa. La conseguenza è la finale mondiale più lenta di tutti i tempi: 10’’07, come Carl Lewis quando vinse nell’edizione inaugurale del 1983. A piombare sul traguardo davanti a tutti, con un centesimo di vantaggio sul giovane trinidegno Darrel Brown e sul britannico Darren Campbell, è Kim Collins. L’uomo più veloce del pianeta oggi è lui, che sorride e guarda le tribune: «C’è più gente in questo stadio che nell’isola in cui sono nato». Da allora, ogni 25 agosto a Saint Kitts e Nevis si celebra una nuova festa nazionale: il Kim Collins Day.

 


La finale dei 100 metri ai Mondiali di Parigi 2003.




 

Il mondo scopre questo sprinter strano, in miniatura, che si diverte a fare il deejay e non è esattamente un cultore del sacrificio: «Se non ho voglia di allenarmi, avverto l’allenatore e lui lo apprezza». Il suo tecnico si chiama Glen Mills e l’anno dopo inizierà a prendere i tempi di un giovane giamaicano di nome Usain Bolt. Collins ha tutto per diventare un personaggio planetario: è simpatico e spigliato, parla volentieri di tutto. Racconta della sua famiglia, una madre e undici figli di cui lui è il sesto. «Ma mamma non li ha fatti tutti in una volta. Mio padre non lo conosco, lei ogni tanto aveva un fidanzato diverso». Racconta con orgoglio del suo Paese: «Staranno tuti cantando, bevendo molto e fumando altrettanto. La più bella festa dalla conquista dell’indipendenza». Collins ha tutto, anche un fisico normale e non un ammasso di muscoli, vene sporgenti e bicipiti sospetti.  Non fa pesi, perché «è troppo noioso». Non solo: «Non prendo proteine o vitamine. Non credo in quella roba. Uso la mia velocità naturale». Già, questo è il problema. La velocità naturale. Ne ha da vendere, al punto che ha vinto un Mondiale allenandosi – sosterrà lui in seguito – tre volte alla settimana. Ma basta solo a portarlo a 9’’98, venti centesimi da un record mondiale che lui non avvicinerà mai. E questo al pubblico non piace. Gli anni Ottanta e Novanta hanno generato una passione esagerata per i record. Ormai la qualità di un atleta si valuta solo sulla sua capacità di avvicinare o battere un primato del mondo. A nessuno importa più la vittoria del Mondiale, l’impresa di essere il migliore del pianeta nel momento giusto. Se la prestazione non è clamorosa, significa che la gara è stata scarsa e che quel titolo non significa nulla. Tanto più se si corre in 10’’07, un tempo che tutti si sentono in grado di fare, anche chi nemmeno possiede scarpe da ginnastica. Un anno dopo, nel corso della solita lunghissima intervista al Guardian, Collins replica così: “La gente parla del tempo lento come se significasse che non sono degno [del mondiale]. Ma il detentore del record del mondo era in finale. Aveva le capacità di correre in 9’’7. Avrebbe vinto. Dwain Chambers c’era. Aveva il potenziale di correre in 9’’8. Avrebbe vinto. Bernard Williams aveva le potenzialità per andare più forte di me ma non l’ha fatto. Quindi, perché dovrei sentirmi male?”.

 



In un altro mondo, con un’altra cultura sportiva, Kim Collins sarebbe stato preso a modello di atleta dopo una vittoria del genere. Conosce i suoi limiti, li accetta e cerca di vincere rimanendo entro il loro confine. «Non direi mai che sono il migliore al mondo. Ma direi che sono il più costante». L’aveva affermato nel 2004, da campione del mondo in carica. Lo ribadirà dieci anni dopo, in un’altra intervista, parlando di come affrontare Usain Bolt: «Tutti pensano che per batterlo si debba correre in nove secondi e mezzo. No, bisogna solo essere lì quando lui corre più piano di te. Potrebbe correre in dieci secondi, e tu potresti vincere con 9’’99».

 

Ma Kim Collins deve fare i conti con il mondo in cui vive e non con quello dei sogni. Il pubblico vuole vedere i leoni sbranarsi, pretende i crono incredibili. Non si tifa per l’impresa di chi vince una medaglia dalle retrovie, ma per chi massacra il cronometro. Lo stadio olimpico di Atene 2004 è pieno di fenomeni giganteschi, il piccolo Collins si difende come può. In finale fa dieci secondi esatti, due centesimi dal suo personale. Il sesto posto, un risultato su cui fior di atleti lavorerebbero una vita, è visto come la dimostrazione che Kim Collins è solo un intruso nel mondo dell’atletica.

