“Se la gente è così cattiva, forse è solo perché soffre, ma è lungo il tempo che separa il momento in cui smettono di soffrire da quello in cui diventano un po' migliori”.
Louis-Ferdinand Celine, Viaggio al termine della notte
In città c’è un silenzio innaturale, i rumori di sottofondo che accompagnano la vita quotidiana romana vengono annientati dalla tensione. Le strade sono vuote, in uno scenario post apocalittico. Ma in alcune sacche ben precise della metropoli c’è vita, ce n’è parecchia. I più fortunati sono all’Olimpico, gli altri in casa, davanti alle televisioni. Al Circo Massimo sono in duecentomila davanti a un maxischermo allestito dal sindaco Vetere e al pianoforte di Antonello Venditti. Per una volta, Roma è una gigantesca isola pedonale. Nelle sale sta spopolando Voglia di tenerezza, ma al Metropolitan di via del Corso la cassiera deve riconoscere a malincuore che in sala ci sono solamente tre persone. Secondo le cronache dell’epoca, l’unico fronte attivo di resistenza è un cinema a luci rosse in piazza della Repubblica: 250 biglietti venduti. «Il calcio mi fa schifo», afferma uno degli spettatori all’uscita, freddo e spietato. Per il resto, regna ancora il silenzio, perché la Roma sta per giocarsi una finale di Coppa dei Campioni ai calci di rigore.
Nils Liedholm prova a manipolare il destino. Ha appena visto Steve Nicol calciare alle stelle il primo penalty della serie che sancirà la regina d’Europa 1984. Mai una finale aveva avuto bisogno dell’appendice degli undici metri. Il Barone ha portato la Roma più bella di sempre a un passo dal traguardo europeo, così vicina da poterlo sfiorare con le dita. Sono giorni in cui tutto sembra colorarsi di giallorosso. L’ultimo ostacolo prima della finale, il Dundee, è stato superato non senza brividi: 2-0 in Scozia, 3-0 in un Olimpico ancora lontano dal restyling di fine anni ’80.
La rimonta ha dato ulteriori certezze ai campioni d’Italia, che sanno di potersi giocare la finale in gara secca tra le mura amiche. Nonostante il fattore campo, al termine dei 120 minuti non c’è ancora un vincitore. Al gol discusso di Neal ha risposto Roberto Pruzzo con il suo marchio di fabbrica, una torsione aerea dall’elevatissimo coefficiente di difficoltà che ha scavalcato il portiere del Liverpool, l’altra finalista. Con l’errore di Nicol, Liedholm sente di poter guadagnare un enorme vantaggio psicologico passando in vantaggio. Fa fermare Ciccio Graziani, l’incaricato per la trasformazione del primo rigore. «Ha detto il mister che devo tirare io», gli spiega Agostino Di Bartolomei. Il capitano poggia il pallone sul dischetto e realizza con il suo stile inconfondibile. Una botta secca, una sfida alle leggi della fisica: soltanto i materiali dell’epoca impediscono al cuoio di esplodere in mille pezzi quando calcia Ago.
La Roma è in vantaggio e Liedholm forse accenna un sorriso, ignaro di essere parte di una partita psicologica più grande iniziata due ore e mezza prima. A muovere le prime pedine erano stati i giocatori del Liverpool, fermi nel tunnel in attesa degli avversari. «Stavamo aspettando da un po’ e decidemmo di iniziare a cantare una canzone, I don’t know what it is but I love it di Chris Rea, perché Johnson e Souness sono di Middlesbrough come lui. Più il tempo passava, più alzavamo il volume della nostra voce. Quando i giocatori della Roma uscirono, ci guardarono sconvolti. Souness disse: “Penso che li abbiamo in pugno”». A raccontarlo è stato il cattivo della notte dell’Olimpico, un uomo dalle mille sfaccettature, che decise quella serie di rigori senza nemmeno sfiorare il pallone con i suoi guanti. Bruce Grobbelaar, nei panni del cattivo, ci sguazzava come pochi.
