Prima di salire sul podio, Mathieu van der Poel si è lavato, si è tolto da dosso il fango e i vestiti sporchi. Ai piedi del podio passa Silvan Dillier, il fango secco gli copre la maglia di campione svizzero rendendolo quasi irriconoscibile. Sembra un ciclista come gli altri, come quelli che sono appena arrivati al traguardo e si sono accomodati sul prato in cerca di sollievo ricoperti di terra, polvere e fango dalla testa ai piedi. A un primo sguardo sono tutti uguali, nell’aspetto e nella fatica. Silvan Dillier si ferma a parlare con il suo capitano, Mathieu van der Poel, prima che salga sul podio. I due si scambiano poche parole anche se rimangono uno davanti all’altro per molto più tempo. Ciò che colpisce è il modo che hanno di guardarsi, o meglio: di non guardarsi. Come se fossero troppo stanchi anche solo per sopportare l’uno lo sguardo dell’altro. Dillier era arrivato secondo alla Parigi-Roubaix nel 2018 dopo una lunghissima fuga. Era rimasto davanti quando Peter Sagan aveva deciso di andar via da solo e salutare il gruppo con i suoi principali rivali. Sagan aveva recuperato e staccato uno dopo l’altro tutti i fuggitivi della prima ora e alla fine l’unico a rimanergli a ruota all'uscita dell’ultimo settore di pavé era stato proprio Silvan Dillier, che anche quel giorno indossava la maglia di campione nazionale del suo paese. L’insolito duo era arrivato così fino al velodromo di Roubaix, dove Sagan però alla fine ebbe la meglio nella volata per la vittoria.
Quella gara ha qualche reminiscenza di quella che abbiamo visto ieri e chissà che non ci abbiano pensato anche van der Poel e Dillier in quello silenzio assente poco prima del podio. Tre anni dopo, che sembrano un’infinità a ripensarci oggi, un altro fuggitivo della prima ora è riuscito ad arrivare secondo dopo essere stato a lungo in avanscoperta, essere raggiunto dagli altri, staccato, recuperato per strada dal trenino di Colbrelli, van der Poel e Boivin, e portato a ruota per una trentina di chilometri fino a Roubaix. Due vittorie accarezzate e soltanto sfiorate, sognate pur quando era impossibile anche solo concepirle. Sfumate poi nel velodromo contro due campioni di qualcosa: del Mondo, all’epoca, Peter Sagan; d’Europa (e d’Italia), stavolta, Sonny Colbrelli.
Sul podio i tre protagonisti della Parigi-Roubaix si posizionano in senso inverso rispetto alla foto che li ha immortalati mentre tagliavano il traguardo. Van der Poel terzo, alla destra di Colbrelli nella foto, a sinistra sul podio. Dall'altro lato, a specchio, Florian Vermeersch. Nel mezzo, in entrambi i casi, la maglia di Campione d'Europa addosso a Sonny Colbrelli. A vederli così, sul podio, non sembra neanche che siano appena usciti dall'inferno di fango e polvere che hanno appena attraversato. Prima di salirci hanno fatto in tempo a ripulirsi e sistemarsi, per cancellare dai loro corpi i segni di una Parigi-Roubaix bagnata dalla pioggia come non accadeva da 19 anni. Cioè da quando a vincere fu Johan Museeuw, in solitaria dopo un’azione nata quasi per caso in un settore sulla carta fra i più facili da affrontare. Era, insomma, dal 2002 che tutti i tifosi di ciclismo aspettavano la pioggia sulla Parigi-Roubaix, invano.
Fango
Ma l’attesa di questa Parigi-Roubaix, rimandata da aprile 2020 a oggi per via della pandemia, bastava da sola a renderla una delle più sentite dell’anno. Dall’ultima vittoria di Philippe Gilbert nel 2019 sono passati 903 giorni, due anni e mezzo in cui è cambiato il mondo e con lui anche il ciclismo. Sono cambiati i protagonisti e in parte anche il modo di affrontare le gare, con strategie più offensive e meno di attesa.
L'attesa alla fine è stata pienamente ripagata. Che quella di ieri non fosse una Parigi-Roubaix come le altre è stato chiaro fin dalle prime battute. Fin dal giorno prima, a dir la verità, quando già durante la gara femminile era iniziata a scendere la pioggia. E quando le strade si bagnano, alla Parigi-Roubaix significa che i sentieri in pavé diventano una distesa fangosa da dove sbucano delle pietre sconnesse, qua e là. Se già in condizioni normali far scorrere la bicicletta su quelle pietre è impresa degna di nota, quando piove diventa un inferno. Le ruote scivolano via da una parte all’altra, rimbalzano in modo imprevedibile sul terreno sconnesso e quando si cerca un po’ di sollievo ai lati della carreggiata le canaline a bordo strada - solitamente in comoda terra battuta - sono un lungo acquitrino dove pozzanghere e fango si alternano con riprovevole noncuranza per quei ciclisti che provano a passarci sopra.
