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Sandro Modeo
Luciano Spalletti e l'approdo all'isola che non c'è
08 mag 2023
08 mag 2023
Tutto il percorso che ha portato l'allenatore del Napoli allo Scudetto.
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Sandro Modeo
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IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
(foto) IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
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“Seconda stella a destra, questo è il cammino

E poi dritto fino al mattino

Poi la strada la trovi da te

Porta all’isola che non c’è…”

Sono i versi iniziali dell’Isola che non c’è, pezzo-icona di Sono solo canzonette, il concept in cui il napoletano doc Edoardo Bennato riflette, attraverso una geniale rilettura di Peter Pan, sulla necessità della tensione utopica, nell’individuo come nella società: sull’impossibilità di accettare passivamente violenze e ingiustizie, così come il mondo e la natura umana le impongono. Ora Luciano Spalletti sembra averla finalmente trovata, la sua “isola che non c’è”, e proprio nella Napoli di Bennato: nel senso di un’“utopia realizzata” qual è uno scudetto vinto a Napoli a 33 anni di distanza da Maradona, con un gioco tra i più esaltanti della stagione a livello europeo. Ma nel 1980, anno remoto di uscita dell’album, forse non aveva nemmeno cominciato a cercarla, se non in qualche “cantuccio” - per usare un suo toscanismo- dell’inconscio, magari ascoltando la canzone. In quel momento, Spalletti è solo uno dei tanti, tantissimi anonimi calciatori di provincia agli inizi, un ventenne centrocampista della Cuoiopelli, Santa Croce sull’Arno. Un’idea vaga dei suoi tratti la si può avere in una delle poche foto in bianconero, comunque di cinque anni dopo, all’Entella Bacezza di Gian Piero Ventura (C2): magrezza da cursore, impercettibile curvatura cifotica, una precocità sia nella stempiatura incipiente (compensata o meglio malcelata da una chioma beat sulle spalle) sia nello sguardo già “adulto”. La seconda precocità, però, la leggiamo oggi, a posteriori, secondo il classico bias di riconferma. Lucio, Boccaccio e Napoli “in senso inverso” Com’è noto Spalletti è di Certaldo, il borgo- ora cittadina- della Val d’Elsa che ha dato i natali a Giovanni Boccaccio. Giocando con questa coincidenza-comunanza (e coi corsi e ricorsi di un altro napoletano, Giambattista Vico), si potrebbe rimproverare a “Lucio” - suo nickname storico- di non “averci pensato prima”; di essere approdato a Napoli così tardi, addirittura dopo i sessanta. Boccaccio vi arriva infatti, al contrario- e in modo decisivo per la sua parabola- appena quattordicenne, per fare pratica mercantile col padre, socio della Compagnia dei Bardi. Più di quella pratica, però (o dei corsi di diritto canonico), conteranno l’apprendistato poetico sotto il grande Cino da Pistoia e quello erotico con la Madonna Fiammetta della famosa elegia, forse avvistata la prima volta- con relativo coupe de foudre- alla funzione del Sabato Santo 1336, in San Lorenzo Maggiore. Rientrato a Firenze tredici anni dopo, al fallimento dei Bardi, Boccaccio conserverà di Napoli un ricordo estatico, di città “lieta, pacifica, abbondevole e magnifica”. Tanto che nel Decameron– scritto subito a ruota dell’irruzione della Morte Nera, la peste del 1348- il capoluogo campano sarà una presenza non secondaria sia come location esplicita (la novella di Andreuccio da Perugia) che per gli scorci e le atmosfere disseminati un po’ ovunque: tant’è che Pasolini, per il suo Decameron- primo episodio della cosiddetta “Trilogia della vita”- deciderà di girare a Napoli tutte le nove novelle del film, come se la luce e il genius loci della città fossero il vero contrappasso all’oscurità pandemica della peste (a ben guardare, un altro piccolo “corso/ricorso”, con questo scudetto arrivato all’uscita dal COVID-19). Quando “Spallettone” arriva a Napoli, due anni fa, è un tecnico “ormai vecchio” (ipse dixit), rubricato, nonostante i trofei vinti, in quel girone purgatoriale insensatamente intitolato ai “perdenti di successo”, come Eriksson o- a lungo, sic! - Jürgen Klopp. L’esito felice dell’approdo sarà lo stesso del concittadino narratore, ma in senso spaziotemporale inverso: alla fine, non all’inizio del percorso. Maledetti toscani Tutta la prima parte della parabola di Spalletti- forzando la mano: il trentennio che va dalle giovanili della Fiorentina come calciatore all’Udinese/2 come coach, che pure si chiude con uno storico quarto posto e relativo accesso alla Champions- è una lunga immersione provinciale: cerniera fisica e simbolica, la città di Empoli, ultimo team in cui Lucio gioca e primo in cui allena per quattro anni, portando il club dalla C alla A e salvandolo alla penultima giornata (siamo nel ’97-’98).