La vera guerra
Il passaporto dell’ex portiere del Liverpool, alla voce luogo di nascita, dice Durban, Sudafrica, avamposto cittadino nella costa meridionale del KwaZulu-Natal. Al giorno d’oggi, una delle più pericolose città del mondo. Per riappacificarsi con la zona basta spostarsi di qualche chilometro a nord e ammirare l’oceano nella quiete di Umhlanga o Umdloti, dove non è raro imbattersi in qualche scimmia che attraversa la strada. Grobbelaar, nato il 6 ottobre del 1957, resta a Durban solamente per due mesi. Il padre trova lavoro in Rhodesia, l’attuale Zimbabwe. Fa il ferroviere, e dopo un breve periodo di assestamento convoca la famiglia. «Ho avuto una bellissima infanzia, anche se i miei divorziarono quando avevo dieci anni. Mia mamma lavorava in un negozio di scarpe che poi riuscì a rilevare. Io e mia sorella avevamo tutto il tempo per fare sport a scuola, a sette anni iniziai a giocare a calcio anche se era uno sport di secondo piano rispetto al rugby. Per continuare, fui costretto a unirmi a una vera squadra di calcio. Sono sempre stato un portiere, vedevo gli altri venti pazzi correre su e giù per il campo: a me bastava rimanere in porta e fare il mio lavoro».
Sono letteralmente anni di fuoco, in Rhodesia. L’11 novembre del 1965 il Primo ministro Ian Douglas Smith sigla una dichiarazione unilaterale di indipendenza dal Regno Unito, pur fra le fortissime insistenze britanniche a desistere. Nel maggio dello stesso anno, il Fronte Rhodesiano di Smith aveva trionfato alle elezioni, consegnando ai bianchi ogni tipo di potere politico ed economico. «Sin da piccoli, a scuola, ci veniva insegnato che noi bianchi eravamo superiori ai neri. Frequentavamo scuole separate e le nostre avevano degli standard decisamente superiori. Spiega Grobbelaar a Simon Hughes in Red Machine: «Tutto questo portava ovvie conseguenze: migliori lavori per noi bianchi, perché eravamo più scolarizzati, e via di seguito in un circolo vizioso. Non potevano entrare nei bar per i bianchi, dormire in determinati hotel o mangiare nei ristoranti dove mangiavamo noi».
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, alla luce dei fatti dell’11 novembre, adotta immediatamente la risoluzione 216, ritenendo la dichiarazione di indipendenza un atto portato avanti da una minoranza razzista e invitando gli Stati membri dell’Onu a non riconoscere il nuovo governo. Il Regno Unito richiama l’Alto Commissario a Salisbury (l’attuale Harare), al fianco della Rhodesia si schierano il Sudafrica e il Portogallo di Salazar, che non solo riconosce l’indipendenza ma garantisce sostegno economico e libero accesso ai porti del Mozambico. Le fazioni nere guidate da Robert Mugabe e Joshua Nkomo si ribellano, dando vita a una sanguinosa guerra civile.
Foto di David Cannon / Getty Images.
La svolta arriva nel 1974, con la caduta di Marcelo Caetano, il successore di Salazar. Senza l’appoggio del Portogallo, per il fronte di Smith le cose si complicano. A consegnare Grobbelaar all’esercito è la madre. «Mi convinse ad andare al distretto militare per vedere se avevano bisogno di me, dissero che sarei stato chiamato l’anno successivo. Io volevo andare in Sudafrica per giocare, ma il sergente suggerì a mia madre che c’era un battaglione in partenza la mattina dopo. Mi prese per un braccio e mi consegnò ai soldati».
Grobbelaar viene spedito al confine con il Mozambico, che resta tranquillo ancora per qualche mese prima dell’attacco. «Eravamo abituati a scambiare sigarette e cioccolato con i nostri colleghi. Poi, nel giorno di Natale del 1975, iniziarono a sparare. Durante la guerra impari a prenderti cura di te stesso. Entri nell’esercito pensando di stare al fronte per un anno, poi diventano diciotto mesi, poi due anni. Ho visto morire alcuni miei compagni, altri sono usciti mutilati dal conflitto. È lì che realizzi quanto sia preziosa la vita, sopravvivere diventa un dono. Per questo motivo, quando sono riuscito a diventare un calciatore, scendevo in campo con il sorriso: venivo pagato per giocare. Ripenso spesso al mio periodo nell’esercito, a tutte quelle vite strappate da una guerra di una stupidità assoluta, che poteva essere evitata con un semplice tavolo di negoziazione».