Sabato, dicevamo, aveva piovuto rendendo la prima edizione della Parigi-Roubaix femminile un lungo calvario per le atlete in gara. L’unica ad aver forse previsto questa situazione di profondo disagio era Lizzy Deignan, esperta ciclista britannica, ex campionessa mondiale. Deignan aveva attaccato in solitaria prima dell’inizio del pavé, per provare ad avvantaggiarsi e percorrere con maggiore tranquillità i primi settori e magari sgravare le compagne di squadra dal compito di tirare il gruppo.
Man mano che si entrava nel vivo della gara, però, quella che sembrava una classica fuga da lontano destinata a un certo punto ad essere annullata, ha preso sempre più consistenza. Non tanto in termini di distacco - perché non siamo mai andati oltre i 3 minuti di vantaggio - quanto per l’impossibilità delle avversarie di organizzare un inseguimento decente nel gruppo dietro. Ci ha provato la Jumbo-Visma di Marianne Vos, la grande favorita alla partenza, ma il continuo e rapido intervallarsi di settori in pavé (al limite dell'impraticabilità a causa della pioggia) rendeva vano ogni tentativo di recuperare terreno. Il vantaggio di Lizzy Deignan quindi invece di scendere restava lì, immobile, chilometro dopo chilometro, settore dopo settore.
Quando Marianne Vos ha dato l’allungo decisivo per staccare le sue avversarie e sgretolare definitivamente il gruppo alle sue spalle, era ormai chiaro che fosse troppo tardi per provare a riprendere Deignan che si è così involata indisturbata verso il velodromo di Roubaix, con le mani sanguinanti per le vesciche che facevano da brutale contraltare al sorriso enorme di chi sa con certezza di aver scritto un pezzo di storia del ciclismo.
Dopo la gara di sabato la pioggia ha continuato a cadere durante la notte e per tutta la mattina. In tanti hanno quindi provato la stessa strategia: anticipare, prendere il pavé con un buon vantaggio sui favoriti e provare ad andare fino in fondo mentre dietro rimangono impantanati nel fango. Un pensiero che hanno fatto in tanti e infatti nella fuga del mattino erano quasi in trenta, con nomi anche abbastanza interessanti dentro: dal veterano Greg Van Avermaet all’esordiente Florian Vermeersch, passando per Ballerini, Tim Declercq, Nils Eekhoff, Bissegger, Daniel Oss e soprattutto Gianni Moscon.
Iniziata la gara, il gruppo davanti ha preso subito vantaggio, anche se mai tantissimo. Come già successo per le donne, il gruppo di testa non se l'è sentita di lasciare troppo margine perché sapeva che in quelle condizioni sarebbe stato difficile andare a chiudere. E infatti il vantaggio del gruppo di testa si è stabilizzato intorno ai 2 minuti scarsi ed è restato lì per lungo tempo, nonostante da dietro i primi colpi venissero sparati già a quasi 120 chilometri dal traguardo.
Il primo ad aprire le danze è il solito Mathieu van der Poel che fa saltare per aria buona parte di ciò che era rimasto del gruppo. Poi ci pensa la Foresta di Arenberg a dare un’altra mazzata: Van Aert resta incastrato nelle retrovie del gruppetto dei migliori e perde terreno. Davanti, invece, comincia ad essere chiaro che i più in forma sono Mathieu van der Poel e un sorprendente Sonny Colbrelli.
Foto di Anne-Christine POUJOULAT / AFP
Il campione italiano segue come un’ombra Van der Poel, gli si incolla alla ruota pur senza mai negargli un cambio. Colbrelli è un ciclista esperto, reso tale dalle tante sconfitte e dagli anni passati a battagliare per qualsiasi piccolo spicchio di gloria. È anche uno che quando piove si esalta: se a tanti ciclisti la pioggia dà fastidio, Colbrelli nella pioggia ci sguazza da sempre come se fosse nato e cresciuto in Irlanda. E quindi quando da dietro Van Aert e il resto del gruppetto rientrano sulla minifuga di Colbrelli, Van der Poel e Boivin, "il Cobra" approfitta del naturale rallentamento per partire di nuovo, senza forzare ma solo per guadagnare un po’ di terreno in vista della prossima probabile accelerata di Van der Poel.
