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Breve storia del disastro di Spalletti in Nazionale
09 giu 2025
Un'esperienza durata meno di quello che pensavamo.
(articolo)
13 min
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IMAGO / AFLOSPORT
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Piovuto dal cielo tra le mani della Federcalcio con le sembianze di un regalo inatteso e immeritato, fresco campione d’Italia e soltanto in apparenza in pace con il suo lato più oscuro, Luciano Spalletti era sembrato, finalmente, l’uomo giusto al posto giusto. Gabriele Gravina, che non aveva visto arrivare (davvero?) la slavina delle dimissioni ferragostane di Roberto Mancini, si era trovato così in condizione di sostituire il commissario tecnico del trionfo di Wembley e del tracollo di Palermo con quello che, con parere sostanzialmente unanime, sembrava il miglior nome possibile e immaginabile.

Aveva avuto il sapore di una di quelle carte di Monopoli che ti regalano l’uscita gratis di prigione: la Federazione si era legata mani e piedi a Mancini, che non era semplicemente il commissario tecnico ma anche, da una decina di giorni, il supervisore di Under 21 e Under 20, coordinatore di un lavoro realizzato in sintonia con Maurizio Viscidi, messo a capo delle altre selezioni giovanili. La struttura federale era venuta giù con un colpo di vento eppure, con un guizzo, si era manifestato Spalletti, non senza un braccio di ferro con Aurelio De Laurentiis, a dire il vero durato nemmeno troppo. Dopo nemmeno due anni, però, siamo di nuovo qui, con i piedi nel mare soltanto a pensare che siamo tutti falliti.

È il momento che il Paese dei 60 milioni di commissari tecnici preferisce, quello in cui si sente l’odore del sangue, in cui si invocano le dimissioni di tutti. Le invocano gli anziani al bar e al seggio elettorale, i più giovani al mare e sui social, ma anche ex allenatori, ex dirigenti, aspiranti nuovi dirigenti in interviste che si ripetono tutte uguali, basta solo cambiare la data in fondo al pezzo. Si dimetterà, anzi, risolverà il contratto, anche Spalletti, che ha già detto che martedì finirà di riscuotere il suo stipendio dopo aver prestato servizio per la patria, con quel tono melodrammatico che non lo ha mai abbandonato.

Non si dimetterà, invece, Gabriele Gravina. Non lo aveva fatto dopo la Macedonia del Nord e dopo l’Europeo, figurarsi adesso, reduce da un’elezione che lo ha visto trionfare con percentuali bulgare, presentatosi da candidato unico per il triennio che lo porterà a chiudere i suoi dieci anni da presidente federale: era arrivato al posto di Tavecchio dopo il periodo di commissariamento federale post Svezia, non se ne andrà ora, forte di quel 98,7% di voti che dovrebbe far riflettere non tanto sul suo nome e sul suo progetto, quanto piuttosto sul fatto che qualunque alternativa non sarebbe che l’emanazione di quel 98,7%. Ma cosa ha combinato, Spalletti, per dilapidare tutto quello che ha costruito nel corso di una carriera che, negli ultimi vent’anni, non lo aveva più visto sbagliare una stagione?

IL MIGLIOR SPALLETTI POSSIBILE?

L’inizio dell’avventura spallettiana è ammantato della retorica che sembra appartenere da contratto a qualsiasi allenatore una volta ricevuto l’incarico: «A 11 anni, durante il Mondiale di Messico '70, chiesi a mia mamma di cucirmi la bandiera dell'Italia. Spero di restituire quel sogno a tutte le migliaia di bambini che seguono la Nazionale», dice in una conferenza stampa di presentazione in cui lascia anche una di quelle massime preparate a tavolino: «Forse non sarò il migliore allenatore possibile per la Nazionale, ma sarò di sicuro il migliore Spalletti possibile».

Al suo arrivo, la situazione è complessa: all’orizzonte c’è la Macedonia del Nord (di nuovo) nel cammino di qualificazione a Euro 2024, percorso reso complesso dalla sconfitta all’esordio con ancora Mancini in panchina contro l’Inghilterra (1-2 a Napoli, nella serata della prima di Retegui post naturalizzazione, con gol). Prendendo l’undici azzurro mandato in campo a Skopje da Spalletti per la sua prima panchina da commissario tecnico e confrontandolo con quello annegato sotto la pioggia di Oslo meno di due anni dopo, troviamo la miseria di cinque nomi: Donnarumma, Di Lorenzo, Bastoni, Barella e Tonali. Quella sera segna Ciro Immobile, capitano per via del calcolo delle presenze: sarà l’ultima apparizione azzurra per l’allora centravanti della Lazio, con l’Italia folgorata a nove minuti dalla fine da una punizione del carneade Bardhi, oggi centrocampista del Bodrumspor. E anche a voler buttare un occhio ai cambi, quella squadra sembra un’altra rispetto a quella attuale: dentro Zaniolo, Scalvini, Gnonto, Biraghi e, per sessanta secondi più recupero, Raspadori.