Il sogno di diventare un calciatore gli permette di andare avanti. «A diciotto anni ho dovuto uccidere il mio primo nemico. Quando ero in guerra dicevo ai miei compagni che un giorno avrei giocato in Europa e loro mi rispondevano: “Sì, sogna pure, magari stasera una granata ti stacca la testa”. Quando vivi e superi tutto questo, o diventi matto o hai solo voglia di ridere». Con un vissuto del genere, i rigori dell’Olimpico diventano una passeggiata per Grobbelaar. «Come puoi dimenticare di aver visto buona parte dei tuoi migliori amici morire in guerra? Come puoi perdonare te stesso per aver ucciso un altro essere umano? Ho ancora incubi notturni per questo fatto. Tutto ciò che mi è successo nella vita è insignificante se paragonato ai miei anni nell’esercito».
L’Olimpico
Il Liverpool ha rischiato seriamente di non arrivarci nemmeno, in finale. La doppia semifinale con la Dinamo Bucarest, superata in maniera tutto sommato brillante, ha lasciato non poche scorie nei giocatori di Fagan, provati dallo stile aggressivo dei romeni. «Nessuno ci aveva preparati al tipo di partita che hanno giocato ad Anfield» racconta Ian Rush «in quella semifinale di andata. Ci hanno preso a calci dall’inizio alla fine, abbiamo passato quasi tutto il tempo a volare in aria e a cercare di evitare i loro tackle. Mi hanno preso a gomitate, a pugni. Mi hanno sputato talmente tante volte che a fine gara la mia maglia era ricoperta di saliva». Graeme Souness, tra i migliori in campo, al 77’ coglie un attimo di distrazione dell’arbitro e reagisce, spaccando l’osso mascellare di Lica Movila in due parti. Parola a Kenny Dalglish: «La palla stava uscendo in fallo laterale, tutti guardavano da quella parte e Graeme lo ha colpito. Nessuno lo ha visto, addirittura i compagni di Movila credevano stesse simulando».
Ora che sono arrivati a giocarsi il trofeo ai rigori, quelli del Liverpool non intendono mollare. Rispetto alla Roma hanno dalla loro l’esperienza europea, ma il fattore campo pesa. Grobbelaar riavvolge il nastro di quella notte: «Il rumore era indescrivibile, incredibile. All’inizio si faceva fatica a capire le parole delle persone che erano al nostro fianco. Nicol non doveva essere il nostro primo rigorista, ma Neal aveva un problema con le scarpe. Ci trovammo sull’1-0 per loro e Fagan venne da me. Mi cinse con un braccio e mi disse: «Ascolta, nessuno ti incolperà se dovessimo perdere perché non hai parato un calcio di rigore. Ma se dovessimo vincere, tu diventeresti un eroe. Cerca di farli sbagliare». Neal segnò il rigore dell’1-1, toccava a Bruno Conti». La leggenda del clown cattivo Grobbelaar prende vita nel momento in cui Marazico si avvicina al pallone. Il portiere si avvicina ridendo verso la porta, fa qualche smorfia, morde la rete e cerca di incrociare lo sguardo di Conti, che pur di rimanere tranquillo si gira di spalle. «Improvvisai. Mi sentivo le gambe come due spaghetti flosci, anche la rete sembrava uno spaghetto e così la mangiai. I fotografi erano impazziti, io strizzavo l’occhio e scuotevo la testa. Così Bruno Conti sbagliò».
Per una frazione di secondo, prima del rigore, poco dopo questa gif Grobbelaar e Conti si ritrovano nella stessa posizione, guardando l’arbitro e il centro del campo, entrambi con le mani sui fianchi. Ma la posa del portiere è di sfida, mentre il fuoriclasse giallorosso pare essersi girato soltanto per evitarne lo sguardo.