Siamo a circa 80 chilometri alla conclusione e già è successo di tutto. Come era prevedibile con un tempo nel genere, anche i primi settori in pavé che normalmente sono poco più che semplici passerelle in attesa della Foresta di Arenberg, in quelle condizioni diventano degli ostacoli impervi. Con un tempo normale sono settori più semplici perché hanno una larga “via di fuga” in terra ai lati delle pietre che i ciclisti possono sfruttare per evitare di pedalare sul pavé vero e proprio. Ma con la pioggia quelle vie di fuga diventano fango e quindi, forse, persino più difficili dei loro fratelli maggiori. Tratti di strada dove tutto può succedere, dove le pietre del pavé vengono quasi interamente ricoperte dal fango.
Colbrelli prova ad avvantaggiarsi saggiamente, seguito dal canadese Boivin, ma pochi chilometri dopo arriva la bordata definitiva di Mathieu van der Poel che pianta sul posto tutti i suoi diretti avversari e si lancia da solo all’inseguimento. In poche pedalate si riporta sul gruppetto di Colbrelli e tira dritto. Dietro, la Deceuninck-Quick Step si sgretola ma soprattutto Wout Van Aert non risponde all’attacco del rivale olandese e in quel preciso istante diventa evidente che il campione belga verrà definitivamente tagliato fuori dalla sfida per la vittoria.
Trattori e scorpioni
Mentre dietro la battaglia si fa serrata, davanti Gianni Moscon saluta la compagnia e va via. Il sole nel frattempo torna a splendere timidamente sul percorso, ma ormai è troppo tardi. L’azione di Moscon ricorda molto da vicino quella di Lizzy Deignan del giorno prima: sempre intorno a un minuto di vantaggio, con gli avversari dietro che non riescono a trovare le forze - soprattutto mentali - per organizzare un inseguimento. Van der Poel tira praticamente da solo finché non vengono raggiunti Florian Vermeersch e Tom Van Asbroeck, che si mette a disposizione di Boivin ma senza grandi gambe né convinzione. Davanti invece Moscon è da solo e continua a guadagnare qualche secondo ogni tanto. Può spingere senza paura, forse convinto di poter vincere. Van der Poel, invece, sembra meno spensierato, forse sta già pensando al cobra - metaforico e quasi letterale - che lo sta per mordere alle spalle. Eppure, per adesso, Colbrelli rimane sempre molto passivo, quasi come se non volesse fare uno sgarbo al suo compagno di Nazionale e anche perché in fondo a lui starebbe anche bene così, con un ormai quasi certo podio alla sua prima partecipazione alla Parigi-Roubaix.
Foto POLL BERNARD PAPON/Belga / IPA
E forse sarebbe finita davvero così se Gianni Moscon non avesse forato una ruota a pochi chilometri dall'arrivo. Sembra pensarlo lui stesso quando glielo chiedono dopo l'arrivo: alla domanda gli occhi si spengono per un attimo e si perdono da qualche parte. «Who knows», cerca di dire provando a negare quello che la sua faccia sta urlando, e cioè che quasi certamente avrebbe vinto lui senza quella foratura. Il suo vantaggio era rimasto stabilmente oltre il minuto arrivando a poco più di un minuto e venti nel momento della foratura, nonostante la collaborazione data a Van der Poel da Boivin e il suo compagno di squadra. Gli attacchi di Mathieu van der Poel sui settori in pavé - volti a scrollarsi di dosso i suoi compagni d’avventura e provare a lanciarsi da solo all’inseguimento - continuavano ad andare a vuoto e inesorabilmente dopo ogni scatto dell’olandese l’azione del gruppetto rallentava, favorendo non poco la cavalcata solitaria di Gianni Moscon.
Con la foratura, però, oltre ai 20-25 secondi persi per il cambio di bicicletta, Moscon ha perso anche la concentrazione e la cieca fiducia in se stesso. In un colpo solo il suo vantaggio è sceso sotto il minuto e quella vittoria che sembrava quasi certa ha cominciato a far sentire il suo peso e a scivolare piano piano fra le dita. In questo senso, la caduta nel successivo tratto in pavé è sembrata una naturale conseguenza di quella foratura e di tutto ciò che a livello psicologico ha portato con sé. I suoi avversari l’hanno finalmente raggiunto dentro al Carrefour de l’Arbre - l’ultimo settore “vero” di pavé a 15 chilometri dal traguardo - e solo perché a quel punto, proprio per via prima della foratura e poi della caduta, ce l’avevano talmente tanto a tiro che bastava veramente un’azione un po’ più decisa per colmare il distacco residuo. Ed è stato solo nel momento in cui Van der Poel ha ripreso Moscon che Sonny Colbrelli ha provato a sferrare l’attacco decisivo. Un'azione che inizialmente non sembrava decisiva, perché da dietro l’olandese e Florian Vermeersch gli sono subito andati sotto.