Fin lì, Spalletti è quindi- se non, di nuovo, uno dei tanti- uno degli “esemplari” più connotati nella specie dei mister toscani (maledetti e non, per stare al pamphlet di Malaparte) che affollano il panorama del coaching italiano. Inquadrato nell’insieme, lungo diverse generazioni, è un gruppo folto e agguerrito, al suo interno molto contraddittorio, che al netto dei diversi risultati e/o della diversa incidenza-influenza tattico-filosofica, vede varie province ben rappresentate: i fiorentini (Sarri, Spalletti stesso, Ulivieri); i molti “versiliani”, con prevalenza di massesi (Lippi, Fascetti, Orrico, Baldini e Andreazzoli); i livornesi (Mazzarri, Sonetti, Allegri); qualche “cane sciolto” come il senese Alessio Dionisi. Giusto per citare i principali. È una convergenza che ricorda quella tedesca nella Foresta Nera (Klinsmann, Löw e Flick, Rangnick e Klopp, e così via) e che ha diverse concause: oltre al caso, le “catene” di trasmissione lungo le storie societarie, con l’incidenza di amicizie/affinità (processo che ha inciso anche in altre aree e regioni, come l’Emilia Romagna); lo spiccato campanilismo, che allena alla leadership e alla competizione; persino- ma senza esagerare, cioè in ottica in parte antibreriana- qualche venatura antropologica: lo stesso “maledettismo” toscano descritto da Malaparte. In quel gruppo, Spalletti ha a lungo intrattenuto e probabilmente intrattiene ancora un’amicizia particolare con Silvio Baldini, cui lo legano tratti non solo “esterni”: la stessa panchina dell’Empoli (e il rapporto con la città); la capacità di accettare soste e sabbatici senza forzare incarichi “a ogni costo”; la pedagogia di un coaching teso a incidere sul comportamento prima e più che sulla tecnica e la tattica (Baldini- qui ai limiti del demagogico- vorrebbe sempre atleti “semplici, sinceri, altruisti”); l’affezione comune per le “radici” e per un pragmatismo di fondo che faccia da contrappeso all’ossessività insita nel mestiere: “quando ci sentiamo- ha ricordato Baldini- non parliamo di schemi del 3000, la cosa più importante è sapere come stiamo”. Anche se poi, per fortuna, il tecnico massese arriva a contraddirsi, sostenendo- lui, per tanti aspetti ruvido e prosaico al limite del greve- di vivere il calcio come “qualcosa di metafisico”. Unico (eventuale) motivo di contrasto, la passione venatoria: Baldini non disdegna le levatacce alle quattro per andare “a caccia di colombacci coi volantini” (i secondi sono piccioni addestrati per catturare i primi); il padre di Spalletti, morto prematuramente, era un magazziniere di vetreria e soprattutto un guardacaccia, la cui eredità più preziosa è una quercia nel giardino della casa di famiglia, che oggi si staglia nella “panoramica” dal terrazzo. Una quercia che Lucio segue e fa seguire con una dedizione maniaca, come si trattasse del letto nuziale- intagliato in un ulivo- di Ulisse e Penelope. La “dimensione-Baldini” di Spalletti è ben sintetizzata in un dialogo con Gianni Mura nel ’97 (su Repubblica), ultimo anno sulla panchina dell’Empoli portato in A: lì infatti affiora già- ancora rustica, a spatolate scabre- la sua vena da aforista ironico. Ragionando di “mercato povero” - tra giocatori altrui solo sognati e i suoi migliori venduti per far cassa- risponde con un immagine collodiana: «Il mio babbo diceva che nella vita bisogna sapersi contentare, e io ho sempre pensato che più di una bistecca al giorno non mangio e quindi me ne frego della mucca intera». E schermandosi da certe iperboli che lo riguardano- è il periodo dello striscione “Zeman più Sacchi uguale Spalletti”, che lo imbarazza- riassume pragmatico: «Io faccio la zona perché, tolto Ventura, tutti i tecnici che mi hanno allenato erano zonisti, perché