Il rigore calciato alle stelle rimette il Liverpool in carreggiata. Fa tutto parte della guerra psicologica iniziata negli spogliatoi. «Nell’attesa di tirare i rigori, in mezzo al campo, gli inglesi scherzavano» ha raccontato Bruno Conti a Giovanni Bianconi e Andrea Salerno per L’ultima partita. Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei «mentre noi eravamo arrivati tesissimi. Loro avevano già vinto molto ed erano tranquilli, noi elettrizzati. Grobbelaar rideva e faceva strani versi, come se non gli importasse nulla di come sarebbe andata a finire». Segna Souness, segna anche Righetti. Incredibilmente, vista la poca esperienza del giovane difensore giallorosso, Grobbelaar non replica il suo show prima del rigore. Tocca a Rush, che non sbaglia. È il momento di Graziani, che sembra non guardare mai la danza sinistra del portiere del Liverpool. C’è chi l’ha ribattezzata Spaghetti legs dance. Quando Ciccio alza la testa, Grobbelaar ha già riconquistato la sua posizione normale. Riparte un breve accenno di balletto, ipnotico, fastidioso. Secondo la leggenda costruita attorno alla finale, è qui che Graziani avrebbe perso definitivamente la concentrazione. Con i calzini arrotolati e abbassati per la fatica, l’attaccante spiazza il portiere ma trova l’opposizione della parte alta della traversa. «Aveva bisogno di segnare per pareggiare. Pensai: “Sono a Roma, il piatto nazionale sono gli spaghetti, allora farò finta di avere degli spaghetti al posto delle gambe”. Scelsi di buttarmi a destra e il tiro di Graziani sfiorò la traversa».
Se il video non ci inganna, Graziani incrocia lo show di Grobbelaar soltanto per qualche istante. Sufficiente per condizionarne il tiro? Forse sì. All’inizio del filmato, i famosi crampi che indurranno Falcao a non calciare dal dischetto, da 34 anni uno dei temi ciclici trattati nei bar capitolini, superato soltanto dalle buche e dal gol di Turone.
Il rigore segnato subito dopo da Kennedy consegna la coppa dalle grandi orecchie ai Reds, lasciando la Roma giallorossa nello sconforto. Il concerto di Venditti al Circo Massimo diventa un raduno per condividere l’amarezza, ognuno cerca la propria risposta mistica alla sconfitta. E così, tra chi si aggrappa alla scelta della maglia – Di Bartolomei e compagni sono scesi in campo non solo con la divisa bianca, ma addirittura senza tricolore sul petto – e chi si scaglia contro Falcao, c’è chi indica in Grobbelaar il vero stregone della maledizione europea. Lui che era arrivato in Inghilterra al termine di un giro larghissimo: prima un ingaggio in Canada, con i Vancouver Whitecaps, quindi il prestito al Crewe Alexandra e poi, nel 1980, l’approdo al Liverpool. Con un inizio da dimenticare, per gli errori in due stagioni consecutive in Europa, contro CSKA Sofia e Widzew Lodz. «Ho ricevuto diverse lettere di minaccia. Un tifoso mi scrisse che era pronto a spaccarmi le gambe per i miei errori. Fu uno dei più gentili».
Heysel, Hillsborough, lo scandalo, la bancarotta
Con la maglia del Liverpool ha vinto sei campionati, tre FA Cup, tre Coppe di Lega, cinque Charity Shield e una sola Coppa dei Campioni, quella dell’Olimpico. «Mi hanno fatto passare alla storia come un clown? Io sono ancora qui che rido. Ho paralizzato la Roma, e comunque giocammo molto bene. Voi ricordate solo il balletto – ha dichiarato a Maurizio Crosetti de La Repubblica subito dopo il sorteggio delle semifinali di Champions League che ha rimesso di fronte Roma e Liverpool – ma quella squadra era formidabile».