 

E come intruso viene vissuto l’anno successivo, a Helsinki 2005. L’obiettivo proibitivo è difendere l’oro. Il record mondiale è sceso a 9’’77, ma il suo detentore, Asafa Powell, non c’è per infortunio. Imprevisti che capitano, a chi carica troppi pesi in palestra. Collins con i pesi si annoia e a Helsinki ci va senza acciacchi. Mentre gli altri giocano a ruggirsi in faccia, non troppo forte perché sta piovendo e la capitale finlandese è un’enorme pozzanghera, lui lotta con le unghie e con i denti per passare un turno dopo l’altro. In semifinale ci entra con l’ultimo tempo di ripescaggio. In finale ci arriva come ultimo della sua batteria, con un centesimo di margine sul quinto. Nessuno lo considera per le medaglie, tutti guardano al duello tra gli americani Gatlin e Leonard Scott, aspettandosi qualche possibile intrusione di Obikwelu o del giamaicano Michael Frater. Gatlin effettivamente vince, rifilando un distacco netto a Frater che chiude alle sue spalle. Ma con lo stesso tempo di Frater, 10’’05, arriva Collins. Nessuno lo aveva visto, in seconda corsia, e lui è andato a prendersi il bronzo. È la terza medaglia filata ai Mondiali. Non fa clamore, perché un campione del mondo uscente che arriva terzo non lo fa mai. Ma intanto Saint Kitts e Nevis resta nel medagliere. Davanti ai taccuini, Collins è serafico: «Devi sapere vincere da uomo, e anche perdere. Non ti uccidi perché sei sconfitto. Io a casa ho dovuto staccare il telefono, perché tutti chiamavano e mi chiedevano di vincere per loro. Già, io fatico e loro brindano. Non potevo dare di più». Inizia ad affiorare la stanchezza. Ha 29 anni, non è più un ragazzino. Ha già ottenuto tutto quello che poteva sognare. Non scende sotto i 10 secondi da due anni, ma con tre medaglie iridate ha mostrato che non è necessario farlo per togliersi delle soddisfazioni: basta esserci sempre, prima o poi gli altri un passo falso lo fanno. Serve la pazienza, ma lui è “il più costante” e non ne difetta.

 


La finale dei 100 metri ai Mondiali di Helsinki 2005.


 

Arrivano alcuni anni di flessione, dove le ombre sono più delle luci. Ai Mondiali di Osaka 2007 Tyson Gay strapazza Powell nei 100 e diventa l’ultimo a battere Bolt nei 200. Collins non riesce a qualificarsi per le finali. Si riprende l’inverno successivo conquistando un altro argento ai Mondiali indoor, sempre nei 60 metri. A Pechino, stringendo i denti, riesce ad agguantare la terza finale olimpica, stavolta nei 200 dove chiude sesto e lontano da Bolt. Nel 2009, a Berlino, non raggiunge nemmeno le semifinali. A fine stagione, stanco, annuncia il ritiro. Ha 33 anni, è stato il più grande atleta nella storia di Saint Kitts e Nevis, si è sposato, ha tutto.



 