sono convinto che sia la scelta più vantaggiosa per la copertura degli spazi, ma anche perché non so fare altro». Ma la “dimensione-Baldini” - il mondo agreste dei colombacci e dei volantini- a un certo punto gli andrà stretta: resterà come uno strato, una “base” cui si sovrapporranno altri strati e altre cromìe, a comporre una personalità complessa, per certi versi tortuosa. Roma/1: il Capitano falso nueve e le montagne russe prima della Russia Il primo passaggio romano coincide col primo salto dimensionale di Spalletti: il grande club e la grande città. Com’è noto, quel quadriennio ha molte più luci che ombre, nonostante i sarcasmi mourinhiani del 2009 sugli “zeru tituli”: i primi successi di peso (due Coppe e una Supercoppa nazionali); i preziosi premi individuali (Panchina d’oro e Allenatore dei Sogni 2005, miglior allenatore AIC 2006-07) e soprattutto l’articolarsi di un’architettura di gioco dal brand inconfondibile, tale da finire in un libro di culto come La piramide rovesciata di Jonathan Wilson, dove- a inversione della sentenza velenosa di Zeman, secondo cui sarebbe Totti ad aver “inventato l’allenatore Spalletti”- il Capitano appare solo grazie alla genialità del suo coach. Anche se - è quasi tautologico- si tratta di un manicheismo sterile, perché quel team è co-plasmato da coach e Capitano. Come ricorda Wilson, quella Roma è strutturata su un 4-1-4-1 con Pizarro playmaker davanti alla linea difensiva (Cassetti-Chivu-Mexés-Panucci) e dietro a quella mediano-offensiva (Taddei-Perotta- De Rossi-Mancini), e Totti come falso nueve a dissolvere i confini tra punta e centrocampista offensivo (o trequartista), con movimenti atti a creare lo spaziotempo di ingresso-fraseggio dei compagni. A rigore- conclude Wilson tra esattezza e ironia- potremmo parlare, se non di un 4-6-0, di un 4-1-5-0. Il tutto, va sé, in un neo o post-sacchismo fluido come non mai; ma su cui, nel tempo, Lucio praticherà integrazioni e variazioni molto sofisticate.

Le ombre, più che sul campionato - tre secondi posti, uno via Calciopoli, un altro perso all’ultimo col pareggio “shock” al Massimino ovvero ex-Cibali di Catania- si allungano soprattutto sull’Europa, in un patema esteso a tanti tecnici italiani di prima fascia (vedi Conte): a certi exploit memorabili (il doppio 2-1 sul Real negli ottavi di Champions 2008), corrispondono, con andamento da montagne russe, crash squassanti come il 7-1 subito all’Old Trafford nel ritorno ai quarti dell’anno prima, dopo il 2-1 dell’andata all’Olimpico. Quarti finiti in un'altra Bibbia laica del calcio contemporaneo, The Mixer di Michael Cox: il quale, in un’analisi paradossale, rafforza e enfatizza la descrizione di Wilson. Secondo Cox, infatti, il 7-1 di Old Trafford- ritenuto comunque da Sir Alex il top dei suoi match europei- sarebbe una prova muscolare da ricordare soprattutto per le performances individuali di Carrick (playmaker “profondo”, con tanto di doppietta) e di Alan Smith come “ariete vecchio stile”. Mentre l’andata - da cui sir Alex avrebbe tratto una delle sue tante lezioni tattiche- sarebbe da ricordarsi proprio per il 4-6-0 spallettiano e l’oltranza a-posizionale del Capitano. La genesi del falso nueve è materia complessa, da studiare partendo almeno da Hidegkuti nella grande Ungheria di Sebes; ma, nel Millennio, Lucio è arrivato, anche se in modo diverso, prima di Pep nel Barça con la Pulce. Proprio l’origine di Totti falso nueve- ben ricostruita da Dario Saltari su Ultimo uomo- aggiunge del resto un tassello ulteriore sullo Spalletti della Roma/1. Il giorno è il 18 dicembre 2005, match a Genova con la Samp: con tutto l’attacco ko (Cassano, Montella e Nonda, unica alternativa il sedicenne Okaka), Lucio prova il Capitano in quel ruolo, e