Un anno dopo la notte dell’Olimpico, Grobbelaar e il Liverpool si trovano ancora una volta in finale contro un’italiana, la Juventus. È la sera della strage dell’Heysel. Lo spogliatoio dei Reds è il più vicino al famigerato settore Z. «Quattro o cinque di noi si affannarono a dare una mano, passammo dall’interno dei secchi d’acqua e prendemmo degli asciugamani dalle docce. Riuscimmo a fare solo questo, ma ormai sapevamo abbastanza per non voler giocare. Uscimmo per la partita e nella mia area di rigore c’erano tre coltelli a terra, li avevano lanciati dal settore alle spalle. Questo era il clima. Eravamo lì, ma con la testa altrove. Sia noi che loro. Alla Juve è stato rimproverato di non aver restituito la Coppa, ma perché avrebbe dovuto? L’errore fu giocare, ma la Juve fece un gol, e la Coppa è sua». È l’ennesima tragedia della vita di Grobbelaar, non l’ultima. «Ero all’Heysel ed ero anche a Sheffield quattro anni più tardi, nel giorno della tragedia di Hillsborough, con 96 tifosi morti. Ogni uomo dovrebbe tornare nei luoghi dei suoi orrori, fare i conti con i demoni, liberarsene. Sono tornato nei posti in cui ho fatto la guerra, in Mozambico, in Zimbabwe, in Sudafrica, e sono tornato anche all’Heysel. C’è una targa, una data, i nomi delle vittime. Non mi pare abbastanza, il Belgio potrebbe fare qualcosa in più per le famiglie degli italiani».
Nel 1994, Grobbelaar passa al Southampton e viene travolto da un mare di fango: due testimoni lo accusano di aver combinato alcuni incontri ai tempi del Liverpool. Uno dei due è Chris Vincent, vecchio partner d’affari del portiere. È un’accusa presentata in maniera anomala, poiché Vincent rivela tutto non alle autorità o alla Football Association, bensì al Sun. La partita su cui si posano le principali attenzioni è Liverpool-Newcastle del 1993: in un’intercettazione ambientale, si sente Grobbelaar accettare duemila sterline come parte del pagamento (quarantamila in tutto). Va a processo nel 1997 insieme agli ex giocatori del Wimbledon John Fashanu e Hans Segers, accusati per altre partite, e all’uomo d’affari malese Heng Suan Lim. Secondo l’impianto accusatorio del procuratore Calvert Smith, Lim e Fashanu avrebbero agito come intermediari per arrivare a Grobbelaar e Segers. Per alterare il risultato di una partita, niente di meglio di due portieri. Il caso si espande, e per l’ex numero 1 del Liverpool vengono citate anche le partite contro Manchester United e Norwich (rispettivamente finite 3-3 e 2-2). Durante il processo, Grobbelaar afferma di avere accettato il pagamento per raccogliere prove contro Vincent. Dopo sette settimane, la giuria non arriva a un verdetto. Si riparte nell’agosto del 1997, a Winchester: i quattro vengono assolti.
A questo punto, Grobbelaar si getta in un’aspra battaglia legale contro il Sun: l’Alta Corte gli riconosce un risarcimento di 85 mila sterline. Una goccia nel mare, visto che negli anni le spese legali hanno superato il milione di sterline. Nel 2002 l’ulteriore beffa: la Camera dei Lord conferma la condanna nei confronti del Sun ma riduce il risarcimento alla cifra simbolica di una sterlina, costringendo inoltre Grobbelaar a pagare 500 mila sterline al Sun per le spese legali. Soldi che non ha. «Sono stato riconosciuto innocente, ma il Sun alla fine ha ottenuto quello che voleva. Loro avevano le risorse per distruggermi, il mio stipendio più alto è stato di 2.800 sterline a settimana al Southampton. La bancarotta era l’unica opzione. La giuria mi ha ritenuto non colpevole, non ho fatto nulla di sbagliato, il mio caso è unico nella storia britannica. E dubito possa accadere nuovamente. Sono arrivato qui con dieci sterline in tasca, me ne vado con una. Ma che vita ho avuto con quelle nove!», ha dichiarato a FourFourTwo nel 2007. In Italia, Grobbelaar rimane il pagliaccio cattivo della notte dell’Olimpico. Al momento del sorteggio, i media si sono scatenati alla ricerca di chi era in campo il 30 maggio del 1984. Ciccio Graziani è stato il più pronto: «Non fu lui a darmi fastidio, ma i fotografi, con tutti quei flash dietro la linea di porta: ero come accecato. Ma se rivedo Grobbelaar lo sistemo per le feste». Il campione del mondo ha passato a De Rossi e compagni il testimone della rivincita: «Il Liverpool è l’avversaria più abbordabile delle tre rimaste, i ragazzi devono cancellare quella maledetta macchia. Me lo sogno di notte quel rigore».