Lontano dall’atletica dura poco più di un anno, poi torna a gareggiare. Ha 35 anni, un’età rischiosa. Lo allena la moglie, con cui affronta le prime sedute di palestra. A febbraio 2011 fa il personale sui 60 metri, 6’’50. Poi comincia a preparare i Mondiali all’aperto, che si disputeranno a Daegu in Corea del Sud. Non va molto forte: da otto anni non scende sotto i 10 secondi, impresa che nel 2011 è riuscita a venti sprinter più giovani di lui. Ma in estate molti di loro si sciolgono come neve al sole. Powell e Gay, muscolosi e fragili, si rompono prima ancora di partire. Il giamaicano Steve Mullings, oro a Berlino 2009 in staffetta  4x100, viene squalificato a vita perché dopato e recidivo. In Corea, Collins passa i turni con sorprendente e inedita facilità fino ad arrivare in finale. Come quando aveva vinto il Mondiale, la regola sulle false partenze è appena stata cambiata. Ora si squalifica da subito, senza offrire un’amnistia al primo errore. La regola serve a favorire le televisioni, che non possono perdere minuti preziosi per colpa delle false, e i velocisti più forti ma meno abili in partenza, che rischiano di essere innervositi se qualcuno scatta sul filo o anche prima. Bolt scatta addirittura un decimo prima dello sparo, impreca, si strappa la maglietta. La regola che poteva aiutarlo l’ha appena condannato. E con lui ha condannato anche le tv, costrette a trasmettere una finale priva dell’uomo-simbolo dello sport mondiale. A gara archiviata ha raccontato: «È una serata triste per l'atletica. Quando ho capito che era stato lui a fare la falsa partenza  per un attimo ho pensato che lo avrebbero salvato, e che avrebbero detto che c'era stato uno sbaglio dello starter o il cattivo funzionamento di qualche attrezzatura tecnologica. Era il campione olimpico e mondiale, tutti qui volevano vederlo». Lo stadio inizia a svuotarsi, a nessuno interessa quello che succede se non ci sono i record.

 

Sulla linea di partenza sono tutti scioccati, nervosi e indecisi come otto anni prima a Parigi. Allo sparo, Collins esce dai blocchi come una scheggia. Culla l’illusione della vittoria fino ai 60 metri, poi il giamaicano Yohan Blake lo supera al doppio della velocità. Sul traguardo deve cedere pure all’americano Walter Dix, ma è comunque bronzo. È la quarta medaglia individuale in un Mondiale all’aperto. Pochi ne hanno vinte di più, anche tra chi aveva tempi molto migliori. A 35 anni e 144 giorni è diventato il più vecchio medagliato mondiale in una gara veloce. Potrebbe bastare così, ma la vera impresa coreana arriva a fine rassegna, il 4 settembre 2011. Nell’ultimo decennio, sull’onda dei successi di Collins, l’atletica di Saint Kitts e Nevis ha cominciato a crescere. Non ha creato fuoriclasse, ma atleti decenti sì. E così, un minuscolo Paese caraibico di 50.000 abitanti partecipa alla staffetta 4x100. Di mattina, i quattro moschettieri capitanati da Collins fanno il record nazionale e riescono ad agganciare l’ultimo posto disponibile per la finale. La sera si accomodano in prima corsia. È la stessa che Collins aveva dieci anni prima a Edmonton e la stessa di Parigi, quando in una notte magica aveva messo in fila il mondo. I piccoli caraibici partono, mentre a centro pista la Giamaica corre verso il record del mondo inseguita da Usa, Gran Bretagna, Francia e Trinidad e Tobago. Saint Kitts e Nevis, seminata l’Italia con una seconda frazione eccezionale di Collins, se la gioca con la Polonia per il sesto posto. All’ultimo cambio, lo statunitense Darvis Patton urta contro il britannico Harry Aikines-Aryee e cade, rallentando la corsa di Trinidad e Tobago. Escono di scena Trinidad, Usa e Gran Bretagna. La Francia arriva seconda, mentre alle sue spalle Saint Kitts e Nevis resiste per un centesimo al ritorno della Polonia. Una realtà di 50.000 abitanti è riuscita a produrre una staffetta da medaglia mondiale. Non era mai successo, chissà quando ricapiterà. Il merito è soprattutto di un vecchio sprinter, capace di partire da zero e costruirsi una carriera da campione. Ha avuto pazienza, è stato “il più costante”. E il tempo gli ha dato ragione.

 


La finale della 4x100 uomini ai Mondiali di Daegu 2011.


 

Nel 2012 i vertici federali di Saint Kitts e Nevis sono stati capaci di cacciare da Londra un tizio così. Una scelta surreale, che sembrava aver abbassato il sipario su un atleta a cui dovevano tutto. I mesi successivi non sono stati facili, per Collins. A inizio 2013, la polizia ha ucciso suo fratello che aveva preso in ostaggio moglie e cognata. Tornato in patria per il funerale, l’ex eroe è stato arrestato per presunti ritardi nel pagamento degli alimenti alla madre dei suoi primi figli (ma pare che fosse in regola).