il Capitano segnerà (finale: 1-1). Particolarmente interessante la giustificazione. “…avvicinare Francesco all’area di rigore è come mettere la volpe vicino al pollaio: trova sempre lo spazio per creare terrore”. Bilanciata da un perfido controcanto- senza compiti di rientro/marcatura, il Capitano darebbe anche “più equilibrio” alla squadra- è una delle ultime metafore rustiche, collodiane. Dopo l’amico Silvio Baldini, Spalletti lascerà anche Totti al suo destino di “provinciale” in senso calcistico (anche se lo ritroverà più tardi, nelle circostanze tossiche del “lungo addio”). Perché, piaccia o meno, Totti alla fine è stato soprattutto un dominus “locale”. Lo Zenit: le notti bianche e il “piccolo capolavoro” Pietroburgo è la città che sprovincializza una volta per tutte Spalletti, che lo trasforma in un vero coach-viandante: in questo senso, è la tappa-chiave della sua crescita, del suo avvicinamento all’“isola che non c’è”. E anche qui - come per Napoli- si può giocare utilmente con la Storia e le ricorrenze-coincidenze. La città tra il Baltico e la Neva viene infatti fondata da Pietro il Grande a inizio ‘700 - e poi completata da Elisabetta e Caterina- soprattutto su matrici olandesi e italiane; in Olanda, lo zar stesso soggiorna a lungo, mutuandone suggerimenti decisivi per l’organizzazione portuale. Gli italiani incidono invece nell’architettura: in particolare, lascia un segno Francesco Bartolomeo Rastrelli, nato accidentalmente a Parigi ma figlio di un “fiorentinissimo” ingegnere. Il suo touch- fusione tra barocco moscovita e “moda italiana”, rubricato dagli storici dell’arte come “barocco elisabettiano” - trionfa praticamente ovunque in decine di edifici, come il leggendario Palazzo d’Inverno, le monumentali regge di Peterhof e Carlskoe Selo, o- meno citato- l’onirico Convento Smolny, sublime anche solo da certe foto aeree, in cui riluce fiancheggiato dalla Neva. Ora, si dà il caso che questo imprinting si rispecchi proprio nella storia dello Zenit e della Nazionale russa a metà del decennio scorso, quando irrompono due olandesi: Dick Advocaat, che porta lo Zenit al primo titolo nazionale (a meno di non considerare quello dell’84, in era sovietica); e Guus Hiddink, che costruisce la sua Russia insinuante-avvolgente, la “matrioska meccanica” (copyright Luca Valdiserri) di Euro 2008, il team che lascia nella memoria il miglior calcio del torneo pur uscendo in semi con la Spagna (poi campione) di Aragonés. Ed è lungo quella new wave che si inserisce Spalletti, portando allo Zenit risultati inediti per la squadra e per sé: altri due campionati (un terzo perso per i punti tolti nel match con la Dinamo Mosca, causa incidenti provocati dai pietroburghesi), più una Coppa e un Supercoppa russe. Il felice esito agonistico è congruente con la felice integrazione di Lucio e della famiglia nella città. A spronarlo al salto è la moglie Tamara (mai nome più idoneo), quando gli suggerisce che “casa è semplicemente dove noi possiamo stare insieme”; proprio a Pietroburgo, non a caso, nascerà nel 2011 la “principessa Matilde”, terzo arrivo dopo il “sensibile bestione” Samuele e l’“autoritario chitarrista” Federico”. Gli Spalletti vivono la città “con gioia e interesse”, tra il verde del quartiere di residenza e gli interminabili tramonti-alba delle dostoevskijane “notti bianche”, lungo le quali- nota Spalletti- “molti negozi restano aperti e la gente fa jogging nei parchi”. Certo, tutto questo si ridurrebbe a meravigliosa cornice romantica se lo Zenit - vantaggio non trascurabile sui competitor - non disponesse delle risorse finanziarie maneggiate da Aleksandr Dyukov, Presidente del club e manager di Gazprom Neft. Perché è vero che all’arrivo di Lucio il roster è impoverito