Sempre nel corso della presentazione, Spalletti si era mostrato ottimista: «Eredito una buona Nazionale, l’Europeo vinto, 37 partite senza sconfitta, i giovani lanciati. Bisogna prendere le distanze dall’idea di credere di non essere nel grande calcio. Conta il lavoro che fai, vogliamo fare un calcio che ci assomigli, quello di una nazione forte». Oggi, dopo mesi (anni?) di sottovalutazione degli avversari, Gravina di colpo fulmina Spalletti andando a ribaltare quel concetto: «Dobbiamo riconoscere la superiorità della Norvegia, una delle più forti in assoluto degli ultimi anni a livello di qualità, fisico e atletico. Sono più forti di noi. Si può anche perdere, ma bisogna capire come. Un approccio diverso, con il fuoco dentro a cui fa riferimento Buffon, doveva portare a un epilogo diverso. E questo modo non lo accetto. Ci siamo trovati a preparare la gara contro una corazzata in un modo che non meritava una gara così importante».

Almeno all’inizio, Spalletti sembra coltivare le sue idee. Sceglie il 4-3-3 con cui aveva vinto lo scudetto a Napoli, batte l’Ucraina a San Siro pochi giorni dopo il pari di Skopje con una doppietta di Frattesi che sembra già premiare il lavoro svolto, con Raspadori scelto a fare il centravanti e il tentativo, a posteriori disperato, di recuperare Zaniolo. Le due partite decisive sono in programma rispettivamente a ottobre (Inghilterra-Italia) e a novembre (Ucraina-Italia da giocare sul neutro di Leverkusen). A Wembley c’è ancora il tridente, stavolta con un centravanti vero come Scamacca, l’Italia convince per un tempo, va avanti proprio con un gol dell’atalantino, poi l’Inghilterra alza le marce e tanti saluti. «Abbiamo fatto la partita con le intenzioni giuste, ma troppo spesso siamo condizionati dal risultato. Bisogna crescere negli episodi che il confronto europeo ti mette davanti: sui duelli fisici bisogna reggere botta», dice nell’immediato post partita.

Con l’Ucraina serve almeno il pari per prendere il secondo biglietto che porta agli Europei. L'Italia arriva col fiatone, con un possibile fallo di rigore di Cristante ignorato all’ultimo istante. Al fischio finale Spalletti è una statua di sale, dice che non c’erano gli estremi per il penalty e che l’Italia non ha rubato nulla, anche se la qualificazione è percepita più come un sollievo che come una conquista: «Abbiamo strameritato la qualificazione». È anche l’ultima partita in cui si vede il 4-3-3 fino all’inizio dell’Europeo.

Inizia a montare, nell’opinione pubblica, la voglia matta di difesa a tre. In fin dei conti il campionato è dominato dall’Inter di Simone Inzaghi e Spalletti ragiona già in prospettiva Europei, con la possibilità di ripartire esattamente dal terzetto arretrato nerazzurro, con Darmian a coprire il buco lasciato da Pavard. Nella tournée americana di marzo, contro Venezuela ed Ecuador, schiera l’Italia con il 3-4-2-1. A fine maggio, a ridosso delle scelte definitive, Spalletti pronuncia una delle frasi che in queste ore più ricorrono, a mo’ di meme, sui social: «Penso che il blocco Inter sia fondamentale per noi, e menomale che c'è l'Inter che ancora crede in quello che è il talento italiano. Averne sei della stessa squadra è tanta roba, non è più come una volta che la Nazionale era formata da giocatori di Inter, Juventus, Milan, al massimo Roma. Ora ci sono calciatori di Genoa, Bologna. Insomma, vengono da tutte le parti. Avere qualcuno che poi giocando si guarda con gli altri e dice 'Siamo noi e ci si può fidare perché lo abbiamo già fatto vedere con lo Scudetto' diventa un vantaggio».