Se Mathieu van der Poel è un ciclista noto, a noi come ai suoi avversari in corsa, l’incognita vera per Sonny Colbrelli era rappresentata a quel punto da Florian Vermeersch. Il belga è un ciclista non molto conosciuto, tanto che ancora dopo l’arrivo Colbrelli lo identificherà davanti ai microfoni come «quello della Lotto». In realtà «quello della Lotto» è un ciclista giovane e molto promettente, con un discreto spunto veloce e a cui in fondo piace da buon fiammingo correre sulle pietre. È rimasto in fuga sin dal mattino insieme a Moscon, ed è stato anche in testa alla corsa per vari chilometri da solo con Nils Eekhoff a prendere la pioggia e il vento in faccia. Eppure, dopo 200 chilometri di fuga a giocarsi la Roubaix, è ancora lì. Colbrelli, con quell’attacco sul Carrefour de l’Arbre, sembra quasi più preoccupato per lui che di Van der Poel, paradossalmente, perché dell'olandese conosce forza e limiti, mentre il giovane belga invece non sa come potrebbe comportarsi.
E infatti per tutti gli ultimi chilometri Colbrelli sembra stranamente innervosito dalla presenza di «quello della Lotto» in quel terzetto. Nelle fasi che precedono l’ingresso al velodromo, si volta spesso a controllare Vermeersch tanto che a volte è costretto a dei piccoli rilanci per tornare sulla ruota di Van der Poel - lasciato secondo i piani in testa al terzetto a impostare la volata. Da una parte, forse, Colbrelli ha paura di rimanere chiuso e non riuscire a far la volata come vorrebbe; dall’altra sa che per battere Mathieu van der Poel ha bisogno di fare la sua volata migliore.
Negazioni
È esattamente quello che succede. Dopo il traguardo Colbrelli si tuffa sul prato verde che ricopre la parte centrale del velodromo e urla, con le mani sul volto. Si rotola sul prato, in un misto di pianto e risate, di sfogo emotivo dopo aver corso - e vinto - la sua prima Parigi-Roubaix in carriera. Erano 22 anni che l'inno di Mameli non risuonava dentro al velodromo André-Pétrieux, dalla vittoria, cioè, di Andrea Tafi. Un digiuno lunghissimo e che è sembrato a tratti interminabile - interrotto solo poche volte dalle illusioni di Alessandro Ballan (terzo per ben tre volte) sempre alle spalle di Boonen e Cancellara, dominatori della loro epoca sulle pietre.
Foto POOL ETIENNE GARNIER/Belga / IPA
Dopo 22 anni la vittoria è arrivata invece con l’uomo meno atteso: Sonny Colbrelli non ha il nome di un supereroe di cui innamorarsi né il physique du rôle del personaggio da copertina, nonostante il padre lo abbia chiamato così in onore di Sonny Crockett, detective di Miami Vice. Colbrelli è, nell'accezione più positiva di questo termine, un ciclista normale, con alle spalle una carriera anch'essa perfettamente normale. Non è un giovane in rampa di lancio e nella sua bacheca non figurano molte grandi vittorie prima di questa, anzi. Sonny Colbrelli ha 31 anni suonati e sta vivendo la stagione più bella della sua lunga carriera, per distacco: ha vinto due tappe e la classifica a punti al Delfinato, tappa e classifica generale al Tour del Benelux e poi la doppietta Campionato Italiano ed Europeo. Una stagione che viene al termine di un percorso tortuoso che a volte è sembrato anche destinato a impantanarsi.
Così come la Parigi-Roubaix, però, Colbrelli dopo un percorso lungo, difficile e a tratti fortunato ha trovato quest’anno la sua maturità e la sua dimensione. Fino ad arrivare, con questa impresa, al raggiungimento della vetta. Almeno per adesso, almeno. Quella di Colbrelli non è infatti l’esplosione improvvisa di una meteora destinata a tornare nell’ombra né la vittoria a sorpresa di un Mathew Hayman qualunque (l’uomo che vinse la sua Parigi-Roubaix nel 2016, a 38 anni, in faccia a Tom Boonen, da perfetto sconosciuto). Piuttosto è il frutto che ci ha messo un po' più del dovuto a maturare, con l'intelligenza di chi ha dovuto riempire i limiti del proprio talento con l'abnegazione e la furbizia di chi sa aspettare il momento giusto dalla fortuna. E chissà che fuori da questo inferno di polvere, pioggia e fango, non sia uscito un ciclista nuovo, di cui ancora dobbiamo scoprire il meglio. Lo so che sembra improbabile al momento, ma dopo questa Parigi-Roubaix non ho più certezze.