dalle partenze di due top-player (che poi torneranno) come l’ucraino Tymoschukh (al Bayern) e il meraviglioso Arshavin (all’Arsenal); ma il tecnico può disporre, oltre che del decisivo Danny, di Rosina dal Torino e del rientrante Kerzhakov, lungo un flusso di spese che porteranno il club, in quattro anni, a 163 milioni di passivo. Kerzhakov, per inciso, è la cerniera ideale per riassumere il lavoro tecnico-tattico di Spalletti, dato che lo impiegherà come falso nueve alla Totti, facendo tesoro dell’esperienza romana. Non tutti i passaggi del transito pietroburghese, in realtà, registrano versioni univoche. In un’intervista in cui divaga sul calcio russo (a Fabrizio Bocca, di nuovo per Rep), Lucio si dice molto soddisfatto del training, specie dei dieci minuti di briefing quotidiano in cui esprime- in un gramelot tra russo e inglese - i “due-tre concetti-chiave” del giorno, prima del lavoro di campo. Qualche giocatore, al contrario, eccepisce, sentendosi imbrigliato dalla tattica e non cogliendo davvero gli input: il centrocampista Rjazancev, ad esempio, nota come col successore Semak tutti i giocatori capiscano finalmente con più chiarezza, rispetto a Spalletti, “cosa fare in difesa e cosa in attacco”. E’ probabile, però, che in quei mismatch abbiano inciso la lingua stessa e/o il poco tempo trascorso da Rjazancev col tecnico italiano: come dimostra, a controprova, la testimonianza di Giuly, che dopo lo spaesamento e l’estraneità iniziali («mi sembrava di vivere in un videogioco che si ripeteva identico ogni mattina», una specie di “giorno della marmotta”) ammette come quel training 11 v.11 “mimetico” dei match domenicali si traduca via via in agio assoluto: «Tutti sapevano alla perfezione cosa fare».

Riassumendo il fantastico biennio pietroburghese iniziale, Lucio non ricorda tanto il primo scudetto (quello celebrato a zero gradi con look “putiniano”: torso nudo e collana da tamarro), quanto il secondo, “un piccolo capolavoro”, sia per la difficoltà di una stagione lunga (in via di sincronizzazione con la stagionalità europea), sia per la rimonta-monstre sul CSKA, da -7 a +15. Tanto che ne ricava un saldo positivo in lunga durata: «Ricordo che quando arrivai qui due anni e mezzo fa un po’ di apprensione c’era, mi facevo domande. Ora mi sento diverso, cambiato e rafforzato da questa esperienza». Significativo che Spalletti parli di “piccolo” capolavoro; forse sa - in un cantuccio dell’inconscio- che quello grande (l’approdo all’“isola che non c’è”) deve ancora arrivare. La Roma/2, l’Inter e oltre: i pieni e i vuoti ovvero il Tao del calcio Dopo lo Zenit, Spalletti attraversa il primo tunnel “sabbatico”, esteso tra l’exit pietoburghese (10 marzo 2014) e il rientro nella Capitale (14 gennaio 2016). E un secondo tunnel verrà attraversato più avanti, tra il 30 maggio 2019 (exit dall’Inter) e il 29 maggio 2021 (approdo a Napoli). Sono due “vuoti” della parabola piuttosto lunghi (22 mesi il primo, due anni secchi il secondo), da intendersi quasi in senso taoista, che aiutano a spiegare il penultimo e l’ultimo Spalletti: e questo perché in quelle “vacanze” più o meno forzate il tecnico ha continuato a studiare, a aggiornarsi, a ri-interrogarsi, come dimostrano le nuove architetture e i nuovi design degli ultimi team. Nessuno, forse, può raccontare il “ritorno a Roma” di Spalletti (2016-17) meglio di Walter Sabatini, il ds che lo richiama a “medicare” la squadra reduce da tre diverse delusioni e/o incompiute: l’altro Lucho ovvero Luis Enrique, lo Zeman/2 e Rudi Garcia. Ex giocatore e poi ds leggendario, Sabatini è figura anomala nel calcio, specie nel nostro: lettore forte (i tragici greci e Pasolini, Kafka e Borges, Faulkner e Joyce), è circondato da un’aura noir tra