Due giorni dopo, Francesco Acerbi comunica che dovrà saltare l’Europeo per via della pubalgia. E Spalletti, all’improvviso, inizia a pasticciare. Nelle due amichevoli con Turchia e Bosnia che precedono l’avventura tedesca alterna due sistemi di gioco (4-2-3-1, 3-4-2-1). Il campionato ha anche visto l’esplosione di Calafiori e le convocazioni del CT diventano uno strano ibrido: contando anche Di Lorenzo e Darmian, ci sono potenzialmente sette difensori centrali per la linea a 3 (Buongiorno, Calafiori, Bastoni, Gatti, Mancini) più Bellanova, Dimarco e Cambiaso. Ma ci sono anche esterni d’attacco come Chiesa, Zaccagni ed El Shaarawy, quest’ultimo utilizzabile teoricamente anche come quinto. Si parte per la Germania senza avere certezze.

MORIRE PER DELLE IDEE (ALTRUI)

In un mondo normale, con il CT in sella da nemmeno un anno, l’Europeo dovrebbe essere una tappa del percorso per arrivare con le idee chiare ai Mondiali del 2026. Ma siamo campioni in carica e questo pesa in tutte le valutazioni. L’unico teorico punto di contatto con l’Italia di Mancini pare essere la volontà di controllare il possesso palla, ma poi?

Con l’Albania la retroguardia è a quattro, l’Italia va subito sotto, riemerge, vince, ma è un brodino. Con la Spagna finisce 1-0 solo perché Donnarumma para anche le mosche. Di Lorenzo gioca una partita tragica al cospetto di Nico Williams, Jorginho si dimostra parente lontanissimo del giocatore dell’epoca manciniana, Chiesa e Frattesi non vedono una palla. Terrorizzato da una partita da incubo, Spalletti rinuncia a sé e contro la Croazia mette in campo un 3-5-2 che puzza di paura a distanza di chilometri, con Darmian nei tre dietro e Di Lorenzo a tutta fascia a destra. Regala alla Croazia la partita ideale per i ritmi bassi che esaltano Modric, non a caso autore del gol del vantaggio. È questo il momento in cui il ciclo di Spalletti, nemmeno iniziato, finisce. Arriva la contro-abiura, il ritorno a idee di calcio a lui più consone, premiate dalla magia di Zaccagni che tira giù il gruppo dall’aereo come Baggio nel 1994 contro la Nigeria. Ma è un fuoco di paglia, perché Spalletti ormai è entrato in quel loop di paranoia e negatività che ha segnato tutte le fasi più delicate della sua carriera.

Alle accuse di prudenza reagisce male, malissimo: «Che c'entra la prudenza? Una volta bisogna giocare con tre centrali, un'altra con quattro, noi invece si gioca in tutte e due le maniere». E poi inizia a serpeggiare una voce, quella di un patto con i giocatori per il passaggio alla difesa a tre. Apriti cielo. «Questa cosa ve l'hanno detta, e chi racconta le cose di spogliatoio fa male alla Nazionale... Non è una deduzione, è di sicuro una cosa che vi hanno raccontato. C'è un dentro lo spogliatoio, e un fuori... Ma è chiaro che io con i giocatori parlo sempre, li ascolto: il 3-5-2 è la mia tesi a Coverciano, e questo modulo l'avevamo già provato. Più che un patto, parlo con i giocatori».

Con la Svizzera si torna a quattro dietro e ne esce una prestazione angosciante, l’Italia va a casa con la coda tra le gambe. Se non fosse arrivato soltanto 10 mesi prima, Spalletti sarebbe probabilmente a rischio, ma non ci finisce. Quello che segue è un mini-ciclo illusorio attraversato anche da Roberto Mancini dopo il flop nello spareggio con la Macedonia del Nord: c’è infatti la Nations League che arriva come la pacca sulla spalla di una nonna affettuosa. Nel frattempo Spalletti rivendica la difesa a tre come stella polare da seguire, per il resto si vedrà: due trequartisti e una punta, un dieci e una punta, due punte, che importa, basta percorrere la strada maestra tracciata dal campionato.

Francia-Italia 1-3 è forse il momento migliore dell’intero percorso spallettiano. Ma è una partita di inizio settembre di una competizione sul cui senso si dovrebbe forse indagare fino in fondo. Quando conta qualcosa, a novembre, la Francia restituisce il punteggio e ci manda a giocare i quarti contro una Germania che, pur col brivido in coda al ritorno, passa il turno. Da marzo a giugno passano tre mesi senza nulla, solo ansia e la Norvegia che ci osserva all’orizzonte.