 


Poi è arrivata l’ora di tornare in pista. Il 4 luglio 2013, a 37 anni suonati, Kim Collins ha migliorato il suo primato personale: 9’’97, un centesimo meglio di quanto fece a Manchester nel 2002 per combattere gli sprinter di Sua Maestà. Nell’inverno 2014 si è migliorato sui 60 indoor, scendendo a 6’’49. La scorsa estate ha migliorato di nuovo il suo record sui 100: 9’’96. E’ l’uomo più vecchio mai sceso sotto i 10 secondi. L’ultimo inverno l’ha passato nelle sale indoor di tutto il mondo. Ha gareggiato come un ossesso, scendendo in pista tutte le volte che poteva. «Molta gente ha detto che dovrei lasciare. E alcuni rimpiangono di aver lasciato. Dovrei ascoltare qualcuno che non ho mai incontrato, che mi dice di abbandonare il lavoro che amo? Dovrei essere matto». Collins non è matto e deve anche mantenere sei figli, con il lavoro che ama. In sala ha vinto nove gare di seguito e ha ottenuto i quattro migliori crono mondiali del 2015. Ha migliorato il suo personale due volte in meno di un mese: 6’’48 il primo febbraio, 6’’47 il 17 febbraio.

 


Kim Collins fa il suo primato personale sui 60 a Lodz, in Polonia.




 

Mentre in pista continuava a ottenere risultati clamorosi contro atleti di generazioni sempre più lontane, non ha smesso di rilasciare dichiarazioni mai banali. È intervenuto più volte sul doping, su cui si era espresso anni fa: «Da quello che so, queste droghe ti restringono i testicoli. E io non posso permettere che si restringano! Voglio diventare vecchio e avere un sacco di nipotini che mi corrono intorno». Ha attaccato Powell quando, squalificato nel 2013, ha sostenuto di essersi dopato a sua insaputa: «Ogni volta che escono delle positività, gli atleti si inventano sempre strane scuse» ha affermato, invitando il giamaicano a “essere uomo” e ad ammettere le sue responsabilità «come ha fatto Dwain Chambers». E il riferimento al britannico, uno dei simboli mediatici dei mali dell’atletica, non è casuale. All’epoca della squalifica, Collins fu uno dei pochi a dimostrargli simpatia: «Ci sono rimasto male come se fosse capitato a me. È un bravo ragazzo, non avevo sospetti. Davvero non so cosa dirgli per farlo sentire meglio». Poche settimane fa ha spezzato una lancia anche a favore di Gatlin, nonostante sua moglie/allenatrice abbia più volte attaccato gli atleti al rientro da squalifiche: «Tutti meritano una seconda chance, non solo nello sport ma anche nella vita».

 

La sua dichiarazione è arrivata qualche settimana dopo le parole di fuoco di Bolt, che si era espresso per la squalifica a vita per Tyson Gay. Ma Collins, da battitore libero, non ha timori reverenziali per il re dello sprint. E, se crede, attacca lui come tutti gli altri. A luglio, indignato per l’ostinazione con cui gli atleti più forti continuano a evitarsi nei meeting, ha detto qualcosa che la Iaaf dovrebbe ascoltare attentamente: «Nascondersi gli uni dagli altri uccide la gara e lo sport. Il getto del peso è diventato più emozionante dei 100, perché raramente vediamo tutti i migliori sulla linea di partenza. Questa non è boxe, è corsa. Confrontarci è il nostro mestiere».

 

Il suo confronto decisivo Collins lo ha avuto in patria il 13 giugno 2015. In segno di distensione con la federazione, ha accettato di partecipare ai campionati nazionali di Saint Kitts e Nevis. Tra gli altri c’erano Antoine Adams, Brijen Lawrence e Jason Rogers, i suoi tre compagni di staffetta a Daegu. La gara più veloce mai disputata a Saint Kitts e Nevis, diceva la locandina. E Kim Collins, a 39 anni, ha vinto in 9’’98, come quando aveva un terzo delle primavere in meno e doveva diventare un eroe nazionale. Era inevitabile che andasse così: quella finale si è disputata al Kim Collins Stadium. D’altra parte, lui l’aveva detto qualche mese fa: «Per vincere bisogna essere pazienti. Io lo sono di natura e questo mi ha aiutato per tutta la vita. Non sono troppo preoccupato da questi giovani atleti e dalla loro impazienza».

 

 

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