maledetta e “esistenzialista”, che lui stesso vive tra il narcisismo e l’auto-parodia, con look a un tempo naturale e studiato, a base di capelli e barba incolti, sigarette e orologi di lusso. Nel suo denso memoir (Il mio calcio furioso e solitario, appena uscito per Piemme) racconta di sé e degli altri con sguardo insieme spietato ed empatico, con un disincanto accentuato dopo “la morte in faccia” del 2018 (ennesima, grave crisi respiratoria). Rispetto alla rentrèe di Lucio, non si limita a descriverne successi e affanni: da un lato, cioè, la rapidità con cui fa cambiare passo alla squadra sintonizzandosi con l’ambiente attraverso un “entusiasmo controllato, ma autentico”; dall’altro, il Calvario-stillicidio del contrasto col Dux all’interminabile e infinitamente procrastinato passo d’addio. Coglie, più in generale, l’occasione per disegnarne un chiaroscuro psicologico, quasi psicanalitico, partendo dal mix (inevitabile) di profondità e amletismo: «Il nuovo tecnico era percorso dai dubbi, probabilmemte mai risolti, dato il suo carattere di uomo sapiente, inquieto e sempre alla ricerca di un centro, che invece gli appartiene spontaneamente per intelligenza e sensibilità». In quest’ottica, diventa meno criptica anche la spallettiana “retorica comunicativa” acquisita nel tempo, quelle conferenze stampa-fiume cariche di metafore, digressioni, allusioni-sospensioni: «Spalletti riempie i suoi ragionamenti di colla, forse per evitare pericolose frane sotto l’influenza del suo tormento. È un istrione e istrioniche sono le sue rappresentazioni, che comunque guardano sempre a un obiettivo: la costruzione e stabilizzazione di un’idea di calcio complessa ma affascinante». Il ritratto si completa con un vero “esercizio di ammirazione”, quando Sabatini ricorda i colloqui col tecnico («…ogni giorno non vedevo l’ora che raggiungesse il mio ufficio, dopo il secondo allenamento della giornata. I fugaci incontri con lui erano quanto di più stimolante ci potese essere») o la contemplazione del training dalla terrazza di quello stesso ufficio, con «le evoluzioni della squadra alla ricerca dell’idea di calcio che Spalletti avrebbe perseguito e realizzato senza esitazione». I risultati di quella rentrée saranno nel complesso eccezionali: girone di ritorno-record (e terzo posto) nel 2016, campionato successivo con record giallorosso di punti (87) e gol (90, Dzeko capocannoniere con 29) e secondo posto. Ma questo non basterà a proseguire il rapporto. Il discrimine sarà proprio il “lungo addio” del Capitano e il relativo conflitto col coach, incentrato sui motivi che sappiamo. Riassumibili nel tasso eccessivo di “anarchia-indolenza” mostrato da Totti dentro e fuori dal campo, e nella nota eruzione finale del tecnico: “L’altra volta ti ho permesso tutto, Francesco [riferimento alla Roma/1], ora non più. Devi correre come gli altri, anche se ti chiami Totti”. Secondo Sabatini, è difficile se non impossibile individuare responsabilità univoche nel degenerare della situazione, ma alla fine riconosce come a patirne sia soprattutto il tecnico, il cui torto sarebbe quello di provare a lottare contro “un’entità metafisica” (curioso, lo stesso aggettivo con cui Silvio Baldini descriveva il calcio). Secondo altri, Spalletti sarebbe semplicemente reo di aver detto “il re è nudo”, come il bambino nei Vestiti nuovi dell’Imperatore di Andersen; secondo i fan e i tottiani, ça va sans dire, Lucio si merita al contrario- per lesa maestà- gli insulti e le intimidazioni diretti a lui e alla famiglia. Fatto sta che stremato, la terra bruciata all’intorno, Spalletti non potrà che allontanarsi di nuovo dalla capitale (salutando tra l’altro un altro Baldini amico, il dirigente Franco) e seguire Sabatini all’Inter.