Era il 5 giugno del 1991 quando Azeglio Vicini si andava a schiantare contro l’iceberg norvegese, rendendo sostanzialmente impossibile, a meno di miracoli, la qualificazione a Euro 1992. A Oslo, quel giorno, finì 2-1, mentre l’Under 21 di Cesare Maldini ne prendeva sei dai pari-età. Antonio Matarrese, con in mano già il sì di Arrigo Sacchi, si era sfregato le mani, lasciando il povero Vicini sulla panchina fino al responso dell’aritmetica sul girone, che sarebbe arrivato di lì a poco con lo 0-0 in casa dell’Unione Sovietica. In Norvegia, con ancora la sconfitta calda, il presidente federale aveva preso la parola: «Lasciamolo in pace Vicini, cerchiamo di capire la sua sofferenza. Avremo un franco colloquio, abbiamo uomini e strutture adatti per una ripresa immediata. Il traguardo sono i Mondiali del 1994, se ci qualificheremo. E la squadra sarà affidata a un tecnico di grande esperienza. Parlerò con Vicini sinceramente, confermandogli che non possiamo perdere tempo. Potevo allontanarlo dopo il Mondiale, non mi sembrava corretto. L’Under 21? Menomale che non prendo l’aereo con loro, altrimenti li prenderei a schiaffi. Maldini? Se sarà necessario, cambierò due CT».

Il 6 giugno 2025 Luciano Spalletti è rimasto da solo sotto al temporale, finendo per pagare il conto di tutte le sue indecisioni, anche quelle di una vigilia in cui ha scelto di polemizzare apertamente con Acerbi e Mancini (Roberto, mentre il romanista Gianluca veniva lasciato a casa insieme al laziale Romagnoli nonostante i forfait a ripetizione dei centrali difensivi) quando in palio c’era una bella fetta di Mondiale.

Ieri l’ultima grottesca pagina di questa storia. Gravina che parla con i giornalisti prendendo tempo, traccheggiando in maniera poco credibile, e Spalletti che auto-annuncia l’esonero in conferenza stampa, una scena così assurda che si fa persino fatica a pensare che si sia verificata per davvero, allo stesso tempo umiliante per l’ormai ex commissario tecnico eppure, probabilmente, anche una piccola vendetta servita nei confronti della Federazione che ha scelto di scaricarlo lavandosi le mani dal rischio del fallimento.

Nel frattempo Gravina parlava di progetti da mettere in piedi come se non fosse lui, dal 2018, il numero uno della Federazione: «Dobbiamo valorizzare i giovani. Non possiamo avere tre aree che non dialogano tra loro: area tecnica, club Italia e settore giovanile. Abbiamo 50 centri federali, io li rivedrei. Ci vuole più tecnica, più trasmissione di certi valori, più educazione, un seme nella sensibilità dei ragazzi per far sì che tirino fuori il meglio di sé. Non credo manchi il senso di appartenenza, la maglia azzurra non è un colore ma un'eredità, è storia. Non si indossa con il corpo ma con l'anima: non è tua, ti viene prestata dai vecchi campioni. Ti viene prestata dai bambini che la sognano. Ne sono convintissimo io e la maggioranza che mi ha dato fiducia: non penso a mollare in un momento così delicato. Genererei un ulteriore danno, dobbiamo portare avanti una progettualità. Ci sono talenti: Inacio, Esposito. Per trasformarsi in campioni devono avere l'opportunità e questa gli va offerta con coraggio. Lamine Yamal due anni fa era un giocatore normale, semplicemente ci hanno creduto».

L’ultimo gol azzurro in un Mondiale lo ha segnato Mario Balotelli su assist di Antonio Candreva: il primo va a caccia di qualche contratto chissà dove per chiudere la carriera, il secondo si è appena ritirato. L’ultimo gol in una gara a eliminazione diretta di un Mondiale lo ha segnato invece Marco Materazzi, su un corner battuto da Andrea Pirlo. E lo sfacelo azzurro si è consumato più o meno nelle stesse ore in cui Francesco Totti, in una partita tra vecchie glorie, ha pensato bene di segnare da centrocampo, alimentando un vortice di nostalgia che mai come stavolta è parsa giustificata, la stessa nostalgia che l’Italia aveva cercato di utilizzare come arma prima dell’Europeo richiamando per una visita al gruppo azzurro cinque grandi numeri dieci del passato (Antognoni, Baggio, Del Piero, Rivera e proprio Totti), come se potessero trasferire talento e carisma per osmosi, in un evento che ha sfondato i contorni del cringe.

Ingiustificata e ingiustificabile, invece, è la convinzione che si debba partecipare a un Mondiale come atto dovuto, per diritto di sangue. Lo hanno detto in molti in questi giorni, giocatori compresi. E lo ha ripetuto persino Gravina ieri: «A una Italia senza Mondiale non posso assolutamente pensare». Forse, invece, sarebbe il caso di scendere a patti con la realtà.

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Breve storia del disastro di Spalletti in Nazionale