Dove - come ricorda Alfonso Fasano su Rivista Undici- riprenderà e affinerà le partiture tecnico-tattiche della Roma/2, rendendo ancora più avvertibili evoluzioni e differenze rispetto al passato. Il brand della Roma/1- “la manovra agile e verticale costruita su Totti centravanti associativo”- viene definitivamente sostituita da “una versione diluita”- perché più lunga nelle distanze- del gioco di posizione: costruzione dal basso, ricerca della superiorità con servizi tra le linee e attacco delle difese schierate preferibilmente sulle catene laterali. Il tutto in parziale continuità col 4-2-3-1 di Pioli: parziale, perché la manovra è “molto più cerebrale, meno rapida ma più multiforme”, dove per multiforme s’intende aperta a un maggior numero di opzioni/soluzioni. In particolare- aspetto decisivo in funzione dello step successivo a Napoli- Lucio comincia ad affinare la ricerca su ritmi, cadenze e timing dell’ ensemble: vedi, ad esempio, l’accelerazione (proprio sulle fasce) solo a superiorità posizionale guadagnata, premessa-chiave sia per aumentare l’efficacia dell’incursione, sia per meglio organizzare la riaggressione in caso di palla persa. Impossibile, qui, non pensare a Pep, soprattutto al Pep post-Barça, di Monaco e ancor più di Manchester, dove questi aspetti sono studiati all’ossessione. Nonostante due buone stagioni- con altrettanti quarti posti e la Champions riportata all’Inter dopo sette anni di digiuno- anche qui, come a Roma/2, il percorso si interrompe. L’ultimo tratto verso l’ “isola che non c’è” va in un’ altra direzione. L’ “isola che non c’è” L’interregno Ancelotti-Gattuso (2018-2021) è stato, con tutto il rispetto- al netto del COVID-19 e di una Coppa Italia di Ringhio- una sospensione del discorso cominciato da Maurizio Sarri; discorso da cui Luciano Spalletti, arrivando a Napoli, invece riparte. Lo ha riconosciuto, più volte interrogato sul tema, lo stesso Lucio, in particolare nella conferenza pre-partita di Napoli-Lazio del 2 marzo scorso, in cui riassume semina e tratti condivisi col Comandante (“cultura di lavoro”, “modo di stare in campo”, “andare in tuta”), connotandone l’effetto-break (“Sarri è stato un Masaniello”) e inchinandosi in generale alla sua fascinazione estetica (“Sceglievo sempre il Napoli di Sarri, ero sul divano ad applaudirlo”) e alla sua sapienza geometrico- tattica: “Sui campi di Castel Volturno ci sono ancora le linee di passaggio del suo Napoli, e quando la palla le segue, arriva più velocemente”. Tra le righe, però, alcuni sottili distinguo, che ci riportano al “nuovo” Spalletti: “Possesso palla, non possesso palla, è stato un tema. Ti dà la possibilità di decidere dove andare a giocare la partita, poi bisogna saper alternare ritmi e dimensioni del possesso, ma sono discorsi un pochettino più profondi. Bisogna saper alternare, anche il calcio verticale”. Del resto, il Comandante sembra “la cerniera perfetta” già a livello biografico: verso Lucio, perché sono coetanei (’59) ed entrambi fiorentini; verso Bennato, perché anche Sarri è nato a Bagnoli, col padre gruista all’Italsider, dove quello del cantautore era un impiegato; e verso Sabatini, perché anche Sarri è un grande lettore (con certi autori in comune, vedi Bukowski) e per le uscite abrasive, che però nel Comandante scadono a volte in toni “alla Céline”, come nelle sparate misogino-omofobe. Il “debito” verso Sarri - soprattutto come spartiacque nell’era De Laurentiis, più che per un’eredità filosofico-tattica divisa appunto tra continuità e cesure- non depotenzia minimamente la portata del (capo)lavoro di Lucio, che è poi il capolavoro della sua carriera, ben più consistente del “piccolo capolavoro” di Pietroburgo; così come non la depotenzia il ricordare- come abbiamo già fatto- che la dominanza incontestabile degli azzurri in A si sia trasformata in fuga con distacchi da tappa alpina anche per implosioni, crisi e/o acerbità dei contender /(Juve, le milanesi, le romane). Né, per finire, va sminuita la forza del gruppo e dell’ambiente: la “cazzimma”- non sempre amabile, ma spesso necessaria- di De Laurentiis; la competenza e l’intuitività di Cristiano Giuntoli, il ds più inseguito al mondo; il contributo dell’intero staff a livello tecnico-atletico e psicologico (esemplare, ad esempio, la gestione della pausa lungo il Mondiale qatariota e dell’insidioso post, capace di ritardare la canonica flessione dei team spallettiani). Ma questo scudetto è marcato, su tutti, da Luciano Spalletti: è l’equivalente- ha suggerito giocosamente Sabatini- di un Caravaggio; riferimento non casuale, se il pittore ha toccato proprio a Napoli alcuni dei suoi vertici. E a impressionare, in quest’esito, è la naturalezza, quasi la fatalità con cui tanti, se non tutti, i tasselli e le conoscenze di una vita trascorsa nel calcio - e beninteso, della sottostante, incessante ricerca- sono andati a convergere nell’architettura prodigiosa di questo team, come tanti affluenti lontani verso un grande fiume che scorra solenne senza mai uscire dagli argini. A ben guardare, si tratta di un’eccezione. I coach “anziani”- dopo i 50, e più ancora dopo i 60 - si irrigidiscono di norma nella reiterazione manieristica delle proprie idee o dei propri principi o schemi; al massimo, diventano dei savant capaci di tirar fuori dalla “cassetta degli attrezzi” ogni tipo di soluzione, dal bus davanti alla porta al pressing alto (vedi, in forme diverse, un Hiddink o un Ancelotti). In Lucio, invece, quella ricerca mai finita, inscindibile dagli amletismi descritto da Sabatini, lo ha portato a raggiungere la “quadratura” - il risultato attraverso il gioco- a 64 anni, età massima per un coach scudettato; l’età, appunto, in cui tanti altri coach ricordano o rimpiangono, mentre lui progetta e sperimenta ancora.

In questo, certo, decisivo è stato il poter disporre di giocatori “funzionali” all’emersione di quel design sofisticato, insieme possente (quando tutto gira) e delicato (nei meccanismi). Com’è stato ripetuto all’ossessione, l’uscita di giocatori di riferimento certi, anche se in parte logori (Mertens, Insigne) apre via via- specie in questa stagione- a una serie di incognite, almeno per i non addetti (ma in buona parte anche per gli addetti: tra le eccezioni, l’amico Rudi Ghedini, che in un assolato tweet agostano parla di “capolavoro di Giuntoli” e “Napoli da scudetto”): una doppia K consolidata (Kalidou Koulibaly) lascia il posto a quella di un promettente ma semi-oscuro georgiano (Khvicha Kvaratskhelia), sovrapposta alla K singola di un sudcoreano (Kim, idem). Invece, quella che avrebbe potuto rivelarsi, in teoria, anche un’Armata Brancaleone, diventa l’orchestra più adeguata alla nuova “concertazione” spallettiana: a quella sintesi armonizzata di conoscenze che fa confluire l’inevitabile sacchismo delle origini, gli esperimenti della Roma 1 e 2 e lo studio recente degli sviluppi della funzione Cruijff-Guardiola (l’evoluzione del gioco posizionale) e di quella Sacchi-Klopp (pressing e gegenpressing), arrivando a quel brand inconfondibile di tessiture e ritmi. La continuità col lavoro all’Inter è evidente (costruzione bassa, binari laterali, etc.etc,.), ma con molto accentuata prossimità tra le due fasi (possesso & pressi

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